Premessa
Numerose regioni,
sulla scia della Toscana, anticipano
la riforma nazionale urbanistica
dando vita ad un vero e proprio modello
toscano, una nuova generazione
di norme per rendere l’urbanistica
più flessibile e virtuosa. Il
quadro della legislazione a livello
regionale in materia di governo del
territorio è movimentato e
dinamico, con intuizioni innovative
e riforme urbanistiche profonde; un
quadro ricco di provvedimenti capace
di fornire anticipazioni o,
addirittura, modelli per la
auspicata riforma statale. Il
riordino della legislazione
urbanistica nazionale resta,
infatti, comunque necessario ed
urgente per definire il quadro dei
principi di riferimento onde evitare
che l’esercizio dei poteri
legislativi delle regioni non si
risolva in nuovi conflitti ed
incertezze.
Per la Campania,
purtroppo, agli sforzi compiuti
dagli assessori al ramo che si sono
succeduti nel tempo, non
corrispondono risultati
significativi. Più volte si è
avvertita la necessità e l’urgenza
di un inquadramento programmatico
dell’intervento pianificatorio sul
territorio, di chiarezza nella
definizione e nell’applicazione
delle norme, dello snellimento e
della razionalizzazione delle
procedure. I buoni propositi sono
andati sempre vanificandosi per la
scarsa attenzione che la Regione
Campania ha mostrato per le sue
stesse proposizioni.
La Campania,
quindi, è tutt’ora priva di una
legge urbanistica organica ed è
carente anche nella dotazione di
provvedimenti legislativi in materia
di uso e tutela del territorio. Nel
corso dell’attività legislativa
la regione ha espresso un’attenzione
del tutto episodica ai problemi ed
alle esigenze del governo del
territorio.
Le trasformazioni
realizzate nella regione, e quelle
ancora in corso, sono avvenute in
assenza di una strategia di
pianificazione di livello regionale
e, quindi, di indirizzi di scala
vasta.
Le ragioni di
tali carenze sono riconducibili non
solo ad una generica inefficienza
amministrativa, ma anche al
radicarsi di una logica di
intervento sul territorio che si
aggancia alle emergenze ed
occasioni piuttosto che fondarsi
su una sistematica attività di
governo: che privilegia la spesa,
vale a dire la rapida spendibilità
delle ingenti risorse finanziarie
straordinarie elargite dal governo
centrale per le diverse occasioni ed
emergenze, a scapito della
programmazione; che ricorre alla
predisposizione di elenchi di
opere piuttosto che di adeguati
strumenti legislativi e di coerenti
strategie di organizzazione e
riqualificazione territoriale.
Il primo
provvedimento in materia urbanistica
è stata la LR 17/1974 che poneva
limiti alla edificabilità nelle
fasce costiere fino alla entrata in
vigore del piano territoriale o del
piano regolatore generale.
A tale
provvedimento è seguita la LR
14/1982 che, benché incompleta,
ancora oggi rappresenta l’unico
riferimento per la formazione degli
strumenti urbanistici comunali. Essa
definisce i parametri di
pianificazione da osservare nella
formazione del piano regolatore
generale e dei piani esecutivi.
Nella legge, inoltre, sono del tutto
assenti indicazioni per la
pianificazione di livello regionale
e intermedio, mentre sono solo
citati, quali indirizzi di assetto
territoriale, due provvedimenti: il
documento contenente criteri ed
indirizzi di pianificazione
regionale approvato dal
Consiglio regionale nel 1977 ed il piano
di assetto territoriale della
penisola sorrentino-amalfitana.
In tale provvedimento non si
riscontra alcuna sostanziale
innovazione della disciplina
urbanistica già definita a livello
nazionale, ricalcando gli schemi
tradizionali della pianificazione
comunale, sia in merito ai contenuti
che alle procedure di formazione.
TABELLA
1
Tra i documenti
di pianificazione si ricordano gli
indirizzi per l’assetto del
territorio elaborati da un comitato
tecnico-scientifico istituito dalla
Giunta regionale all’indomani del
sisma del 1980. Si tratta di un
documento preliminare che fornisce
indicazioni generali nel merito dei
settori considerati strategici ai
fini dell’organizzazione
territoriale ed indica i criteri per
l’elaborazione dei piani di
assetto territoriale per l’area
napoletana e l’area più colpita
dal sisma, del cratere, aree
prioritarie indicate dalla legge
219/1981. Il documento, pur
approvato dal Consiglio regionale,
non ha avuto alcuna operatività.
Anche l’occasione della
legislazione dell’emergenza
post-sisma, vista da alcuni come
possibilità di avviare finalmente
un coerente processo di
programmazione e pianificazione, con
l’introduzione di poteri
monocratici e di facoltà
derogatorie ha infatti ulteriormente
indebolito le già fragili capacità
e volontà di governo del
territorio. Invece dei programmi di
sviluppo e dei piani di assetto del
territorio previsti dalla legge
219/1981, si sono prodotti elenchi
di opere che si sono allungati nel
tempo, facendo lievitare
progressivamente i costi della
ricostruzione. In assenza di una
coerente strategia di pianificazione
si è potuto selezionare gli
interventi, in genere grandi
infrastrutture, in maniera del tutto
occasionale.
Nel 1982, quando
con la legge regionale 14 fu imposto
a tutti i Comuni della regione l’obbligo
della formazione del PRG, si sperò
nell’estensione di una disciplina
organica delle trasformazioni a
tutte le scale territoriali. L’assenza
di pianificazione di area vasta ha
condotto alla persistenza delle
condizioni di squilibrio tra le
diverse aree insediative della
regione, con una contrapposizione
tra la fascia costiera più
intensamente urbanizzata e ricca di
potenzialità e le aree interne
depresse e marginali. Gli interventi
di ricostruzione e sviluppo in
attuazione della legge 219/1981, che
hanno riguardato sia insediamenti
residenziali che produttivi, sono
scivolati via senza che si mettesse
in atto alcun tentativo per
invertire la tendenza. La qualità
delle trasformazioni realizzate si
rivela ancora basata su una logica
di crescita quantitativa di
popolazione, abitazioni, strade,
strutture terziarie banali.
Qualche anno dopo
viene affidato l’incarico per la
redazione del piano di assetto
territoriale che nonostante
diverse rielaborazione non è stato
mai sottoposto all’esame del
Consiglio regionale. La sola
iniziativa che ha avuto un esito
positivo, in termini quantomeno di
approvazione formale, è
rappresentata dall’entrata in
vigore, ope legis, nel 1987,
del piano urbanistico
territoriale della penisola
sorrentino-amalfitana (PUT), ai
sensi della legge 431/1985. Il
piano, redatto nella seconda metà
degli anni settanta ed adottato
nella Giunta regionale nel 1977, è
rimasto inoperante per dieci anni.
Recuperato ed approvato al fine
soprattutto di rimuovere il vincolo
di inedificabilità temporanea
apposto con i galassini, è
tuttora privo di una gestione reale.
Pochi comuni, infatti, hanno, a
distanza di più di cinque anni,
provveduto a formare o adeguare il
PRG al PUT, né d’altra parte
Regione Campania e province hanno
adeguatamente sollecitato l’adempimento,
neanche là dove sono stati
esercitati i poteri sostitutivi,
attraverso i commissari ad acta.
Per completare infine questo
sintetico quadro, va ricordato che
la regione non ha emanato ancora
alcun provvedimento per la
attuazione della legge 142/1990, né
per la delimitazione dell’area
metropolitana di Napoli, né per gli
altri adempimenti che la legge
prescrive. In tale quadro vanno
annoverate anche altre iniziative,
comunque collegate all’assetto del
territorio, che non hanno avuto
felice esito, come ad esempio il
disegno di legge che tendeva a
stabilire le funzioni della futura
area metropolitana. Nonostante gli
sforzi prodotti, esso non è mai
arrivato in aula, facendo pensare a
manovre con esclusive finalità
elettorali. Le sole proposte
recentemente concretizzatesi in
legge sono le modifiche al PUT dell’area
sorrentino-amalfitana.
Tra i diversi disegni
di legge (ddil) varati, che
tuttavia non hanno mai varcato la
soglia del Consiglio regionale, i
più significativi, formulati tra il
1976 ed il 1977, riguardano la
formazione di una legge urbanistica
organica e la organizzazione del
territorio regionale in aree
comprensoriali. Successivamente, nel
1882 e, ancora, nel 1986, sono stati
predisposti nuovi disegni di legge
ad iniziativa della Giunta regionale
aventi per oggetto la disciplina
urbanistica del territorio regionale,
ma anche queste proposte sono state
presto abbandonate. Tentativi
falliti si registrano anche nel 1995
e 1997.
Sulla Regione
Campania ricade la responsabilità
di non aver saputo supportare con il
dovuto impegno e con la necessaria
responsabilizzazione, iniziative che
tendevano a fornire nuovi strumenti
di intervento in grado di innescare
un processo che, pur suscettibile di
miglioramento, poteva segnare una
decisiva svolta nella
razionalizzazione della politica
territoriale ed ambientale
regionale.
La speranza è
che, sull’onda del dibattito che
si aprirà sul nuovo ddil in corso
di predisposizione, si ritorni a
discutere e confrontarsi sull’urbanistica,
sul territorio e sull’ambiente
regionale, sulle leggi e sui piani
che si attendono da anni. Si
propone, qui di seguito, un rapido
esame, tutto incentrato sugli
aspetti relativi alla pianificazione
di area vasta, delle proposte di
legge di tutela ed uso del
territorio regionale che, con
alterne vicende, hanno visto la luce
dagli anni ’70 ad oggi. Sarà
immediato rilevare come l’impegno
comunque profuso abbia prodotto
risultati alquanto modesti e di
nessuna rilevanza, né formale né
sostanziale, rispetto alle
originarie, e a volte valide,
intenzioni.
I disegni di
legge regionali del 1976 per la
tutela e l’uso del territorio e
per la suddivisione del territorio
regionale in aree comprensoriali ai
fini della sua pianificazione
Si tratta di due
ddil, tra loro strettamente
connessi, dovuti all’iniziativa
dell’assessore regionale all’urbanistica
Giovanni Acocella e frutto della
competenza di Marcello Vittorini. Il
contenuto principale di tali ddil è
rappresentato dall’introduzione
del livello di governo
comprensoriale.
Il disegno di
legge per la tutela e l’uso del
territorio descrive nella sua
relazione introduttiva le condizioni
di non-governo in cui già versava
il territorio regionale.
Una ricognizione
alquanto attenta della realtà
territoriale regionale fa risaltare
una insostenibile situazione di
marasma urbanistico in cui, nella
totale assenza di una azione
programmatoria, sia nazionale che
regionale, si dibatte, alla
disperata ricerca di più o meno
riparatrici soluzioni, la maggior
parte dei comuni campani. (…)
Emerge, inoltre,
lo spreco determinato dall’uso del
suolo scarsamente pianificato nelle
aree di concentrazione abitativa cui
ha seguito una crisi di efficienza
delle armature urbane nonché la
irreparabilità dei danneggiamenti
prodotti dalle stesse calamità
naturali che hanno tratto gran parte
della loro forza devastatrice dagli
usi scellerati del suolo e dell’ambiente
naturale o umanizzato.
Le finalità che
la legge urbanistica regionale si
propone di perseguire, per porre
argine a questo stato di cose,
possono, in termini generali, essere
schematizzati come segue:
a) definire
un processo continuo di
pianificazione-gestione del
territorio, nel quale siano
chiaramente individuati ed
interrelati i compiti dei comuni,
dei comprensori e della regione, nel
quadro delle scelte di
programmazione economica formulate
dalla regione stessa, (…);
b) precisare
accuratamente i contenuti e l’efficacia
giuridica dei piani ai diversi
livelli, (…);
c) assicurare
la massima partecipazione dei
cittadini e della collettività alle
scelte di piano e alla gestione
delle città e del territorio, (…);
d) contribuire
alla riqualificazione della pubblica
amministrazione (…);
e) avviare
il più rapidamente possibile il
processo di pianificazione-gestione
del territorio (…).
TABELLA
2
È individuato,
dunque, un livello comprensoriale.
Dalla relazione che precede il
disegno di legge per la suddivisione
del territorio regionale in aree
comprensoriali ai fini della sua
pianificazione si evincono le
motivazioni alla base di tale
proposta.
Considerato che
è ormai imminente la presentazione
di un organico disegno di legge
regionale sulla tutela e l’uso del
territorio, si ritiene
improcrastinabile, sotto un profilo
squisitamente urbanistico,
provvedere al superamento della
dimensione comunale ed alla
articolazione delle competenze
regionali di pianificazione e di
gestione del territorio.
A tal fine, con
il presente disegno di legge – che
trova ovviamente la sua premessa
nell’altro di prossima
presentazione e già citato nel
precedente capoverso – è stata
prevista l’istituzione di Comitati
Comprensoriali, intesi, per il
momento, come organismi decentrati
della Regione e tali da avviare
immediatamente il processo di
collaborazione e di aggregazione dei
Comuni, pur nella carenza delle
norme statali in materia.
In futuro, anche
in relazione all’adeguamento delle
norme suddette alle nuove esigenze
di suddivisione del territorio, i
Comitati Comprensoriali potranno
trasformarsi in consorzi obbligatori
polifunzionali.
Alcune regioni,
come ricorda lo stesso Acocella,
avevano già provveduto ad istituire
i comprensori, secondo criteri
diversi. In alcuni casi (come in
Lombardia, in Emilia Romagna, nel
Veneto, in Piemonte) al comprensorio
sono affidati essenzialmente compiti
di programmazione e di
pianificazione ed esso è retto da
appositi comitati (intesi anche come
organi decentrati della regione) o
dal consorzio dei comuni; in altri
casi (come in Umbria e nel
Friuli-Venezia Giulia) al
comprensorio sono demandati anche
prerogative di carattere gestionale
ed operativo ed esso è retto dal
consorzio dei comuni e degli enti
pubblici interessati.
Per il ddil,
dunque, appare evidente il ruolo
fondamentale dei comprensori, sia
per quanto riguarda la
partecipazione delle collettività
locali al processo di pianificazione
e gestione del territorio, sia per
quanto attiene al potenziamento
delle capacità di intervento e di
spesa dei comuni in relazione all’esercizio
delle funzioni delegate. Tale ruolo,
tuttavia, deve essere accuratamente
precisato definendo i livelli di
pianificazione, le procedure di
formazione dei piani ai diversi
livelli e i relativi strumenti di
attuazione.
Per il ddil i
comprensori dovranno, naturalmente,
disporre di idonee strutture di
pianificazione, che costituirebbero
l’articolazione di quelle
regionali, i cui compiti sono
definiti dalla stessa legge
urbanistica regionale.
Tenuto conto
della esigenza di superare i limiti
della dimensione comunale e delle
innovazioni introdotte in materia da
leggi dello Stato – istituzione
delle Comunità Montane – o da
necessità settoriali – gestione
sovraccomunale di attrezzature, di
servizi sociali, ecc., – si
ritiene che il Comprensorio debba
configurarsi essenzialmente come
"area di gestione" e come
"associazione di Enti
Locali", in cui ricondurre ad
unità, nel quadro delle scelte
regionali, funzioni sovraccomunali e
strumenti operativi relativi alle
attrezzature socio-sanitarie (unità
socio-sanitarie locali), alle
attrezzature scolastiche (distretti
scolastici), ai piani zonali in
agricoltura (eventualmente estesi a
più "aree di gestione"),
allo smaltimento dei rifiuti solidi
e liquidi, alla gestione unitaria di
demani e patrimoni comunali, alla
tutela dell’ambiente, all’attuazione
della politica della casa e delle
localizzazioni produttive, alla
gestione di servizi di acquedotto,
ecc.
La costituzione
dei comprensori, intesi come aree
di gestione, avrebbe consentito,
inoltre, di risolvere in maniera
adeguata i problemi di
riorganizzazione amministrativa
allora non considerati dalla legge
comunale e provinciale e di
assicurare una reale partecipazione
democratica al governo del
territorio.
Il problema di
ricondurre ad unità le iniziative
ricordate, che in larga misura
cominciano già a tradursi in
delimitazioni territoriali – vedi
le unità socio – sanitarie ed i
distretti scolastici –, è
fondamentale ed urgente, onde
evitare che si formino numerosi
organismi separati, tutti
configurati come "forme
associative di Comuni" con
delimitazioni diverse, con il
rischio che uno stesso Comune faccia
parte di più organismi al di fuori
di un quadro programmatico ed
operativo unitario e coerente.
Nello spirito del
ddil, dunque, lo strumento
urbanistico relativo ai
comprensori, intesi come aree di
gestione, avrebbe dovuto avere,
di conseguenza, carattere
essenzialmente operativo e,
pertanto, esso si configurava come
un piano regolatore esteso al
territorio di tutti i Comuni
presenti nel Comprensorio.
Alla formazione
ed attuazione di questo super
piano regolatore, secondo
Acocella, si sarebbe arrivati
facilmente nelle città medie e
grandi, che per popolazione ed
organizzazione equivalgono ad una o
più area di gestione, mentre nel
restante territorio sarebbe stato
necessario avviare un rapido
processo di aggregazione dei comuni.
A tale obiettivo avrebbe concorso in
maniera determinante la formazione
di cosiddetti Piani Territoriali,
estesi ad aree sub-regionali, cioè
a più comprensori, a cui avrebbero
dovuto partecipare sia la regione
che i comuni e le comunità montane.
Dalle
considerazioni precedenti derivano
chiaramente i criteri fondamentali
su cui si basa la formazione della
legge urbanistica regionale.
Il ddil individua
due livelli di
pianificazione: uno essenzialmente
strategico programmatorio, il piano
territoriale, e l’altro
essenzialmente operativo, il piano
regolatore generale.
È possibile
intravedere, in questa impostazione,
un’anticipazione di quella che è
stata considerata una innovazione:
la separazione fra un piano
strutturale, tipicamente
sovracomunale, e un piano
operativo, tipicamente
subcomunale, introdotta dalla legge
toscana 5/1995.
Tra l’altro, è
appena il caso di osservare un
ulteriore elemento anticipatorio,
pur essendo un aspetto non relativo
al tema dell’area vasta, come già
si parli di piano triennale.
In particolare, a livello comunale,
si prevedeva che i piani regolatori
si attuassero secondo programmi
triennali che comprendessero,
compatibilmente con le risorse
disponibili e con la politica di
bilancio, gli interventi che l’Amministrazione
intendeva realizzare e quelli
consentiti all’iniziativa privata.
Il Piano
Territoriale è formato dalla
regione, e da eventuali suoi organi
decentrati, ed ha per oggetto sia la
definizione di obiettivi, scelte ed
indirizzi di assetto del territorio
che la regione formula unitariamente
insieme con le scelte di carattere
economico e sociale; sia l’insieme
coordinato delle proposte che i
comprensori formulano tenendo conto
degli obiettivi, delle scelte e
degli indirizzi fissati dalla
regione.
Il processo di
pianificazione territoriale si
sviluppa, in buona sostanza,
attraverso l’iniziativa dei
singoli comprensori, i quali
formulano proposte relative al loro
territorio, e della regione, che
definisce gli obiettivi e formula le
scelte fondamentali in materia
sociale, economica e di assetto del
territorio.
La proposta di
legge è articolata in titoli il cui
contenuto di interesse in questa
sede è, in sintesi, così indicato:
Titolo I –
norme generali: definisce le
finalità, i soggetti e gli
strumenti di pianificazione di vari
livelli, nonché le strutture di
pianificazione necessarie.
Titolo II –
pianificazione territoriale:
definisce il processo di
pianificazione territoriale in
relazione ai contenuti, formazione,
efficacia ed attuazione dei Piani
Territoriali, nonché la normativa
transitoria per l’adeguamento
degli strumenti urbanistici
esistenti al Piano Territoriale.
Il ddil non
trascura le comunità montane che,
istituite con legge nazionale e
delimitate con legge regionale,
indubbiamente costituivano un primo
risultato ai fini sia della
ricercata aggregazione dei comuni
minori sia della partecipazione
popolare.
Tuttavia esse
devono essere inserite nel processo
unitario di pianificazione del
territorio e di formazione dei
Comprensori (delle "aree di
gestione") al fine di evitare i
rischi connessi con la loro
"emarginazione" rispetto
alle aree di valle, caratterizzate
da una economia più viva ed
integrata.
Ciò, per il ddil,
sarebbe stato possibile in due modi:
– adeguando
gradualmente i loro confini alla
definizione dei comprensori;
– considerando
le comunità montane come organismi
sovracomunali (quali esse sono) che
partecipano, insieme con i comuni ed
eventualmente con le provincie, alle
forme associative da definire per i
comprensori.
Spettava, dunque,
alla regione, nell’ambito delle
sue competenze primarie in materia
di assetto del territorio, il
compito di formulare scelte, criteri
ed indirizzi per la formazione dei Piani
Territoriali e di promuovere,
attraverso i comprensori, la loro
formazione.
La provincia, in
quel quadro istituzionale di
riferimento, si configurava come ente
elettivo funzionale e
settoriale con competenze ben
delimitate e da ridefinire tenendo
conto della riforma sanitaria e
della (allora) nuova organizzazione
della scuola. Essa, inoltre, pur
avendo già allora competenze
globali in materia di pianificazione
e gestione del territorio, si
riteneva che la sua
organizzazione avrebbe potuto essere
utilizzata nell’ambito regionale
comprensoriale.
Il disegno di
legge del 1982, n. 416:
Disciplina
urbanistica del territorio regionale
Questo ddil si
deve all’allora assessore
regionale all’urbanistica Guido D’Angelo
che lo propose nel 1982. Nasce ad
iniziativa della Giunta regionale
con delibera 098 del 23/07/1982. Fu
depositato alla Presidenza del
Consiglio regionale il 28/07/1982 e
assegnato per l’esame alla IV
Commissione consiliare permanente
col parere della II Commissione in
data 23/08/1982.
Il ddil appare
caratterizzato da almeno due aspetti
di rilevante novità ed interesse,
anche nei confronti delle allora
esistenti leggi regionali in
materia.
Il primo è
rappresentato dall’aver
individuato nella provincia il
soggetto, tecnico, politico e
amministrativo, della pianificazione
a livello intermedio e nella
dimensione provinciale, il relativo
livello territoriale di riferimento.
Questo avviene in un momento in cui
alla provincia era già delegata,
assieme alle comunità montane, la
competenza all’approvazione dei
piani comunali.
Per questa
attribuzione di potestà decisoria e
di superiore controllo (…),
la Provincia, ente territoriale
inscritto nella Costituzione,
riacquista una valenza complessiva
che aveva lentamente perduto negli
anni trascorsi. A suo favore gioca,
certo, la maggiore agilità
funzionale e la chiarezza della
sperimentata formazione degli
organismi decisionali, una
consapevolezza storicizzata della
identità territoriale un collegio
rappresentativo ad elezione diretta
e quasi sempre meno numeroso di
quelli comprensoriali istituiti in
altre regioni da leggi in materia
urbanistica. A tale agilità, si
accompagna, di converso, una
concentrazione di potere senza
dubbio meno articolata e meno
aderente ai molteplici e
contrastanti aspetti propriamente
territoriali dell’ambito
amministrato (Fuccella R.,
1983).
Il secondo motivo
di interesse è dato dal compito
tecnico-scientifico che il ddil
attribuisce alle provincie.
L’art. 6, ai
commi 3 e 4, recita:
Il PTP elabora,
inoltre, norme quadro, costituite da
direttive e criteri, cui devono
attenersi i comuni nella redazione
dei piani urbanistici, anche ai fini
del coordinamento della disciplina
dei territori comunali limitrofi.
Tali norme
dovranno comunque individuare, al
livello provinciale, i fabbisogni
per il dimensionamento dei piani
urbanistici comunali e le linee
prioritarie dello sviluppo,
segnatamente per quanto concerne i
rapporti tra edilizia abitativa
pubblica e privata, ivi compreso il
recupero del patrimonio edilizio
esistente, il restauro urbanistico
del patrimonio architettonico e gli
insediamenti produttivi, turistici,
commerciali e direzionali.
Tali norme
andrebbero redatte secondo rigorosi
criteri tecnico-scientifici che, con
riferimento agli obiettivi del Piano
Regionale Territoriale di
Coordinamento recepiti e meglio
specificati nel Piano
Territoriale Provinciale,
conducono alla redazione di
protocolli e parametri di
riferimento che vanno articolati
secondo le specificità dei luoghi.
Entro il quadro
normativo di riferimento ed entro i
limiti dimensionali complessivi
posti dal Piano Territoriale
Provinciale, dunque, ogni comune
può trovare un suo ambito di
libertà nell’indirizzo della
crescita civile del proprio
territorio. (Fuccella R., 1983).
Nel ddil,
tuttavia, il PRG risulta formalmente
legato e, in qualche modo,
subordinato agli strumenti di
coordinamento generale previsti,
quali il Piano Regionale
Territoriale di Coordinamento e
il Piano Territoriale Provinciale,
ma una lettura più complessiva del
testo dà modo di comprendere come
il PRG giuochi, in realtà, un ruolo
autonomo ed esclusivamente
condizionante la politica
urbanistica dei comuni.
L’art. 12,
inerente Pianificazione comunale
– finalità del PRG, afferma che
il PRG recepisce le localizzazioni
immediatamente operative del piano
territoriale regionale e del piano
territoriale provinciale ed è
redatto in riferimento alle
indicazioni e criteri stabiliti
dalle norme quadro del piano
territoriale provinciale e piani
della comunità montana, ma, al
tempo stesso, è individuato un
termine perentorio, pari ad un anno,
entro il quale tutti i comuni sono
obbligati a dotarsene, anche in
assenza di Piano Regionale
Territoriale di Coordinamento e
Piano Territoriale Provinciale: si
ammette, quindi, la sua esistenza e
validità al di fuori di una cornice
più ampia.
Per il piano
provinciale, tra l’altro, non
viene stabilito alcun termine per la
sua formazione ed adozione; la
mancanza di tale indicazione, che
nega anche la possibilità di
surrogazione da parte della regione,
induce perplessità dato che essa
esiste per gli altri livelli di
pianificazione.
Il Piano
Territoriale Provinciale
abbraccia una gamma alquanto ampia
di attribuzioni e di scelte
localizzative. Esso recepisce e
specifica le indicazioni di cui al
piano regionale provvedendo a
determinare le scelte territoriali
in ordine a:
– individuazione
delle zone a prevalente destinazione
industriale e turistica, nonché di
quelle la cui vocazione ed
utilizzazione agricola debba essere
tutelata e valorizzata;
– individuazione
delle zone di rilevante interesse
paesaggistico, architettonico,
urbanistico-ambientale e
archeologico, da sottoporre a norme
dirette a conservare e porre in
valore gli elementi determinanti il
suddetto interesse;
– individuazione
delle aree necessarie a realizzare
infrastrutture e servizi di
rilevanza sovracomunale;
– elabora
norme quadro, costituite da
direttive e criteri, cui devono
attenersi i comuni nella redazione
dei piani urbanistici, anche ai fini
del coordinamento della disciplina
dei territori comunali limitrofi.
In questo senso
il piano provinciale appare di
stesura addirittura più complessa
del piano regionale.
Nel complesso, il
modello che viene proposto nel ddil
è quello classico che individua tre
livelli di pianificazione:
regionale, intermedio e locale. In
tale sistema, la procedura di
approvazione automatica mediante il
silenzio-assenso richiede una
maggiore responsabilità degli enti
soggetti di pianificazione che, se
negligenti o inerti, finirebbero per
riformare atti non in linea con gli
indirizzi fondamentali dei piani di
livello superiore.
Il disegno di
legge del 1986:
Disciplina
urbanistica del territorio regionale
Tale ddil risale
al 1986. Nasce ad iniziativa della
Giunta regionale con delibera 0105
del 26/06/1986. Venne depositato
alla Presidenza del Consiglio
regionale il 10/07/1986 e assegnato
per l’esame alla IV Commissione
consiliare permanente col parere
della III e II Commissione in data
14/07/1986.
La premessa al
testo del ddil avverte:
Sarebbe grave
errore quello di riguardare alla
legge urbanistica regionale come ad
un testo unico compilativo.
Per vero mettere
insieme, in comprensibile e
coordinato testo, la messe di norme
esistenti in materia ed evidenziarne
i collegamenti con leggi di settori
vicini è certo già grande merito.
Rendere
compatibili, in particolare,
previsioni dettate nella materia dei
lavori pubblici, dell’ecologia,
della difesa del territorio, della
protezione dei beni naturali è fine
non solo apprezzabile ma anche
necessario e non più dilazionabile.
Ma l’urbanistica
non è solo edilizia e la legge
urbanistica regionale non può
dunque avere come suo fine esclusivo
o prevalente quello di pervenire ad
un complesso normativo che
garantisca l’ordinato assetto
degli abitati.
L’esercizio
delle attribuzioni in materia
urbanistica per la Regione Campania
doveva essere, almeno nelle
enunciazioni di principio del ddil,
occasione qualificata per il
coordinato esercizio di ogni altra
attribuzione la cui finalità fosse
quella della conservazione, tutela e
trasformazione del territorio e del
coordinamento tra la pianificazione
territoriale e la programmazione
socio-economica della Regione
stessa.
In tale
prospettiva la legge urbanistica
costituisce il ragionato tentativo
di mettere ordine in una congerie di
norme statali e regionali
organizzandole in un complesso nel
quale il conseguimento dei fini
proposti è la costante sulla quale
ogni previsione è orientata.
La stessa legge
costituisce altresì il tentativo di
apprestare un valido sbarramento
rispetto ad un legislatore nazionale
non sempre rigoroso osservante dei
limiti invalicabili della competenza
legislativa regionale.
I criteri
ispiratori fondamentali sono quelli
di improntare tutte le previsioni al
massimo rigore ma anche alla più
conveniente snellezza di
procedimento evitando tempi morti
per mezzo di idonei meccanismi
sostitutivi.
I livelli di
pianificazione territoriale
introdotto dal ddil sono due, con una
opportuna compenetrazione dei
livelli regionali e provinciali,
da un lato, e il livello comunale,
orientato agli aspetti attuativi e potenziato
nella sua autonomia, dall’altro.
La bozza del 1987
sulla Disciplina urbanistica del
territorio regionale
Tale bozza di
studio risale al 1987 e fu elaborata
dal Servizio Urbanistica Regionale.
I contenuti dei
due piani di area vasta ricalcano
fedelmente quelli proposti dal ddil
D’Angelo del 1982.
Il Piano
Regionale Territoriale di
Coordinamento stabilisce le
direttive da seguire nel territorio
considerato, in rapporto
principalmente alla indicazione ed
alla disciplina: delle aree di
particolare interesse agricolo,
delle aree interessate da accelerato
sviluppo urbano, delle aree di
contenimento o di espansione
edilizia, della struttura della
produzione e della sua distribuzione
territoriale con riferimento ai
principali impianti produttivi e a
quelli per la produzione e il
trasporto di energia, delle aree di
particolare interesse turistico,
delle aree di particolare interesse
paesistico, storico, artistico,
architettonico, archeologico ed
ambientale, dei sistemi dei parchi,
anche subacquei, e delle riserve
naturali di interesse regionale,
delle aree da assoggettare a vincoli
di difesa del suolo, delle
principali strade ed altre vie di
comunicazione, delle infrastrutture
e servizi a scala regionale.
Il Piano
Territoriale Provinciale,
recepisce e specifica le indicazioni
di cui al piano regionale. Provvede
a determinare le scelte territoriali
in ordine a: individuazione delle
zone a prevalente destinazione
industriale e turistica, nonché di
quelle la cui vocazione ed
utilizzazione agricola debba essere
tutelata e valorizzata;
individuazione delle zone di
rilevante interesse paesaggistico,
architettonico,
urbanistico-ambientale e
archeologico, da sottoporre a norme
dirette a conservare e porre in
valore gli elementi determinanti il
suddetto interesse; individuazione
delle aree necessarie a realizzare
infrastrutture e servizi di
rilevanza sovracomunale; elabora,
inoltre, norme quadro, costituite da
direttive e criteri, cui devono
attenersi i comuni nella redazione
dei piani urbanistici, anche ai fini
del coordinamento della disciplina
dei territori comunali limitrofi.
TABELLA
3a
TABELLA
3b
TABELLA
3c
TABELLA
3d
TABELLA
3e
TABELLA
3f
Complessivamente
il testo risente, in maniera
rilevante, di contaminazioni di ddil
che lo hanno preceduto.
L’elemento di
novità è costituito dall’art.12
che, alla voce Altri eventuali
Piani Territoriali ammette che
il Consiglio regionale, su proposta
di un gruppo di Comuni aventi
particolari caratteristiche o
prospettive di sviluppo o su
proposta della Giunta regionale,
può autorizzare la formazione di un
Piano Territoriale esteso al
territorio dei comuni stessi; le
procedure di formazione, adozione e
pubblicazione verrebbero stabilite
nella delibera di autorizzazione.
Sembra un modo per confermare il piano
intercomunale.
Da segnalare
anche lo spazio, al Capo III,
art.11, dedicato ai piani delle
comunità montane: il ddil
sottolinea la necessità che i
prescritti piani zonali
pluriennali di sviluppo
economico-sociale e i
facoltativi piani di sviluppo
urbanistico siano redatti nel
rispetto delle indicazioni del Piano
Regionale e dei Piani
Territoriali Provinciali.
Il disegno di
legge del 1995: Criteri e procedure
per la formazione e l’approvazione
della pianificazione territoriale
regionale, provinciale e comunale.
Delega di funzioni. Semplificazione
di procedure
La stesura di
questo ddil si deve a Eirene
Sbriziolo, assessore regionale all’urbanistica,
ed è del 1995. Il testo fu
approvato dalla Giunta regionale
nella seduta del 08/02/1995.
Successivamente modificato ed
approvato dalla IV Commissione
consiliare permanente nella seduta
del 03/03/1995. Si ebbe la
discussione generale del testo e la
votazione dei primi 21 articoli
nella seduta del Consiglio regionale
del 07/03/1995.
L’articolazione
iniziale introduce i quadri di
riferimento, quello comunitario,
quello statale e il quadro di
riferimento regionale.
L’art. 5
dichiara quali sono i livelli della
pianificazione territoriale e gli
strumenti urbanistici ed edilizi:
a) a livello
regionale, il piano territoriale
regionale;
b) a livello
provinciale, i piani territoriali
provinciali di coordinamento;
c) a livello
comunale, i piani regolatori
generali ed i piani regolatori
intercomunali, i relativi strumenti
di attuazione ed il regolamento
edilizio.
Al titolo II,
tuttavia, alla voce piani
territoriali, al Capo I, introduce
il quadro di riferimento
regionale, di cui, all’art. 6,
specifica natura, finalità e
contenuti. Esso determina gli
indirizzi per la pianificazione
urbanistica regionale e subregionale,
organizzando il sistema
conoscitivo territoriale
mediante:
a) sistema
della cartografia con indicazioni
dello stato della fisicità del
territorio regionale
b) visualizzazioni:
delle normative derivanti da leggi
nazionali e regionali, degli ambiti
di parchi naturali, bacini
idrografici, di vincoli e aree di
cui alla legge 8 agosto 1985, n.
431, degli insediamenti abusivi
recuperabili ai sensi della legge 28
febbraio 1985, n. 47, delle aree di
espansione previste dai piani
regolatori generali, di
localizzazioni di impianti ai sensi
della legge 10 febbraio 1993, n. 10,
del piano regionale dei trasporti,
nonché di ogni altra localizzazione
e previsione derivanti da ulteriori
piani e programmi
c) proiezioni
su cartografie degli interventi in
corso e di quelli programmati
d) rappresentazione
di situazioni ed aree di crisi per
livello di degrado ambientale,
abitativo, di traffico
e) carta di
sintesi delle potenzialità
territoriali e degli impedimenti e
trasformabilità incidenti
f) localizzazioni
orientative di programmi di
interventi e di spesa con
valutazioni delle compatibilità e
dei possibili contrasti con il
sistema esistente nell’area di
intervento e nel territorio contiguo
g) struttura
della consistenza e della
distribuzione demografica
h) sistema
delle relazioni funzionali e della
mobilità
i) schema di
sintesi delle trasformazioni
territoriali in atto e indicazioni
orientative per insediamenti
residenziali, produttivi, di nuove
funzioni urbane e di area vasta
j) simulazione
degli effetti indotti da scelte
prioritarie strategiche, ai fini
dell’indicazione dei tempi per la
formazione di sistemi di
salvaguardia e di pianificazioni
adeguate attuative
k) schema di
aree vaste di integrazione urbana,
nonché di aree metropolitane.
Lo stesso art. 6
chiarisce che tale quadro
costituisce fondamento giuridico e
strumento propedeutico per la
formazione del piano territoriale
regionale. Alcuni contenuti, non
esclusivamente conoscitivi, quali:
le localizzazioni e previsioni
derivanti da piani e programmi; le
localizzazioni orientative di
programmi di interventi e di spesa;
le indicazioni orientative per
insediamenti residenziali,
produttivi e di nuove funzioni
urbane e di area vasta, la
simulazione degli effetti indotti da
scelte prioritarie strategiche;
finiscono, in un certo senso, per
fare del quadro di riferimento
regionale un metapiano, una
sorta di meta-duplicato del piano
territoriale regionale.
Il disegno di
legge del 1997: Tutela, assetto ed
uso del territorio regionale
Il ddil del 1997
si deve a Concetta De Vitto,
assessore regionale all’urbanistica.
Il ddil, inerente Tutela, assetto
ed uso del territorio regionale,
fu formulato dalla commissione Gestione
del territorio tutela dei beni
paesistici, ambientali e culturali.
Il testo fu approvato in Giunta
regionale il 18/03/1997 e consegnato
nella riunione dell’Osservatorio
regionale in data 08/04/1997.
L’art. 1 del
ddil così recita: La Regione
Campania, nel rispetto degli
articoli 117 e 118 della
Costituzione, della legge 17 agosto
1942 n. 1150 degli articoli 80, 81 e
82 del DPR 24 luglio 1977, n .616,
della legg 8 giugno 1990, n. 142,
della legge 2 agosto 1985 n. 431 ed
in armonia con i principi
comunitari, la legislazione quadro
ed il proprio Statuto, mediante la
presente legge, persegue il fine
della tutela e della ordinata e
coerente utilizzazione del
territorio attraverso:
a) la conoscenza
sistematica del territorio in tutti
gli aspetti fisici, economici e
sociali;
b) la tutela e la
valorizzazione del patrimonio
naturale, paesaggistico, storico,
culturale;
c) l’integrazione
coordinata tra pianificazione
territoriale e programmazione di
sviluppo socio-economico della
regione;
d) il controllo
quantitativo e qualitativo dei
diversi insediamenti abitativi,
produttivi, degli impianti
infrastrutturali;
e) lo snellimento
dei procedimenti di formazione,
approvazione ed adeguamento degli
strumenti di pianificazione e del
regolamento edilizio;
f) il regime
delle trasformazioni edilizie del
territorio comunale;
g) il riassetto
della delega in materia urbanistica.
Già da una prima
lettura, ciò che immediatamente
balza agli occhi è il fatto che il
ddil si presenta, nel suo complesso,
esclusivamente come una
sistematizzazione ragionata dell’insieme
delle leggi attualmente vigenti
nella nostra regione, salvo alcuni,
pochi, aggiustamenti.
Nel ddil sono
ampiamente riportati i testi delle
leggi 14/1982, 17/1982, 11/1983,
3/1996, che vengono dallo stesso
abrogati insieme con le leggi
39/1978, 9/1990, 24/1995.
Il testo del ddil
esordisce (titolo I) con le
disposizioni generali, individuando
scopi, livelli, soggetti e strumenti
della pianificazione territoriale,
oltre al cosiddetto Quadro di
riferimento regionale.
In tale parte si
propone di normare il rapporto tra
piani territoriali urbanistici e
altri piani sovracomunali, ma sembra
di poter affermare che non ci riesce
per nulla, finendo, se possibile,
per alimentare la confusione già
presente a livello di legislazione
nazionale.
Il ddil non
riesce, inoltre, pur proponendoselo,
a chiarire i rapporti tra i piani
sovracomunali ai vari livelli,
generali e di settore, ingenerando,
forse, ancora maggior confusione.
Fra gli obiettivi
che il testo dichiaratamente si
prefigge, compare lo snellimento dei
procedimenti di formazione degli
strumenti di pianificazione, ma,
come è possibile poi verificare nel
testo, non è rilevabile nessuna
concreta novità in tal senso.
Nella
individuazione dei livelli, e
rispettivi strumenti, della
pianificazione si rileva la mancata
presa in considerazione di quello
relativo all’area metropolitana, a
conferma di una difficoltà,
soprattutto di opportunità
politica, ad affrontare le
irrimandabili problematiche ad essa
legate.
In tema di
funzioni delegate (titolo II), dall’esame
del ddil si evince, fortunatamente,
l’eliminazione della delega alle
comunità montane, anomalia unica
nello scenario degli apparati
normativi regionali in tema di
governo del territorio. A queste
restano, tuttavia, affidati i poteri
sostitutivi di cui al capo I della
legge 47/1985 e dell’art. 2, comma
54, della legge 662 del 23/12/1996,
inerente la vigilanza sull’attività
urbanistica ed edilizia, oltre ai
poteri sostitutivi concernenti le
concessioni edilizie.
A tali poteri
sostitutivi, tra l’altro, viene
delegata la provincia ma
"limitatamente ai comuni non
appartenenti a Comunità montane:
ora, come è noto, tali comuni sono
pochissimi; sarebbe, invece, stata
cosa diversa dire comuni interamente
montani, il cui numero è, per
definizione, certamente inferiore
rispetto a quello relativo ai comuni
appartenenti a comunità montane.
Da sottolineare,
infine, ma non da ultimo, il
discutibile mantenimento, da parte
della Regione Campania, della
competenza all’approvazione dei
PRG dei comuni capoluogo di
provincia, così come oggi avviene.
Non si comprende, cioè, come, ad
esempio, la Provincia di Salerno non
possa avere la competenza per l’approvazione
del PRG del comune di Salerno.
Il ddil comprende
(titolo III) l’articolazione
gerarchica degli strumenti di
pianificazione di area vasta: il
piano territoriale regionale (PTR) e
il piano territoriale provinciale di
coordinamento (PTPC), con relativi
contenuti, elaborati e procedure di
formazione ed approvazione, nonché
di adeguamento, aggiornamento e
salvaguardia.
In particolare,
con riguardo al PTR, le cui
indicazioni verrebbero riprodotte in
scala 1/100.000, ma anche al PTPC,
si fa riferimento a scelte
localizzative e vincoli e
prescrizioni di immediata
operatività, ovvero immediatamente
prevalenti sulla disciplina locale
esistente, riprodotti su tavole di
scala adeguata, non inferiore a
1/25.000.
Non viene fornito
alcun miglior chiarimento circa
quali siano tali scelte
localizzative e vincoli di immediata
operatività, prospettandosi, così,
contenziosi interpretativi ed
incertezze del diritto. Per quanto
concerne il modo con cui tale
operatività si concretizzerebbe,
chiarisce (art. 15) che il PTC e i
PRG si adeguano
"automaticamente" ai
rispettivi piani sovraordinati (PTR
e PTPC) attraverso la decadenza
delle previsioni in contrasto, che
si intendono, così, sostituite da
quelle sopravvenute.
Al PTR e al PTPC
è riservata anche la facoltà di
disporre particolari vincoli
temporanei di salvaguardia, di
durata non superiore a cinque anni,
che decadono con l’adeguamento al
PTR degli altri piani sottordinati.
Le misure di salvaguardia del PTR e
del PTC impongono ai sindaci dei
comuni interessati di sospendere,
per un periodo non superiore a tre
anni, ogni determinazione sulle
domande di concessione edilizia.
Al PTPC è
demandato anche il compito di
elaborare norme quadro, costituite
da direttive e criteri, cui devono
attenersi i comuni nella redazione
dei piani urbanistici.
Tra gli elaborati
prescritti per il PTPC vi è l’indicazione
sintetica delle previsioni dei PRG
comunali, con particolare
specificazione delle zone destinate
all’espansione, e l’individuazione
e descrizione tipologica delle aree
e degli immobili dismessi, con
indirizzi in ordine alla loro
destinazione.
Elemento di
flessibilità, da giudicare
certamente come positivo, può
cogliersi nella possibilità
conferita al PTPC, pur avendo ad
oggetto l’intero territorio della
provincia, di articolarsi secondo
finestre cartografiche intercomunali
per l’applicazione degli indirizzi
del PTR.
All’interno del
medesimo titolo vengono disciplinati
anche i piani regionali di settore e
gli accordi di programma.
Con particolare
riferimento a questi ultimi, occorre
rilevare la mancanza di un qualsiasi
tentativo, che invece è presente
nel dibattito e nelle proposte di
riforma a livello nazionale, di
inserire opportunamente tale
strumento all’interno del
complessivo processo di
pianificazione territoriale e, in
particolare, a monte dell’iter di
formazione degli strumenti
urbanistici. In questo modo si mina
all’origine l’impostazione, come
dire, anche puramente culturale, di
individuare e definire le opere e
gli interventi all’interno del
sistema preordinato delle scelte
afferenti al piano sovraordinato
regionale, magari anche come sintesi
dei piani di settore, cui pure si fa
riferimento.
Da segnalare un
paragrafo relativo all’istituzione
dell’osservatorio regionale (art.
97) per il controllo costante dell’attività
urbanistica ed edilizia, ai sensi
dell’art. 23 della legge 47/1985,
che pure poteva
rappresentare una novità positiva,
lascia delusi. Era lecito
attendersi, per
un aspetto tanto
importante, minore genericità e
qualche specificazione maggiore
rispetto a quella che viene
proposta, ossia che tale
osservatorio "è esteso all’intero
territorio della regione ed è
esercitato con l’ausilio di tutti
i mezzi disponibili".
Alla eccessiva
articolazione del testo proposto,
che deriva, sostanzialmente, dalla
acritica e settoriale trasposizione
di specifici provvedimenti
normativi, non corrisponde alcun
tentativo di intenzionalità
evolutiva dell’intero sistema
pianificatorio regionale.
Resta ignorata,
ad esempio, la stessa concezione di
un piano articolato in un piano-struttura,
relativo a scelte strategiche e
pensato sul medio-lungo periodo, e
un piano operativo, relativo
alla regolamentazione del suolo e
riferito alla durata del mandato
amministrativo, in qualche modo,
invece, prefigurato addirittura nel
ddil Acocella, e sistema già
ampiamente sperimentato con successo
in Toscana verso cui ormai si
orientano tutti gli ordinamenti
regionali e la stessa legislazione
nazionale.
Una lettura dell’intero
ddil dimostra che, nella sua
stesura, quelli che sono stati
definiti scopi sono stati tenuti
presenti solo in modo marginale, se
non dimostratisi, di fatto, del
tutto assenti.
Se, inoltre,
confrontiamo la logica della
processualità verso cui si dirige
la disciplina anche nei suoi aspetti
applicativi, non può non affermarsi
che di tale processualità, nel ddil,
non si trova traccia.
Basterebbe
osservare, ad esempio, quanto è
detto circa i contenuti, gli
elaborati e i procedimenti di
formazione, oltre che dei PRG, anche
per il PTR e il PTPC.
Alcun
riferimento, inoltre, viene fatto
alla necessità di istituire un
ufficio permanente di piano per
conferire la necessaria continuità
al processo di pianificazione, che
possa costituire un centro di
informazione, documentazione e
monitoraggio continuo del territorio
e dell’ambiente, capace di
aumentare la capacità di dialogo
tra le istituzioni ed aperto anche
all’utenza esterna.
In definitiva,
nel caotico quadro legislativo in
materia, con il ddil in oggetto, si
è ritenuto meglio poter ricucire il
tutto con la stesura di un testo
unico, puntando ad una presunta
fattività a discapito dell’indispensabile
innovazione normativa.
Un autentico
disegno riformatore deve, invece,
inevitabilmente tener conto di
numerosi fattori, in costante
evoluzione, quali l’ordinamento
istituzionale ed elettorale, la
normativa tributaria e i diritti di
proprietà, ma anche l’avanzamento
disciplinare in tema di concezione
degli strumenti di piano, l’informatizzazione,
la partecipazione alla formazione
delle scelte, e così via.
Valutazioni di
sintesi sui disegni di legge
Il modello
proposto dai ddil è quello classico
che vede nel piano la conclusione
del processo di pianificazione; si
tratta di quella urbanistica
tradizionale dove il territorio, per
il quale il piano viene elaborato,
è visto come qualcosa che ha una
forma e che, pertanto, può essere
rappresentato graficamente proprio
nella sua forma, per così dire,
finale.
Dobbiamo,
tuttavia, riconoscere che non è
pensabile che basti una legge, anche
se concepita in maniera avanzata e
compiuta, ad innescare innovativi
processi di pianificazione
territoriale.
La Regione
Campania dovrebbe conseguire una sua
innovazione normativa urbanistica,
maturandola e consolidandola prima
al proprio interno, e contribuendo
poi a diffonderla anche negli altri
livelli di governo locale.
Una legge può,
però, in qualche modo riconoscere
normativamente elementi
significativi di innovazione, dando
forza, mediante un sostegno
istituzionale, a quei fattori già
emergenti e a quelli che si ritiene
di dover far emergere.
Un esempio può
essere costituito dalla esigenza di
contemplare il fattore rischio
all’interno del piano urbanistico.
Nei ddil la questione disastri è,
sostanzialmente, del tutto assente.
L’esperienza di quanto è accaduto
negli ultimi anni e continua ad
accadere (il disastro di Pozzano,
Sarno, Cervinara) avrebbe dovuto
suggerire l’inserimento di
maggiori richiami alla previsione e
prevenzione dei pericoli per le
persone e le cose in un progetto di
legge urbanistica, in cui il tipo, i
modi e l’entità di uso delle
diverse zone rappresentano, al tempo
stesso, fattori di rischio ed
elementi di correlazione con la
protezione civile del tutto
evidenti.
La gestione dell’emergenza
deve essere un elemento di un piano
strettamente connesso con quello
urbanistico e la sua gestione. E la
legge urbanistica della Campania,
regione quantomai martoriata dalle
calamità, non deve rappresentare
una occasione mancata per tentare di
sperimentare nuovi livelli di
consapevolezza e di conoscenza nella
individuazione di oggetti e di aree pericolosi,
la cui definizione abbia caratteri
scientifici.
Ma la questione
dei disastri deve rappresentare, a
sua volta, solo uno dei possibili
punti di aggancio per riconoscere e
praticare logiche più avanzate
rispetto a quelle presenti nei ddil.
La stessa carta
di uso del suolo, di complicata
compilazione e di attendibilità
incerta, potrebbe essere più
utilmente estesa a tutti gli usi del
suolo, cioè anche a quelli di
natura extragricola, da redigere nel
contesto del complesso delle analisi
urbanistiche propedeutiche al piano.
La sua funzione,
che attualmente consiste nel
consentire l’attribuzione di
densità fondiarie diverse a seconda
della coltura, potrebbe diventare
quella di rappresentare il sistema
delle inerzie alla trasformabilità,
per effetto di stato e attività
presenti, rispetto al sistema delle
scelte di piano.
Come non cogliere
questa occasione, ad esempio, per
tener conto di punti di vista più
aggiornati nell’elaborare una
nuova legge urbanistica, per
tentare, ad esempio, l’introduzione,
all’interno del processo di
pianificazione, di procedure di
valutazione di impatto ambientale
dei piani, come stanno facendo le
regioni più sensibili a tale
problematica.
Più complesso,
ma assolutamente non secondario,
sarebbe il discorso relativo all’opportunità
di collocare un momento di valutazione
complessiva all’interno del
processo di pianificazione: esso
consentirebbe di caratterizzare con
maggiore trasparenza e
consapevolezza il percorso
decisionale, selezionando proposte
alternative, definendo priorità in
presenza di obiettivi conflittuali,
prevedendo conseguenze ed effetti
dell’intervento in rapporto alle
risorse mobilizzabili. Le
motivazioni di determinate scelte
possono essere evidenziate e
comprovate solo da metodi e tecniche
specifici e, per quanto sia ingenuo
richiedere ciò attraverso una norma
di legge, sono convinto che occorre
fare uno sforzo in tal senso,
precisando metodi e tecniche cui
attingere ai fini della costruzione
e gestione del piano.
Altra questione
è quella relativa alla difficoltà
di individuare il livello più
idoneo di governo del territorio in
rapporto agli oggetti e alle
categorie di problemi da governare.
La legge
urbanistica del 1942 individuava
come fondamentali, nel quadro del
sistema di pianificazione del
territorio, un livello regionale ed
uno comunale. Successivamente in
molte leggi regionali veniva
introdotto, oltre il livello
regionale, il livello comprensoriale
che, quantomeno concettualmente,
risolveva in maniera egregia molti
dei problemi connessi alle
insufficienti dimensioni comunali,
ma che, tuttavia, ha comportato
notevoli difficoltà pratiche nella
loro attuazione, determinando un
arresto, e il successivo definitivo
tramonto, di tale tendenza nell’individuazione
dell’ente intermedio.
La Campania ha
avuto il merito di aver assunto,
invece, sin dal 1982, la provincia
come soggetto tecnico ed
amministrativo, oltre che politico,
del superiore controllo della
pianificazione comunale e nella
dimensione provinciale il relativo
ambito spaziale.
Ad eccezione del
primo, risalente agli anni ’70, i
vari ddil non potevano non
individuare come livello intermedio
di pianificazione la provincia, la
cui operatività, essendo un ente
già istituzionalmente
rappresentativo, in quanto collegio
ad elezione diretta e sperimentato
negli organi decisionali, per
effetto di una gestione ormai
quindicinale della delega, è
potenzialmente più efficace di
ipotetici enti non elettivi.
La provincia,
infatti, oltre ad avere una
identità territoriale storicamente
certa, è inequivocabilmente anche
destinataria di funzioni e di
deleghe politico-amministrative.
Un piano
provinciale, tuttavia, abbraccia una
gamma tanto complessa di
attribuzioni e di scelte
localizzative, tra cui una vasta
serie di servizi, da renderlo di
stesura addirittura più complessa
del piano regionale: si
renderebbero, pertanto, necessari
stralci territoriali e/o
anticipazioni settoriali per
risolvere alcuni più urgenti
problemi di natura intercomunale. È
da registrarsi, quindi,
positivamente l’idea contenuta nel
ddil di conferire al piano
territoriale di coordinamento
provinciale, pur avendo questo ad
oggetto l’intero territorio della
provincia, la facoltà di aprire
finestre cartografiche intercomunali
in applicazione di indirizzi del
piano territoriale regionale. La
Campania è, infatti, regione
caratterizzata, da un lato dal
proverbiale squilibrio tra zone
interne e zone costiere, dall’altro
dall’egemonia dell’area
metropolitana di Napoli praticamente
sull’intera regione. Ma all’interno
di tale schema generale l’articolazione
è più variegata: agro
nocerino-sarnese, alto nolano, valle
di Lauro, fascia aversana. I
problemi relativi a tali aree
potranno essere risolti con intese
interprovinciali mediante stralci
contestuali dei piani territoriali
di coordinamento delle provincie
interessate. Ma sarebbe ancora più
auspicabile che la futura legge
regionale prescriva alle provincie
di articolare, ove necessario, i
piani territoriali di coordinamento
provinciali per opportuni
sub-insiemi.
Non più, quindi,
individuare ambiti a cui applicare
piani di area vasta, ma articolare i
piani su porzioni di territorio che
possono rappresentare ambiti. Un
processo, insomma, che funzioni al
contrario di quanto negativamente
sperimentato per i comprensori: una
tale articolazione potrebbe far
maturare l’introduzione di
eventuali nuove delimitazioni
subprovinciali, concretamente
istituzionalizzabili, in quanto
funzionalmente motivate e
razionalmente convenienti, e che
possano, quindi, garantire processi
di pianificazione e di gestione di
adeguato realismo. E non è detto
che tali ambiti non possano, per
questo motivo, diventare proprio le
future distrettualizzazioni
provinciali, senza, in tal modo,
introdurre ulteriori livelli
territoriali. Un piano di
coordinamento provinciale, insomma,
potrebbe essere la sede migliore per
proporre una revisione delle
divisioni amministrative, quali il
riordino dei confini dei comuni,
sulla base delle esigenze della
stessa programmazione
socio-economica e pianificazione
territoriale.
Nei ddil vi è
una apparente volontà, comune, d’altronde,
ai disegni di legge di altre
regioni, di dare risalto ai piani di
livello superiore, cui corrisponde
una impostazione complessiva che
tende, viceversa, a non sminuire per
nulla il ruolo centrale dello
strumento di pianificazione
comunale. Il PRG, se da un lato
appare subordinato agli altri
livelli di pianificazione, dall’altro
si presenta come elemento che
pervade e monopolizza l’intero
sistema pianificatorio, di cui i
comuni devono dotarsi anche in
assenza di quelli di area vasta,
ammettendo la validità del PRG al
di fuori di un disegno complessivo.