Attilio
Belli
Prima di intervenire nel merito dell’argomento del forum,
sono doverose alcune considerazioni, non
retoriche, sul significato della nuova
rivista .
Com’è noto, le grandi città costituiscono per le
riviste, uno dei principali fattori di guida
programmatica, ed è in questo senso che,
anche nella storia della nostra regione, la
gran parte delle riviste, legate a movimenti
culturali di un qualche interesse, hanno
luogo prevalentemente a Napoli.
Una delle caratteristiche della nostra regione, negli anni
‘90 e in prospettiva nel nuovo secolo, è
di presentare in maniera originale il ruolo
di Salerno affiancato a quello di Napoli.
Questo ruolo, al di là della vivacità
della competizione tra i due sindaci
appartenenti alla stessa organizzazione
politica, si è esplicitato negli ultimi
anni attraverso forme diverse di intervento
nella costruzione della città, del suo
progetto, del suo controllo.
È un tema troppo ampio da affrontare in questa sede; basti
qui sottolineare che all’interno di queste
due città ci sono anche, alla radice, due
visioni, due diversi modi di intendere la
cultura della città e del territorio. Nel
contesto salernitano, al di là del percorso
contingente che può aver mosso la Provincia
di Salerno ed il direttore di , Roberto Gerundo a promuovere questa iniziativa, si
inserisce in modo quasi naturale il progetto
di una rivista che, un po’
eufemisticamente, lo stesso direttore chiama
giornale, di evidente ispirazione al journal
di planning anglosassone, dotato di una
grande storia, di una grande radice.
Un giornale di pianificazione salernitano in questo senso
va, quindi, accolto con particolare
attenzione e seguito con altrettanto
interesse in quello che mi auguro sia il suo
lungo ciclo di vita.
Premesso questo, veniamo al merito del tema, ovvero alle
“prospettive di pianificazione di area
vasta” in Italia.
Vorrei traguardare questo tema dal punto di vista del
rapporto tra economia e territorio.
Il nostro sistema di pianificazione, che di solito
colleghiamo prevalentemente alla struttura
istituzionale dello Stato, ha implicitamente
un ancoraggio alle diverse forme di raccordo
tra economia e territorio.
La forma tradizionale è quella che possiamo definire
icasticamente a matrioska (P. Veltz), nel
senso di una sequenza tra diversi livelli
istituzionali, dall’Unione europea, allo
Stato nazionale, a regione, provincia,
comune.
Ognuno di questi si inserisce nel livello superiore e tutti
si inscatolano poi all’interno di un globale
che sovrasta, minaccia, incombe sulle
trasformazioni del territorio.
A questa visione tradizionale gli studi che fanno capo al
neo-regionalismo tendono a sostituire,
invece, un’altra immagine, quella dell’economia
dell’arcipelago. Indipendentemente
dalle divisioni istituzionali (comuni,
province, regioni), l’organizzazione
territoriale viene inquadrata in base ad
alcuni punti forti dello sviluppo,
identificabili in base a letture diverse dei
processi di sviluppo economico.
Abbiamo le aree metropolitane, le città, i distretti
industriali, abbiamo cioè un arcipelago di
punti forti che tendono, al di là delle
divisioni amministrative, ad acquisire uno
spazio all’interno del funzionamento del
mercato globale. Pensare ai nodi
problematici della pianificazione di area
vasta comporta, in questo senso, la
costruzione di una visione capace di
identificare, nella realtà sociale ed
economica del territorio, diverse componenti
in grado di proporre problemi diversi,
nuovi, ai quali tentare di dare
risposta.
In una logica di questo genere non è chiarissimo però in
che direzione la negoziazione, la
concertazione per lo sviluppo e la
competizione possano concretamente essere
praticate.
Così si rileva essere un elemento di difficoltà che
possiamo schematicamente riportare ai
tradizionali livelli istituzionali di
regione e provincia, nel senso che alcuni
problemi saranno trattabili a scala
regionale e provinciale, ma può essere
necessario anche rivolgersi al livello
nazionale e sovranazionale, su cui
ritorneremo in relazione all’utilizzazione
dei fondi dell’Agenda 2000/2006.
Se vogliamo adesso raccordare questa traiettoria al
dibattito disciplinare sulla pianificazione,
introdurrei due metafore per capire come è
difficile, oggi, nel nostro dibattito,
interpretare la vita della pianificazione,
il suo stato di salute.
Una è quella che evoca la morte del piano, che
quindi si riferisce a uno strumento del
tutto superato, inadeguato; se volessimo
icasticamente e riduttivamente interpretare
l’esperienza della pianificazione comunale
di Salerno potremmo dire, in questa
prospettiva, che si tratta di un tentativo
di superamento del piano.
L’altra metafora è quella dell’ombra lunga del
piano, che fa riferimento - in Italia più
che in altri paesi europei - al fatto che i
discorsi sulla morte del piano non sono
riusciti a metterlo radicalmente in
discussione, specie se si parla di piano a
scala comunale, che conserva una sua
permanenza indipendentemente dal fatto che
nell’ultimo decennio sia stato preso da
una tenaglia, da una parte dalle direttive
dell’Unione europea e dall’altra dalla
comparsa di strumenti di pianificazione
complessa.
In questa tenaglia, lo spazio tradizionale del piano
regolatore generale rappresenta una
delle peculiarità della cultura e
dell’esperienza italiana.
Non c’è dubbio che nello spazio intermedio tra la
rappresentazione evocata dalla morte del
piano e quella della sua ombra lunga si
colloca la crisi del tradizionale ruolo
dominante dello Stato nelle sue diverse
articolazioni, come espressione di
un’intenzionalità largamente superata,
messa alla prova dal paradigma
intersoggettivo comunicativo.
Non è solo lo Stato nelle sue diverse articolazioni a
interpretare l’interesse comune e a
dettare le regole della trasformazione, ma
è l’insieme dei soggetti diversi che
superano la contrapposizione
pubblico-privato e che concertano soluzioni
in rappresentanza degli interessi di cui
sono portatori.
In questa prospettiva è evidente che la pianificazione di
area vasta subisce una forte
trasformazione.
I piani territoriali regionali (Ptr) della prima
generazione, che conservano forte
l’impronta intenzionalistica e si muovono
sulla base di prescrizioni, sono ormai un
residuo del passato. Attualmente dobbiamo
confrontarci con dei Ptr di seconda
generazione, che intorno alla seconda metà
degli anni ’90 inaugurano una nuova
stagione di pari passo con il rinnovo degli
apparati legislativi regionali.
Esperienza con la quale anche la Regione Campania - che in
questi mesi affronta il doppio tema della
nuova legge urbanistica e
dell’organizzazione del Ptr - deve
confrontarsi.
Qual è in sostanza, a livello di pianificazione regionale,
una traiettoria che in qualche modo si tenta
di seguire?
Sicuramente i piani non sono più una sommatoria di analisi
sistematiche che, sovrapponendosi,
forniscono quasi automaticamente la
prospettiva del futuro (che è poi il mito
dell’analisi dei sistemi urbani negli anni
‘70).
A questa logica se ne sostituisce un’altra, non più
fondata su una (presunta) conoscenza
sistematica ed esaustiva del territorio, ma
sulla capacità di interpretarlo, di
coglierne i fattori di mutamento, nevralgici
perché portatori sia delle difficoltà da
superare che delle prospettive da assumere
come riferimento.
Inoltre, la visione intersoggettiva comunicativa ci
suggerisce che sono molteplici i soggetti
che intervengono nei processi di costruzione
del territorio.
Non possiamo avere solo una visione di leggi da rispettare;
dobbiamo averne una su cui fondare gli
indirizzi per la copianificazione, nel
convincimento che non solo i diversi livelli
istituzionali convergono per determinare lo
spazio dei diversi ruoli, ma anche i
soggetti non istituzionali che devono
operare e perciò comprendere i motivi per i
quali un percorso è preferibile ad un
altro. Viceversa, ci troveremmo a
ripercorrere la storia che abbiamo alle
nostre spalle: molti piani, molte leggi,
trasformazioni che vanno in un’altra
direzione.
Ce la siamo cavata, nei decenni scorsi, con valutazioni
morali o moralistiche sulla pianificazione.
Una volta è il destino cinico e baro,
un’altra è la speculazione, un’altra
volta ancora è la rendita fondiaria. Però,
siccome il nostro paese è fatto di un
insieme di queste cose, oltre i giudizi di
ordine etico ci sono soprattutto impegni di
ordine politico da sostenere per migliorare
il funzionamento della manovra
pianificatoria. Noi siamo in questo
spartiacque, di fronte tra l’altro, a una
situazione che ci riguarda da vicino, che è
il problema dell’utilizzazione di una
massa rilevante di risorse finanziarie che
chiedono di essere spese. Ed è ovvio che
una spesa sostenibile ed efficace debba
superare il modello della distribuzione a
pioggia.
In questo senso dobbiamo, nel rispetto delle modalità
tecniche dell’Agenda 2000/2006, procedere
a una lettura del territorio fatta per punti
di forza e punti di debolezza, adeguata alla
struttura di filiere - come ad esempio i piani
integrati territoriali - coerenti,
sostenibili ed efficaci.
Tutto questo è facile a dirsi, ma a farsi è parecchio più
complicato.
Accingendomi a svolgere una consulenza alla Regione
Campania per l’impostazione delle linee
guida del Ptr, ho immediatamente dichiarato
i primi due punti di riferimento che il Ptr,
o meglio le sue linee guida, devono
assumere; il primo è come superare lo
scoglio della pianificazione paesistica e,
quindi, come fare in modo che la regione
detti le linee guida che le province devono
assumere al loro interno (piano
territoriale di coordinamento provinciale);
l’altro è il programma operativo
regionale.
Non da nemici del piano, ma cercando di essere amici
della pianificazione, dovremmo
impegnarci a fare in modo che la risposta
della pianificazione territoriale di area
vasta sia una risposta efficace. E per fare
questo occorre, esercitando uno sguardo
moderno, mettere mano a un piano
realizzabile efficacemente in tempi rapidi.
Se riusciamo a sostenere una cosa di questo genere siamo
credibili, altrimenti, in quanto tecnici,
rappresentiamo una figura superata che
appartiene ad un passato forse glorioso per
alcuni, però in qualche modo ingombrante e
poco utile.
In questa direzione io credo occorra guardare con grande
interesse al lungo e faticoso percorso che,
nella nostra regione, conduce
all’esperienza della programmazione
negoziata.
Si tratta di una esperienza che, in molti contesti, pur
senza aver prodotto esiti tangibili di
grande rilevanza, ha però innescato
processi di identità significativi,
stimolando la capacità delle realtà locali
di leggere se stesse, i propri bisogni, le
proprie necessità e di individuare percorsi
e soluzioni condivise.
Quindi, credo che la programmazione negoziata sia un
serbatoio nel quale si debba pescare per
individuare traiettorie utili da riversare
nell’Agenda 2000/2006, all’interno dei
diversi momenti di pianificazione
territoriale.
Ultimo elemento su cui riflettere è costituito dal Sud del
nostro paese; la Campania è la principale
delle regioni del Mezzogiorno d’Italia, su
cui pesa evidentemente l’esperienza delle
leggi urbanistiche più che quella dei piani
territoriali (si vedano, per esempio, le
numerose indagini prodotte dall’Inu sul
governo del territorio).
Da queste radiografie viene fuori che, nonostante la
questione meridionale si sia totalmente
trasformata, ancora esistono tracce di due
Italie nelle quali appunto alcune esperienze
nel Sud non sono state ancora fatte. Il
territorio ancora mostra la mancanza di una
normalità nella pianificazione e questo in
parte è il retaggio di un centralismo
decisionale e professionale legato alla
storia dell'intervento straordinario, che si
è interrotto da più di un decennio ma che
ha lasciato una traccia e che, tra l'altro,
vede anche una responsabilità e difficoltà
nella formazione dei nuovi tecnici
necessari.
Da docente universitario non mi assolvo dalla responsabilità
di essere parte di un’istituzione che, nel
merito della formazione di nuove figure di
tecnici del territorio, è in grave
ritardo.
E non è una cosa superabile, come accade in ambito
accademico, nella contrapposizione di
scuole: i sostenitori del progetto contro i
sostenitori del piano e delle
politiche.
Anche Confindustria sostiene che la Regione Campania è in
grave ritardo nella spesa dell’Agenda
2000/2006, che c’è il rischio che questi
fondi non vengano utilizzati e che ciò
dipende, in parte, anche dalle carenze della
burocrazia, dei tecnici degli enti locali.
Il problema è che, effettivamente, c’è un ritardo nella
creazione di nuovi tecnici e questa è una
responsabilità grave dell’Università che
deve invece accelerare nella definizione di
nuovi curricula formativi se si vuole
veramente cogliere la sfida della
modernizzazione.
Francesco
Indovina
Del
processo di trasformazione territoriale
Per pratiche sociali si intendono tutte le attività
che i membri di una collettività, singoli o
associati, compiono allo scopo di realizzare
loro specifici e leciti obiettivi. Tali
pratiche (individuali, di imprese, di enti e
di organizzazioni, ecc.) si caratterizzano,
come di parte. Le pratiche sociali,
quindi, si connotano: per l’origine individuale,
per lo scopo di parte e per la loro
regolamentazione di diritto.
Per politiche si intendono quelle azioni, decisioni aventi un
qualche contenuto operativo, attivate da una
istituzione pubblica. Le politiche
possono anche avere un contenuto settoriale
(casa, trasporti, ecc.), ma esse si
caratterizzano per non essere di parte, ma
implicitamente o esplicitamente,
correttamente o meno, affermano interessi
generali secondo scelte legittimamente
espresse da organismi istituzionali. Le
politiche, quindi, si connotano per
l’origine istituzione pubblica, per
lo scopo interesse generale, per la
natura della loro regolamentazione decisione
politica1.
Va preso atto che le trasformazioni urbane e territoriali hanno
il loro motore nelle pratiche sociali:
queste determinano il dinamismo di una data
comunità, tendono continuamente a forzare
la situazione di fatto sfruttando con
creatività occasioni, opportunità,
tecnologia, realizzando nuove forme di vita,
dando senso allo spazio attraverso la sua
funzionalizzazione, ecc. Alle pratiche
sociali va riconosciuta la capacità di
determinare l'innovazione, di modificare le
caratteristiche della convivenza e, in
generale, di promuovere il dinamismo della
città e del territorio.
Non si può disconoscere, tuttavia, il fatto che questo processo, per
così dire autonomo delle pratiche sociali,
generi elementi negativi: come già detto
esse sono caratterizzate da parzialità,
cioè, un punto di vista di parte (di un
settore, di un gruppo sociale, di un
individuo ecc.) che si afferma o si intende
affermare. Solo punti di vista grossolani o,
per meglio dire, irrealistici sui meccanismi
della società, possono affermare che un
beneficio per tutti possa derivare dalla
libera affermazione di tanti interessi di
parte (senza dire che questo punto di vista
non ha mai trovato accoglienza nell'analisi
dell’organizzazione dello spazio). In
sostanza, le pratiche sociali, proprio perché
di parte, presuppongono un'azione che ne
limiti e ne corregga i processi o, se fosse
possibile, li pieghi ad un interesse
di ordine superiore. Un secondo elemento
negativo è rintracciabile nel fatto che,
all'interno del dinamismo indotto dalle
pratiche sociali, prende il sopravvento il
più forte a scapito del più debole;
le pratiche sociali, infatti, si
caratterizzano anche come concorrenti
tra di loro o anche come conflittuali
nei riguardi del sistema di regole e
delle politiche attivate come traduzione
dell'intenzionalità collettiva. Non pare
accettabile questa sorta di darwinismo
sociale, anzi appare opportuno sottolineare
la gravità del prevalere delle ragioni del
più forte ove fossero in gioco strati
sociali o patrimoni non rinnovabili
o valori culturali o anche le stesse
prospettive di sviluppo economico.
La considerazione che le pratiche sociali abbiano un alto contenuto
dinamico e contemporaneamente un'alta
parzialità, finisce per costituire un
aspetto di grande rilevanza. Da una parte,
infatti, sembra necessario e conveniente
salvaguardare l'aspetto positivo, il
dinamismo, mentre dall'altro lato non può
accettarsi il loro pieno dispiegarsi, pena
un deterioramento generale della condizione
sociale e per quanto qui interessa in
particolare della condizione urbana e della
struttura territoriale.
L'attività di governo delle trasformazioni territoriali deve,
quindi, da una parte permettere il
dispiegarsi delle pratiche sociali positive
e dall'altra deve operare per correggerle ed
evitarne gli esiti negativi e, nello stesso
tempo, offrire nuovi indirizzi e nuove
opportunità all’attività degli
individui. In tal modo si dovrebbe garantire
insieme sia l'equilibrio del territorio e
della città e l’affermarsi dei principi
di giustizia sociale, sia la dinamica
sociale e territoriale.
Quello che è importante non è tanto permettere o proibire
anche questo ove necessario, ma,
soprattutto, attraverso l'azione di governo
(in particolare per mezzo dell’attivazione
di politiche opportune) determinare
condizioni continuamente rinnovate per le
pratiche sociali che non contrastino con i
principi di giustizia sociale sostanziale e
di garanzia per le generazioni future.
Le politiche, quindi, costituiscono gli strumenti attraverso i quali la
collettività, per mezzo delle sue strutture
istituzionali, esprime e manifesta la
propria intenzionalità circa il
futuro della città e del territorio.
Dei
poteri sul territorio
Mi pare importante riprendere l’immagine che ci ha
proposto Belli a proposito della matrioska:
il processo di pianificazione come piani che
stanno l’uno dentro l’altro (la metafora
proposta è stata di volta in volta quella
delle scatole cinesi, del cannocchiale,
ecc.). Questo richiamo ci deve servire per
affrontare un tema importantissimo, quello
del potere sul territorio; più che
un tema si tratta di un tabù tanto
inviolabile quanto finto.
Il potere sul territorio, si sostiene, fonda la identità locale
e, quindi, non può che appartenere che alla
comunità locale; si tratta di una
condizione inviolabile (come tutte le
questioni nella quali entra l’identità).
Tuttavia è noto, oltre che essere
esperienza quotidiana, che tale potere è
messo continuamente in discussione e trova
continue limitazioni: poteri di
livello superiore, infatti, hanno la
possibilità di introdurre vincoli (si pensi
ai livelli di piano), di dettare condizioni
d’uso (si pensi alle servitù militari),
di trasformare (si pensi a tutte le azioni
che hanno valenza impositiva, come le opere
pubbliche), ecc. In realtà un numero troppo
elevato di istituzioni hanno potere di
incidere sul territorio, spesso in modo
scoordinato, spesso in contrasto e
contrapposizione tra di loro.
Il principio etico e pragmatico su cui si fonda la prerogativa locale
di potere sul territorio riconosce il
diritto alla territorialità individuale
e apprezza il fatto che solo chi sente che
il territorio gli appartiene può garantirne
la salvaguardia, la difesa e la migliore
utilizzazione. Un apprezzamento, questo, che
si rifà a schemi di comportamento ormai
desueti, quelli fondati sul prevalere nel
territorio dell’attività primaria e in
particolare dell’agricoltura tradizionale.
La realtà oggi è molto diversa:
l’attività primaria è ridotta all’osso
e comunque si svolge secondo pratiche non
tradizionali, inoltre il territorio ha
accumulato un sempre più alto valore di
scambio e chi ne detiene la proprietà tende
a realizzarlo (urbanizzandolo,
trasformandolo in discarica, costruendo
abusivamente, ecc.) al di là di ogni
attenzione alla salvaguardia (qui sta molta
opposizione alle zone protette ed anche ai piani).
Il punto focale, tuttavia, è un altro: non si può non assumere un
punto di vista che esalti il risparmio del
territorio, che si ponga il problema di
salvaguardia delle condizioni ambientali,
dell’attivazione di politiche di rispetto
delle condizioni storiche e naturali del
territorio. Che cioè si ponga il problema
fondamentale di una trasformazione
del territorio (non evitabile e da non
evitare) che sappia coniugare soddisfazione
dei bisogni, minima manomissione e razionale
uso dello spazio.
Quest’ottica è diventata un obbligo proprio a partire dalla
constatazione che è mancato in questi anni
qualsiasi rispetto per il territorio
da parte di chi aveva sul quel territorio il
potere (gli esempi sono molteplici:
dalla manomissione delle coste e delle
montagne, all’abusivismo a ridosso del
nostro patrimonio archeologico,
dall’abbandono della montagna, alla
costruzione di infrastrutture che obliterano
ogni considerazione di rispetto per
l’ambiente, dalla privatizzazione dello
spazio pubblico al suo degrado come piazze,
giardini, ecc.). Non sosteniamo un punto di
vista conservazionista, quanto l’uso del
buon senso e della responsabilità etica: il
territorio andrà trasformato con lo sguardo
fisso alle necessità collettive, alle
esigenze primarie, agli adeguamenti
necessari per migliorare la vita quotidiana,
ecc., esso va messo al riparo da ogni
speculazione, va negato che la proprietà
costituisca un pieno di diritti e un vuoto
di doveri.
Le precedenti osservazioni vanno correlate per ricavarne qualche
indicazione. È evidente, così, che non
sempre (mai?) il potere locale sul
territorio ha costituito una garanzia di
salvaguardia, di difesa e di razionale
utilizzazione del territorio stesso. Si
tratta di un potere troppo vicino
alla pressione degli interessi e per questo
più propenso a cedere o a non
controllare; per altro, molto spesso,
l’uso del territorio per bisogni propri ma
non gradevoli vengono scaricati su territori
vicini (caso tipico è quello dei rifiuti);
o, ancora, decisioni di livello superiore
mettono in discussione scelte locali. In
queste condizioni parrebbe utile che il
potere sul territorio dovesse essere
allontanano per quanto possibile dai suoi
utilizzatori di fatto e potenziali (si ha
consapevolezza che la distanza
istituzionale non sia un elemento di sicura
garanzia, tuttavia, assunta come una
prerogativa di salvaguardia).
Va anche osservato che se da una parte i confini amministrativi
costituiscono una discontinuità,
dall’altra parte il territorio costituisce
un continuum che va preso in considerazione
nella sua interezza. È noto che lungo
questa strada si finirebbe per immaginare un
potere territoriale di tipo continentale,
tuttavia un sano punto di vista pratico può
permettere di non arrivare ad assurde
posizioni (e contrapposizioni).
In sostanza quello che si prospetta come elemento di riflessione (è
nota la difficoltà di modificare la
situazione di fatto) è la messa in agenda
di una possibile modifica del potere sul
territorio, in particolare la sua
unificazione ad un livello superiore a
quello locale (la regione o qualsiasi altro
livello intermedio), quale sfondo per un
ragionamento sulla pianificazione di area
vasta.
Va da sé che non pare accettabile che possano esistere delle decisioni
che travalichino destinazioni del territorio
già definite secondo procedure
istituzionali sulla base sia di analisi
scientifiche che di scelte politiche
condivise.
Insomma, potere territoriale dislocato a livello intermedio e stabilità
delle scelte operate (cosa che contrasta con
gli indirizzi del nuovo governo) sembrano
necessarie non solo per garantire che il
governo delle trasformazioni del territorio
possa operarsi con efficienza ed efficacia,
ma anche per affermare principi si
salvaguardia e di razionale uso dello
spazio.
Ovviamente tutto questo non dà certezza che le scelte operate siano
coerenti con i principi affermati, è la
comunità (in questo caso sia quella vasta
che quella locale) che ha capacità
di incidere, giudicare, approvare o
rigettare le scelte, ma per lo meno si
potrebbero evitare contraddizioni,
sovrapposizioni, conflitti di competenze,
frammentazioni delle stesse competenze,
nonché la indeterminatezza delle scelte
dato che esse possono essere messe
continuamente in discussione da parte di
provvedimenti parziali e settoriali o di
livello superiore.
Dei
contenuti della pianificazione di area vasta
Le precedenti osservazioni, a me pare indichino alcuni
indirizzi e contenuti della pianificazione
di area vasta. Vale la pena, tuttavia,
prioritariamente, di prendere nota delle
modifiche intervenute in diverse
legislazioni urbanistiche regionali.
Un principio che pare affermarsi con larghezza di consensi è quello di
distinguere due tipi di piano: quello
strutturale e quello operativo (possono
avere nomi diversi ma la sostanza non
cambia). Il primo con valenza
tendenzialmente di durata molto lunga, serve
a definire, in un certo senso, i livelli di
trasformabilità di un dato territorio; il
secondo di durata uguale al mandato
elettorale dell’amministrazione locale,
individua, all’interno dei vincoli e delle
indicazioni del primo, quali trasformazioni
entro il mandato saranno realizzate (o
almeno potranno essere realizzate).
Sembra un criterio funzionale e ragionevole: da una parte toglie
apprensione per il piano regolatore
generale (tempi di realizzazione, tempi
di durata, capacità previsiva, capacità
realizzativa, ecc.); dall’altra parte,
dovrebbe mettere un territorio al riparo di
incursioni stravolgenti e nello stesso tempo
responsabilizza l’amministrazione per le
concrete realizzazioni decise.
C’è un punto, tuttavia, poco convincente: il piano strutturale,
nonostante siano previste diverse tipologie
di consultazione a più livelli fino alla
conferenza di servizio a livello
provinciale, risulta spesso di competenza
dell’amministrazione locale. È
comprensibile che in una fase nella quale si
tende a privilegiare il decentramento,
processi di trasferimenti di potere verso
l’alto non sarebbero stati ammissibili, ma
in questo modo non si sottrae la
pianificazione alle pressioni locali e
quindi il piano struttura potrebbe risultare
non adeguato a salvaguardare il territorio.
In un certo senso questa strutturazione
della pianificazione costituisce una
limitazione all’attiva realizzazione e ai
contenuti del piano di area vasta.
In sostanza mantenendo il potere territoriale a livello più
basso, quello delle amministrazioni locali,
si finisce:
- per ridurre l’operatività del piano di area vasta;
- per vincolare il piano di area vasta alle decisioni (anche di piano)
che sono state prese o che stanno per essere
prese a livello locale;
- per indurre ancora una visione frammentaria, piuttosto che
complessiva, del territorio.
È noto, nella discussione è emersa, che i processi di piano possano
prevedere la possibilità di procedere a
consultazioni, ad accordi, ecc., tutte cose
sagge e necessarie purché si stabilisca con
precisione a che livello si pone il potere
territoriale.
Mi pare sia possibile, proprio a partire dalle novità introdotte nelle
legislazioni regionali, schematizzare i
contenuti dei due piani assumendo che il piano
strutturale possa identificarsi con la
pianificazione di area vasta. Va da sé
che mentre ogni schematizzazione costituisce
una semplificazione dei problemi è
altrettanto evidente che essa rappresenta
una modalità di presentazione in chiaro
delle questioni.
Si può riconoscere ad ogni livello di piano l’esistenza di due
elementi (in più raffinate elaborazioni se
ne possono individuare un numero maggiore)
che hanno peso diverso a secondo del livello
di pianificazione. Possiamo chiamare il
primo elemento antropico, inteso come
le forme dello spazio così come si sono
strutturate per effetto delle attività
umane e le domande future di spazio delle
popolazioni insediate a fini sociali,
economici, culturali e di vita quotidiana.
Il secondo può essere nominato elemento
ambientale, inteso come le necessità di
conservazione, di salvaguardia, di
valorizzazione sociale (non necessariamente
economica), di esaltazione degli elementi
culturali (storici e non) che un territorio
possiede e che nell’ottica prima indicata
meritano attenzione (per intenderci ambientale
non sta per naturale).
A partire dalla precedente semplificazione si può assumere come a
livello di pianificazione di area vasta
(alias piano struttura) sia l’elemento
ambientale che prevale tenuto conto
dell’elemento antropico, mentre a livello
del piano operativo sia l’elemento
antropico a prevalere tenuto conto
dell’elemento ambientale (in ambi i casi
il tenuto conto indica una
prospettiva mediata e, si potrebbe dire,
meditata che nega ogni elemento di
assolutismo).
Questo vuol dire, in prima istanza, che il piano di area vasta
individua le destinazioni d’uso del
territorio, il livello di trasformabilità
di ogni comparto, la pressione edificatoria
ammessa in ogni comparto e la sua
destinazione, il reticolo delle
infrastrutture, come pure traccia una linea
di confine delle aree urbane che
costituiscono anche le zone di massima
trasformabilità; il piano, inoltre,
localizza nel territorio gli impianti al
servizio della collettività (tipo quelli
relativi al trattamento dei rifiuti o
rilevanti impianti sportivi), mentre
localizza all’interno dell’area urbana,
ma non puntualmente, i servizi collettivi
che possono e devono avere localizzazione
urbana (ospedali, scuole di diverso livello,
ecc.); individua il patrimonio storico e
culturale da salvaguardare, conservare,
restaurare ecc.; individua anche le trincee
rese disponibili per le infrastrutture della
mobilità ed ogni altra necessità
territoriale trovando per essa quella
localizzazione che rispetti il principio che
a questo livello è prevalente (cioè l’elemento
ambientale).
Tale piano assume connotato di lungo periodo, almeno venticinquennale e
costituisce vincolo senza possibilità
alcuna di deroga (una strada è meglio che
sia più lunga di qualche chilometro
piuttosto che attraversare una zona di
salvaguardia).
Le forme di concertazione, collaborazione, confronto, ecc. che possono
essere attivate per raggiungere le scelte
prima indicate possono essere le più varie
e le più articolate, avendo presente e
facendo valere, tuttavia, il principio che a
questo livello prevale l’elemento
ambiente, che cioè gli interessi
attuali non possono fagocitare gli interessi
di lungo periodo, la conservazione
dell’ambiente e della diversità. Essa si
basa, quindi, sull’analisi scientifica e
sulla concezione più avanzata di
salvaguardia territoriale.
È all’interno dell’area di confine urbano che l’elemento
antropico, prioritario su quello
ambientale, realizza le necessità espresse
dalla popolazione. In quest’ambito il
piano non può che essere di breve durata
(il mandato dell’amministrazione) e le
previsioni devono risultare compatibili,
appunto, con la breve durata.
Proprio nell’ambito della rinnovata filosofia autonomista,
nella quale cioè le autonomie locali, ai
diversi livelli, vengono esaltate, devono
porsi ulteriori questioni, ove fosse vero
che la declinazione dell’autonomia non può
prescindere, ma al contrario deve
incorporare l’equilibrio tra le diverse
zone del paese. Questa questione, è noto,
non riguarda soltanto le macro aree del
paese, ma trova concreta manifestazione
anche all’interno delle aree intermedie ai
quali si fa riferimento con la
pianificazione di area vasta. Tenuto conto
di questo pare di poter dire che tre sono
gli aspetti principali ai quali il piano di
area vasta deve porre attenzione:
- equilibrio tra le diverse zone: il punto di partenza non potrà che prendere atto
delle differenze che storicamente si sono
costruite all’interno del territorio, in
particolare le gerarchie territoriali, i
processi di concentrazione produttiva e dei
servizi, ecc. Tale presa d’atto non è
premessa per attivare una impossibile e
velleitaria politica di riequilibrio
assoluto tra le diverse parti del
territorio, né, tanto meno, per accettare
lo stato di fatto come immodificabile,
quanto piuttosto per verificare se
gerarchie, concentrazioni, ecc.
costituiscono elemento dinamico positivo per
l’insieme del territorio o piuttosto
ostacolo, caso nel quale si devono suggerire
correttivi. Inoltre, soprattutto per quanto
riguarda le concentrazioni produttive, andrà
verificato se tali concentrazioni, in
termini di emissioni, di traffico, ecc., non
possono costituire elemento negativo e se
non sia possibile intervenire, non tanto per
limitare lo sviluppo produttivo quanto per
renderlo meno invasivo e distruttivo; infine
i processi di concentrazione, che possiamo
definire cumulativi, andranno corretti perché
molto spesso essi mostrano situazioni di
inefficienza sia sul piano territoriale che
economico e sociale;
- servizi collettivi: il riferimento precedente alla concezione autonomista
investe in modo sostanziale la dotazione dei
servizi delle singole comunità che,
autonomamente e in base alla loro capacità
di spesa, potranno decidere qualità e
quantità dei servizi offerti alla
collettività. Senza voler mettere in
discussione questo approccio sembra
possibile definire uno standard minimo di
servizi per ogni tipologia (dimensionale, o
altro) di comunità, questo standard
dovrebbe essere garantito a tutti i
cittadini quali espressione materiale dei diritti
di cittadinanza nell’ambito
dell’area vasta. Il piano di area vasta
dovrebbe esplicitare la metodologia per
giungere a definire nella specifica
situazione lo standard minimo e indicare le
eventuali carenze delle singole comunità e
le politiche specifiche da attivare;
- qualità della vita: è certo che la valutazione della qualità della vita
costituisce un elemento forte della
soggettività individuale, ma non bisogna
barare, esistono delle condizioni minime di
qualità di vita (risorse economiche
disponibili individualmente, accessibilità
ai servizi, attrezzature, infrastrutture,
ecc.) che devono essere garantite. Anche in
questo settore vale quanto detto in
precedenza a proposito dei servizi.
Quello che si propone, quindi, è un punto di vista forte per la
pianificazione di area vasta: un piano in
grado di indirizzare le pratiche sociali di
un territorio ampio, fissarne le regole
operative, individuando vincoli e possibilità,
suggerendo, ove il caso, interventi di altre
istituzioni. In sostanza il piano di area
vasta dovrebbe avere un contenuto cogente su
tutta la parte che si è definita elemento
ambientale ed essere indicativa per l’elemento
antropico. Anche se i due elementi,
ovviamente, presentano fortissime
interazioni, va a ciascuna di essa
riconosciuto un certo livello di autonomia.
Personalmente credo che la pianificazione di area vasta potrebbe far
uscire la pianificazione dalle secche dei
piani l’uno entro l’altro e,
contemporaneamente, fornire elementi di
indirizzo preciso per un piano operativo che
deve inverare le decisioni della singola
collettività.
Come il piano d’area vasta si collochi all’interno del sistema di
pianificazione in via di (continua)
sistemazione attraverso le singole
legislazioni regionali, non è né chiaro, né
omogeneo, ma si tratta di un travaglio che
può essere produttivo se esce dalla
sclerotica discussione piano si piano no,
piano flessibile, ecc. Non si tratta di dare
spazio ai privati nella pianificazione, in
realtà la trasformazione del territorio è
sempre stata opera dei privati, ma piuttosto
di definire le condizioni perché le
pratiche sociali (le azioni dei privati)
possano insieme garantire la dinamica
territoriale e non costituire elemento
distruttivo dell’equilibrio territoriale.
Dall’altra parte il piano deve
avere una forte intenzionalità e una
rilevante capacità operativa e di
attivazione in grado di garantire
l’interesse generale senza frenare e
mortificare le pratiche sociali positive,
anzi moltiplicandone le opportunità in un
contesto finalizzato.
1
In qualche caso le pratiche sociali tendono
ad affermare interessi generali, mentre, al
contrario, alcune politiche possono essere
strumento per l'affermazione di interessi di
parte. Tuttavia questi casi non modificano
il quadro prima delineato. Si deve anche
sottolineare che le politiche quando
affermano interessi di parte tendono a travestirsi,
a presentare, cioè, un aspetto formale di
interesse generale contro una sostanza di
parte, il che, implicitamente costituisce
conferma del contenuto generalistico
delle politiche. Al contrario le pratiche
sociali assumono connotato di interesse
generale quando sono espressione di azioni
politiche collettive, il che, in questo
caso, le fa somigliare ad un mezzo che le
parti sociali utilizzano per assumere
direttamente un potere che di norma è
delegato alle istituzioni o per influenzare
le istituzioni a prendere decisioni coerenti
con gli interessi generali sostenuti.
(
torna all'intervento
di nota 1 )
Giovanni
Lambiase
L’assessorato al territorio e mobilità della Provincia
di Salerno pubblica la rivista per aprire un confronto sul tema della
pianificazione di area vasta, che tratta
questioni di grande attualità e diffonde il
lavoro e l’esperienza che sta conducendo
l’amministrazione provinciale proprio in
questo settore.
Un’esperienza che ha avuto come momento conclusivo, almeno nella sua
prima parte, la redazione del piano
territoriale di coordinamento (Ptc),
prodotto dal nostro ufficio di piano
coordinato dal prof. Edoardo Salzano e dai
suoi consulenti.
Con grande soddisfazione possiamo dire che il Ptc ha dato, già nella
sua fase di elaborazione, risultati concreti
in termini di azioni e di strategie di
riassetto urbanistico e socio-economico del
territorio.
Il nostro obiettivo primario è stato quello di fondere la fase di
studio e di indagine sul territorio per la
formazione degli atti di pianificazione, con
la fase di attuazione e gestione vera e
propria degli interventi ed azioni sul
territorio, in coerenza con il quadro
generale degli indirizzi approvati dal
consiglio provinciale.
Abbiamo costruito e formato il Ptc e, contemporaneamente,
con appositi concorsi di idee, abbiamo
preparato una serie di progetti esecutivi su
aree omogenee del territorio provinciale,
per le quali vi era necessità di intervento
non solo per scadenze legate all’uso dei
fondi disponibili ma anche per l’urgenza
di agire in zone dove la
riqualificazione ambientale o la
valorizzazione delle risorse locali
impongono azioni rapide e diffuse.
È stato necessario approfondire, in particolare, uno dei settori che
ritenevamo strategici alla promozione dello
sviluppo del nostro territorio e che
costituisce, oltretutto, uno dei principali
obiettivi indicati negli indirizzi del Ptc:
il miglioramento dell’accessibilità
del territorio, la riqualificazione del
sistema dei trasporti.
Abbiamo così avviato, contestualmente alla formazione del Ptc, un
piano di settore: il piano provinciale
dei trasporti e della mobilità.
Occorreva riorganizzare il sistema del trasporto pubblico locale
(Tpl) nella nostra provincia, eliminando, in
particolare, le sovrapposizioni di linee, i
conseguenti sprechi finanziari, i disservizi
per l’utenza e, soprattutto, mettendo
in rete ed integrando il trasporto su
ferro, su gomma e via mare. Riteniamo,
infatti, che la razionalizzazione e la
ristrutturazione del sistema di mobilità e
di trasporto, in particolare il
potenziamento del Tpl, sia una delle
condizioni essenziali per attrarre
investimenti produttivi sul territorio e
creare uno sviluppo equilibrato e
sostenibile.
È importante sottolineare, inoltre, il nuovo rapporto instaurato con
la regione, in particolare con l’assessore
ai trasporti Cascetta e con l’assessore
all’urbanistica Di Lello. La sintonia
sugli obiettivi di fondo dei processi di
razionalizzazione e riqualificazione delle
infrastrutture dei trasporti e dei
principali insediamenti urbanistici, la
collaborazione realizzata, ci consente di
costruire, in modo unitario, un piano
complessivo legato al territorio
provinciale, perfettamente coerente con
un’idea di sviluppo organico del
territorio regionale.
Stiamo dando, come amministrazione provinciale, un contributo alla
formazione del progetto della metropolitana
regionale, avanzando proposte riguardanti,
in modo particolare, il potenziamento e il
rafforzamento del trasporto su ferro secondo
le indicazioni fornite dal prof. Salzano
durante l’elaborazione del Ptc.
Abbiamo tradotto le indicazioni, le elaborazioni e gli studi in azioni
concrete, impegnando anche parte dei fondi
della provincia.
Quindi, il metodo innovativo che caratterizza la nostra azione di
pianificazione e riorganizzazione
territoriale e infrastrutturale, consiste
nel voler attuare e gestire un programma di
sviluppo socio-economico del territorio
contestualmente alle indagini, agli
approfondimenti e alle verifiche sul
territorio.
Tale metodo di lavoro si è reso indispensabile oltre che, per i tempi
necessari alla elaborazione e approvazione
dei piani urbanistici a vari livelli
(comunale, provinciale e di area vasta),
anche per la necessità di dover rispettare
termini improrogabili per accedere ai fondi
del 1996-97, a quelli dei Pop 1996-97 della
regione o a quelli di Agenda 2000.
In definitiva, il Ptc sta assumendo un forte ruolo di coordinamento dei
fattori di sviluppo dell’intero territorio
provinciale. Tant’è che, già nella fase
di elaborazione e, per alcuni aspetti, in
quella esecutiva, esso coordina le politiche
comunali; cosicché gli indirizzi e gli
obiettivi del Ptc, sono stati legati alle
azioni che i comuni stanno producendo e
consentendo, in tal modo, di orientare in
maniera positiva la revisione dei vari piani
regolatori generali (Prg).
La redazione del Ptc ha significato uno sforzo notevole di
coordinamento con le amministrazioni che
agiscono sul territorio; uno sforzo che ha
consentito da un lato di mettersi al passo
con alcuni comuni che hanno la necessità di
rinnovare i loro vecchi piani, dall’altro
di rapportarsi in modo fattivo con il comune
capoluogo. Tutto ciò è sicuramente reso
possibile dall’esistenza di un programma
puntuale di azione sul territorio.
In questa fase il comune capoluogo sta producendo un innovativo Prg e
l’amministrazione comunale di Salerno ha
inciso in maniera forte su un territorio
esteso, puntando soprattutto sulla
riqualificazione della città e del tessuto
urbano e valorizzando e potenziando la
naturale vocazione della città di Salerno a
centro di servizi e centro ordinatore di un
territorio più vasto del suo stesso
perimetro comunale.
Le azioni e gli interventi che l’amministrazione comunale di Salerno,
guidata dal sindaco De Luca, ha messo in
campo, sono di straordinaria importanza per
il territorio comunale e per l’intera
provincia e rendono possibili nuove
condizioni di sviluppo.
Con il comune capoluogo, negli ultimi mesi dell’amministrazione De
Luca, si è aperto un dialogo intenso sul
ruolo che esso potrebbe avere rispetto alla
piana del Sele, all’area della costa
amalfitana, alla valle dell’Irno.
La provincia, d’altra parte, ha avviato una serie di azioni e
interventi fattivi con i comuni vicini al
capoluogo, soprattutto rispetto a settori,
come quello dei trasporti, che rendono
concrete ed attuali le stesse previsioni del
Prg di Salerno.
La metropolitana leggera, che il Comune di Salerno sta realizzando e
per la quale sono stati finanziati, dal
Ministro dei trasporti, altri 60 miliardi
per il suo prolungamento, è un tutt’uno
con il collegamento dell’aeroporto di
Pontecagnano, con la ferrovia verso la valle
dell’Irno per l’Università di Salerno e
con la realizzazione della bretella
ferroviaria Fisciano-Università.
In tale contesto si inserisce il programma della circumsalernitana,
fortemente voluto da questo assessorato e il
cui principale elemento di successo va
individuato nell’aver riempito un vuoto
nei collegamenti su ferro, in una parte
strategica del territorio provinciale.
In questo modo si potrà organicamente collegare l’intero sistema dei
trasporti su ferro del territorio
provinciale e lo stesso potrà riammagliarsi
al sistema di metropolitana regionale: così
da dar luogo ad una rete organizzata del
trasporto pubblico su ferro di scala
regionale.
Le infrastrutture ferroviarie potranno, allora, assumere la funzione di
asse portante della riorganizzazione dei
servizi di trasporto su gomma e
dell’integrazione dei vari modi di
trasporto pubblico sul territorio.
Il Ptc, dunque, contiene le premesse e le direttive strategiche dello
sviluppo sopra delineato e, al contempo, ha
assunto il ruolo di coordinamento delle
politiche comunali, orientando l’utilizzo
di ingenti risorse finanziarie della
provincia e diventando un riferimento
essenziale per la programmazione degli
interventi e la richiesta di finanziamenti
di Agenda 2000 e per la definizione dei progetti
integrati territoriali e tematici (Pit).
La Provincia di Salerno ha proposto alla Regione Campania sette Pit che
rispondono, in modo completo, a quelle che
sono le divisioni del territorio provinciale
in aree omogenee proposte dallo stesso Ptc.
Si sono individuati i Pit per l’agro
nocerino sarnese, per la valle
dell’Irno e per la costiera amalfitana.
Abbiamo proposto, ed è stato accettato dalla regione, il Pit
interprovinciale costiera
amalfitano-sorrentina, affrontando questioni
che toccano i territori provinciali di
Napoli e Salerno.
Abbiamo proposto un Pit tematico, denominato mare-costa, teso a
valorizzare in modo particolare la risorsa
mare, la risorsa costa della Provincia di
Salerno, attraverso i collegamenti marittimi
e gli interventi di risanamento ambientale.
Questo processo avviato sta dando buoni risultati ed ha trovato
consenso immediato anche da parte della
regione, perché è legata ad uno studio
complessivo, ad un’analisi puntuale del
territorio e ad un quadro coerente di azioni
e di interventi, frutto del rapporto
costruttivo tra la provincia e gli enti
locali interessati.
Credo che la rivista possa dare, in tal senso, un contributo significativo
all’approfondimento dei temi trattati e al
confronto sia con gli enti locali che con i
cittadini, gli imprenditori, i sindacati
presenti sul territorio provinciale.
Ringrazio, dunque, il prof. Gerundo e l’Università di Salerno per
l’impegno profuso nella realizzazione di
questa rivista che spero possa consentire,
nell’immediato futuro, un reale e
costruttivo rapporto, fino ad oggi mancato,
dell’Università con la Provincia di
Salerno e con gli enti locali; rapporto
indispensabile per costruire, in modo
concreto e rapido, le condizioni di un nuovo
sviluppo economico del nostro territorio,
rispondente alle esigenze e alle vocazioni
locali e alla valorizzazione e tutela della
risorsa ambientale. |