Sui temi dell’assetto e del controllo del territorio, questo fine
2001 si presenta denso di novità e gravido
d’incognite.
S’incrociano, nell’angusta intersezione istituzionale, le politiche
del precedente governo di centro-sinistra
con quelle dell’attuale compagine di
centro-destra.
Le une, reduci dallo sforzo di avere varato la riforma costituzionale,
confermata dal referendum del 7 ottobre
scorso, e sistemato in due corposi testi
unici la farraginosa materia edilizia ed
espropriativa; le altre, impegnate nella
cosiddetta legge obiettivo, con qualche
preoccupante caduta di stile rappresentata
dalle procedure di condono edilizio sulle
aree demaniali, inserite per emendamento
nella finanziaria 2002, e, più in generale,
nel tentativo di smontare sistematicamente i
risultati conseguiti dai predecessori: vale
per tutti lo slittamento dell’entrata in
vigore degli appena citati testi unici, dal
1 gennaio al 30 giugno, con il non malcelato
proposito di modificarli consistentemente
nei contenuti.
Le diverse politiche territoriali, portate avanti in competizione ed in
contrasto fra loro, sono facilmente
riconducibili ai più tradizionali modelli
di governo della cosa pubblica di
derivazione liberista e liberal riformista.
L’approccio liberista tende ad intervenire sul territorio attraverso
la realizzazione di grandi infrastrutture,
in linea di massima a spese dello Stato
centrale e senza particolari attenzioni alle
cosiddette integrazioni di sistema,
finanziandole a carico della fiscalità
generale, in un quadro di sgravi per i
redditi più alti, quindi, facendone gravare
il carico prevalente su quelli medio bassi (è
significativo come simulazioni sugli esiti
della riforma Tremonti, che riduce
l’imposizione fiscale a due aliquote
secche, del 23 e del 33%, eliminando
l’attuale meccanismo di progressività,
dimostrino come ciò porti ad un aggravio di
tasse per i redditi annui sotto i 20.000
euro, vale a dire per la gran parte dei
lavoratori dipendenti). Tale politica è
accompagnata da forme di compensazione di
forte impatto popolare, del tipo padroni in
casa propria, introdotte nella legge
obiettivo, mediante le quali si tende a
liberare da lacci e lacciuoli le popolazioni
da incombenze burocratico-amministrative,
come concessioni ed autorizzazioni edilizie
– almeno in alcuni casi – dando la
sensazione di una ritrovata libertà.
L’approccio liberal riformista, viceversa, ripone grande attenzione
alle politiche di organizzazione
territoriale tese alla riduzione degli
squilibri economici e sociali, che,
generalmente, si perseguono elevando
progressivamente e contestualmente
l’efficienza della struttura urbanistica
del paese.
La riforma federalista della Costituzione persegue quest’ultima
strategia, includendo fra le materie
assoggettate a legislazione concorrente, da
parte dello Stato e delle regioni, il
“.... governo del territorio, porti e
aeroporti civili, grandi reti di trasporto e
di navigazione, ...”.
La legge obiettivo, in sostanziale contrasto di orientamento, esordisce
affermando che “Il Governo, nel rispetto
delle attribuzioni costituzionali delle
regioni, individua le infrastrutture
pubbliche e private e gli insediamenti
produttivi strategici e di preminente
interesse nazionale da realizzare per la
modernizzazione e lo sviluppo del
Paese”.
Si tratta, senza dubbio, di un arretramento neocentralista che non solo
sferza gli organismi in cui si articola la
Repubblica oltre lo Stato, vale a dire
comuni, città metropolitane, province e
regioni, ma che, introducendo, a mezzo di
decreti legislativi, un futuro “quadro
normativo finalizzato alla celere
realizzazione delle infrastrutture e degli
insediamenti individuati”, apre ad un
mercato delle opere pubbliche parallelo e
distorcente dell’ordinario regime di
concorrenza fra le imprese del settore.
Tanto che il presidente dell’Ance si interroga su “come si può
dimenticare che l’Italia è il paese delle
città che sono i nodi di un sistema e che
questi nodi sono le vere cause dello scarso
dinamismo dell’economia italiana e che per
rimuoverle occorre realizzare e completare
una miriade di medie e piccole opere
lasciate invece in ostaggio di quelle
pastoie legislative e burocratiche
dalle
quali vengono salvate le grandi opere?” (l’ANCEinforma, dicembre
2001).
Sul versante dei meccanismi di produzione delle scelte, con connesso
necessario svecchiamento dei relativi
contenuti e procedure, l’armamentario
degli strumenti di governo del territorio,
alle diverse scale di operatività, viene
completamente ignorato.
“Il programma tiene
conto del Piano generale dei trasporti.
L’inserimento nel programma di
infrastrutture strategiche non comprese nel
Piano generale dei trasporti costituisce
automatica integrazione dello stesso”,
recita la legge obiettivo, quando sarebbe
stato opportuno trasformare la macchina che
lo ha messo in piedi, opportunamente
asciugandola, in uno snello ufficio del
piano generale dei trasporti, preposto al
suo continuo e processuale aggiornamento ed
alla verifica delle integrabilità di
sistema da applicare agli elementi della
rete che vi si vanno, di volta in volta, ad
aggiungere.
La stessa riforma urbanistica, su cui colpevolmente i precedenti
governi del centro sinistra si erano
trastullati per anni senza condurla in
porto, non è iscritta all’ordine del
giorno delle priorità dell’esecutivo né
del Parlamento.
Concettualmente, la pianificazione d’area vasta, a livello
provinciale e regionale, è il naturale
strumento, oltre che di verifica e
controllo, di proposta per
l’individuazione e la soluzione delle
criticità che rendono inefficiente il
sistema infrastrutturale nazionale.
Anche perché, le opere che il governo ritiene strategiche per il
paese, riconducibili, nel campo
prevalentemente dei trasporti, a quelle
strade e ferrovie che consentiranno di
percorrerlo in tempi più accettabili e con
maggiore confortevolezza, nel perseguire il
loro obiettivo non dovranno fare terra
bruciata dei territori che
attraversano.
E qui si fa riferimento non solo alla riduzione dell’impatto, visto
esclusivamente in chiave
naturalistico-ambientale, quanto
all’inserimento delle nuove infrastrutture
nel complesso delle articolazioni
territoriali interessate, per le quali esse
dovranno svolgere una innovativa funzione di
risistemazione ed efficientizzazione dei
preesistenti assetti urbanistici.
Sulla base della citata riforma federalista della Costituzione e preso
atto degli orientamenti dell’attuale
governo, alle regioni e province del paese,
indipendentemente dal colore politico che le
caratterizza, non rimane che prendere atto
definitivamente del ruolo che hanno da
assolvere: migliorare l’efficienza del
proprio territorio, difendendolo da
possibili sconvolgimenti e dalle ricadute
negative che essi possono determinare sulle
popolazioni e sulle economie locali; fare in
modo che la realizzazione di grandi
infrastrutture strategiche, da possibile
indebolimento dell’armatura urbana, si
converta in fattore di irrobustimento della
stessa; tutelare i diritti politici delle
popolazione insediate ad esprimersi per
tempo, attraverso il funzionamento delle
assemblee elettive, sui progetti di assetto
del territorio e non essere, al più,
chiamati a ratificare scelte sovraordinate
sulle quali eventuali osservazioni
migliorative, spesso, sono strumentalmente
assimilate a manovre dilatorie, messe in
campo per mera difesa di posizioni
precostituite.
Da queste considerazioni deriva il rinnovato
convincimento sulla necessità ed utilità,
oggi, della pianificazione d’area vasta,
regionale e provinciale, da cui consegue
l’impegno nel portare avanti la nostra
rivista. |