Numero 3 - 2001

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La pianificazione strategica nei patti territoriali della Regione Campania


Emanuela Coppola

Francesco D. Moccia


La programmazione negoziata ha rappresentato la gran novità degli anni ’90. Con essa si sono avviati processi di sviluppo dal basso, in un quadro di azioni strategiche che i soggetti promotori si sono fatti carico di precostituire, dando vita ad una pluralità di patti territoriali che interessano la quasi totalità del territorio regionale. Emanuela Coppola e Francesco D. Moccia analizzano le esperienze giunte ad un grado di maturazione più avanzato, con riferimento alla evoluzione delle procedure di formazione delle scelte e dei contenuti delle strategie messe in campo

 

 

 

 

 

 

 

I patti territoriali pur non rappresentando dei veri e propri piani urbanistici, ma degli strumenti di programmazione economica, invadono di continuo il campo d’azione dell’urbanistica (vanno a localizzare fisicamente sul territorio strutture ed infrastrutture oltre che risorse, generano flussi di mobilità, ecc.) e la loro complessa struttura utilizza meccanismi come la concertazione, la partecipazione, la pianificazione strategica, la costruzione di scenari, innovativi nell’ambito dell’urbanistica e intorno ai quali si concentrano le maggiori aspettative.

La difficoltà più evidente di una ricerca sui patti territoriali in Campania è rappresentata dall’essere un’esperienza di programmazione ancora in itinere e pertanto difficile da valutare; manca infatti quella giusta distanza di tempo che permetterebbe di analizzare se tale tipo di strumento riuscirà effettivamente a generare un’auspicabile sviluppo del territorio.

Piuttosto che sui risultati, la ricerca si è concentrata sui processi, ovvero sugli strumenti per pianificare lo sviluppo. Piani e programmi elaborati si considerano prodotti (intermedi) di questa attività.

Si sono analizzati a tal fine i 19 patti più avanzati della nostra regione sugli ormai 35 patti territoriali campani che attualmente vanno a ricoprire quasi per intero la superficie della nostra regione. Questo screening sulla strutturazione dei programmi dei patti territoriali rileva che la pianificazione strategica è alla base di molti patti e i programmi d’azione di alcuni di essi sono veri e propri programmi strategici che possono essere rappresentati in carte di azioni strategiche.

Prima di entrare nel merito dei patti campani, si tratteggerà rapidamente le premesse teoriche su cui si basa la politica della concertazione locale. Poi saranno presentati gli attori e le azioni che hanno agito nei procedimenti di formazione dei patti e si discuterà della presenza della pianificazione strategica anche mettendo in relazione il procedimento amministrativo previsto prima dal Cnel e poi modificato e semplificato dal Cipe. Infine saranno presentati i prodotti della pianificazione strategica in una visione regionale e come contributo alla pianificazione regionale dello sviluppo.

 

Le premesse teoriche

 

La politica dei patti territoriali si basa su uno sfondo costruito dal pensiero economico e sociale. Anzi una caratteristica precipua di questo sfondo é proprio costituito dall'incontro dei due settori. Le implicazioni economiche delle relazioni sociali sono state evidenziate e sottolineate come il nocciolo di intrecci anche più complessi che dimostravano la necessità di un approccio integrato allo sviluppo, il superamento, in altri termini, delle politiche settoriali. La spiegazione di impreviste performance regionali nel nord-est e nel centro dell'Italia (Becattini 1998) sono diventate teoria normativa delle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno riproponendo l'attenzione verso le risorse locali e il tessuto di piccole e medie imprese da promuovere attraverso processi di animazione e protagonismo degli attori principali dello sviluppo. 

Il successo di questo tessuto produttivo apparentemente fragile non si spiega puramente su base locale. Nella condizione di competizione odierna dei mercati, con bassi ostacoli alla mobilità delle merci e dei capitali, posizioni di vantaggio non possono consolidarsi in ambiti locali protetti (che non esistono più). Queste imprese hanno guadagnato per i loro prodotti una nicchia di vantaggio competitivo sui mercati internazionali grazie al marchio made in Italy. E' abbastanza significativo, in un mercato sempre maggiormente rivolto alla qualità, come l'appartenenza ad un territorio e ad una cultura funzioni da operazione di marketing in sostituzione delle normali operazioni pubblicitarie delle grandi compagnie multinazionali. La riconoscibilità del prodotto come italiano fa fare massa anche ad una dispersione di marchi e li rende competitivi rispetto a potenze economiche incommensurabili. Ne segue che la conservazione della nicchia di vantaggio competitivo dipende dalla capacità di mantenere quelle qualità che consentono l'identificazione con le aspettative della provenienza italiana e di orientare nuove imprese verso il medesimo obiettivo.

Questa qualità consente di trattare con maggiore confidenza quello che fino a qualche decennio fa era ritenuto uno dei maggiori handicap del nostro sistema produttivo: la polverizzazione delle aziende. La prevalenza di piccole e medie imprese e la difficoltà di affermazione delle grandi compagnie autoctone, se non realizzate dallo Stato, era considerato un segno dell'arretratezza della nazione e del Mezzogiorno in particolare, in un momento in cui la produzione di massa di tipo fordista era dipendente dalle economie di scala. Oggi la crisi dell'industria di stato ha ulteriormente assottigliato la presenza, specie nel Mezzogiorno, della grande industria (di base) che fortunatamente non aveva del tutto distrutto (Del Monte 1997) le piccole aziende locali di prodotti tradizionali. Queste, oggi, liberate dalla concorrenza, specialmente sul mercato del lavoro, della grande impresa stanno acquisendo spazi maggiori di azione per promuovere i loro prodotti che trovano un mercato più sensibile con l'attenzione post-fordista alla qualità e alla diversità. Ciò che per decenni è stato riguardato come un dispregiato segno di arretratezza, sta diventato il punto di forza di settori che affondano le loro radici nell'artigianato storico e cercano di evolversi attraverso nuove forme di organizzazione e iniziativa. Il cosiddetto capitalismo cellulare quando si rende conto dell'esistenza di una reale domanda a cui può rispondere con il suo particolarissimo know-how, si organizza per trarne il profitto che può, come racconta la storia di successo del Tarì di Marcianise che si avvia a diventare uno dei maggiori gruppi orafi italiani attraverso l'associazione di piccole aziende napoletane.

La dispersione produttiva riesce ad essere vitale e competitiva oggi nelle forme associate. Le diverse forme di collaborazione tra le imprese, vuoi nel costituire una filiera produttiva, che nel condividere ogni altro fattore della produzione fino a utilizzare il capitale sociale disponibile in una comunità coesa e collaborativa é stato concettualizzato nel distretto industriale (Bagnasco 1988). Qui l'integrazione necessaria nelle politiche di sviluppo tocca, oltre che gli aspetti culturali già citati, quelli sociali e politici. La forte segmentazione della divisione del lavoro ed il rispetto per l'autonomia delle singole unità produttive per ottenere risultati significativi deve utilizzare intensivamente un tessuto fitto di relazioni e mettere in sinergia tutte le componenti diverse disponibili e necessarie. Più vasta e fitta diventa questa rete di competenze e capacità, tanto più il sistema produttivo è in grado di fronteggiare le sfide del mercato assorbendone la domanda fluttuante con le flessibilità della rete, disponendosi rapidamente all'innovazione con la sua plasticità, ecc.

Per disporre di capitale sociale, il distretto industriale si deve collocare all'interno di una comunità. Le relazioni di stima, fiducia e collaborazione non si esauriscono nel campo puramente lavorativo, ma suppongono la rispondenza ad un’etica condivisa, strumenti di sanzione sociali e di premio come rispettivamente la stigmatizzazione e l'ammirazione, la vigilanza ed il controllo dei comportamenti (Bagnasco 1999). Questi dispositivi sociali, sebbene indicati come essenziali fattori determinanti il successo dei distretti, non sono stati creati a quello scopo né in quei tempi. Risalgono spesso ad antiche vicende della formazione sociale con radici nella forma della famiglia e del suo rapporto con le attività economiche (Bagnasco 1988) oppure alla storia delle tradizioni civiche (Putnam 1993). Qualunque delle due tesi si voglia abbracciare - quella di Putnam e di Bagnasco sono state messe in contrasto tra di loro - ci troviamo comunque di fronte a tempi lunghi. Quando la società civile emerge come fattore di sviluppo, ci fa presente che i suoi cambiamenti procedono con velocità deludenti per i tempi entro i quali i programmi si aspettano risultati valutabili.

Putnam ha evidenziato che la società civile si forma nelle pratiche politiche, che essa è cioè forgiata da quella politica. Anche questa viene descritta estremamente frammentata (De Rita 1998) nella metafora della poliarchia. La frammentazione in una molteplicità di partiti è solo una delle sue manifestazioni. Esiste anche una frammentazione del potere per livelli di governo ed un sentimento forte di autonomia locale, anche superiore a quanto prevedono quegli ordinamenti che hanno cercato, in conformità con il modello napoleonico, di ricondurla nell'uniformità della nazione (Vandelli 1990). Allo stesso tempo va ricordato che le decisioni che interessano una comunità non vengono prese esclusivamente nelle istituzioni di governo. Esistono molte altre organizzazioni che concorrono al processo decisionale per la capacità di rappresentare interessi organizzati. Sindacati e organizzazioni datoriali sono i più importanti nel mondo della manifattura, ma associazioni civiche e culturali sono altrettanto significative per politiche di sviluppo, per non parlare delle istituzioni dell'istruzione e della ricerca, del volontariato e del terzo settore.

L'insieme di queste impostazioni viene legato e convalidato con la decisa svolta della teoria dello sviluppo (in campo economico) verso il locale. L'attenzione è spostata sulle risorse e sugli ostacoli localmente presenti e la dimensione geografica dei problemi economici irrompe sulla scena, dopo essere stata, per tanto tempo, del tutto ignorata. Gli studi territoriali, la raccolta di informazione e la costruzione di quadri conoscitivi delle caratteristiche, delle vocazioni, delle risorse del territorio vengono così investiti di nuova responsabilità. Nell'approccio integrato allo sviluppo, perdono senso gli studi settoriali. È più consono ad essi un indirizzo analitico che studi il territorio come milieu, un complesso di risorse aggregate in una comunità locale - materiali, umane e immateriali; sociali, culturali e politiche.

 

 

Gli attori 

 

Nella società politica meridionale, avvezza ad una stagione recente di politica dello sviluppo basato sull'intervento assistenziale e sull'uso dei finanziamenti dell'intervento straordinario come sostegno politico elettorale ai partiti di governo, senza nessun progetto e nessuna verifica dei risultati economici degli investimenti (quando i finanziamenti si indirizzavano a ciò) e senza nessuna argomentazione sulla congruenza degli obiettivi di sviluppo con la realtà ed i progetti delle comunità locali, la svolta determinata dall'elezione diretta del sindaco è stata una speranza a cui agganciare il cambiamento della politica di sviluppo. Nella società meridionale viviamo il paradosso che la società politica ed il personale politico è tra i pochi che si dedica e possiede, quindi, le abilità per realizzare aggregazione, organizzare e suscitare azione collettiva (essendo la società ripiegata nel particolarismo familiare, clientelare, corporativo) ma allo stesso tempo è quello a cui si può imputare di aver coltivato arretratezze della segmentazione sociale come strumento di lotta politica.

 

Tabella 1

 

Quando la figura del sindaco si è elevata dalla litigiosità partitica a simbolo degli interessi collettivi, avendo alla spalle l'affacciarsi di nuove figure, provenienti dalla società civile, alla vita amministrativa, allora la capacità organizzativa - questa volta addirittura istituzionalizzata - aveva l'occasione di legarsi ad un obiettivo di sviluppo aggregante la società locale oltre i particolarismi e le divisioni. Il sindaco, personaggio innovativo (oltre che per un metodo di elezione al di sopra delle parti - per l'impegno di nuovi soggetti sociali), prometteva la potenzialità di una svolta con la cura di interessi strategici della società locale. La maggiore responsabilità contratta nei confronti degli elettori sarebbe stata verificata con il giudizio del voto al momento della ricandidatura.

Oltre la figura simbolica del sindaco, nei patti territoriali si cimenta una nuova classe dirigente, anche sul versante politico. Lo spazio per la pianificazione strategica dipende dalla sua cultura politica nel modo di affrontare l'azione collettiva su basi cooperative. Sebbene alcuni patti campani, come quello di Benevento o di Caserta sono partiti grazie all'iniziativa degli imprenditori, certamente la maggior parte di essi si è coagulato intorno ad un iniziatore politico. A questi si deve prima di tutto la selezione dei soggetti invitati al tavolo di concertazione e la costruzione delle alleanze.

Se i sindaci restano alquanto sullo sfondo come promotori dei piani strategici, gli attori fondamentali sono le associazioni. Seguendo anche i suggerimenti del Cnel, associazioni degli imprenditori e sindacati devono contrattare reciprocamente impegni in rapporto al mercato del lavoro. Gli imprenditori sono presenti con le imprese di dimensioni minori, mentre le grandi imprese non mostrano interesse per i patti. Inoltre, mentre le prime hanno il management in zona, le seconde no, e considerano comunque la dimensione geografica trattata come sottodimensionata alle loro operazioni ed ai loro programmi.

La presenza delle organizzazioni nel processo sconta i limiti della rappresentanza, sebbene i correttivi sono in opera quando gli imprenditori e gli altri attori dello sviluppo sono interrogati direttamente nel corso della procedura di formazione del piano strategico. La rappresentanza delle categorie matura delle politiche in suoi processi interni di interazione complessi che fanno parte integrante della vita delle associazioni con momenti diversi che vanno dagli studi condotti da esperti ai sondaggi di opinioni degli associati o dei dirigenti, al contatto continuo con gli associati nel trattamento dei loro problemi. Queste politiche però hanno bisogno di processi di generalizzazione per diventare unificanti ed estese su vasti ambiti geografici. Per giunta, sono proprio le linee nazionali e più generali che assumono maggiore visibilità e prestigio nell'organizzazione, sposandosi con le tesi della maggioranza nazionale, e rimanendo associate ai leaders più prestigiosi. Questa prevalenza del generale sul particolare conforma il comportamento della maggioranza, che quando diviene molto convenzionale per degli irrigidimenti della vita dell'associazione, privilegia le convenzioni accreditate alle pratiche più vicine. In base a tali processi si possono verificare gli scostamenti tra rappresentanze ed associati che possono deformare la partecipazione degli attori reali al processo di pianificazione. A questa avvertenza bisognerebbe pensare quando le proposte delle categorie appaiono appropriate ma alquanto avveniristiche. Perfetti centri di servizi per l'agricoltura in cui sono presenti effettivamente quei supporti alle imprese che sarebbero decisivi non si realizzano perché esiste solo una teoria (giusta) della loro necessità, ma mancano gli attori locali capaci di prender l'iniziativa, creare il consorzio necessario di operatori locali che di quei servizi sentono l'esigenza e sono disposti a pagare per essi, organizzare il centro e lavorarci dentro concretamente. Tra una perfetta teoria e la pratica operativa ci può essere una certa distanza e questa nuoce alla definizione degli obiettivi strategici.

Un rapporto biunivoco si instaura tra attori e obiettivi e, in fondo, selezionare gli uni vale quanto selezionare gli altri. In questo senso l'iniziatore del processo guida un poco le fila del gioco chiamando o escludendo dal tavolo. I termini con cui queste selezioni sono state fatte però non credo che vanno ascritti a coscienti manovre per predeterminare i risultati desiderati. La filosofia inclusiva del patto da un lato predeterminava delle presenze istituzionali e prescriveva degli attori indispensabili come gli imprenditori e le banche e dall'altro rendeva subito eticamente sospetto chiunque tentasse di predeterminare delle strategie di alleanze selezionate sia di aree geografiche che di settori di intervento. L'una sarebbe stata subito bollata come ritorno al campanilismo (il patto era percepito come un superamento del campanilismo) e l'altro come il privilegio di interessi privati (il patto era percepito come sviluppo degli interessi collettivi). Ciò nonostante il fatto che i patti si caratterizzino in maniera molto differente non dipende solo dalle vocazioni del territorio, ma anche dell'associazione di attori localmente forti con una certa idea dello sviluppo. Questa associazione determina il carattere nettamente industriale del patto di Caserta come quello turistico dei Campi Flegrei. Questa associazione pone la domanda di quanto il governo locale sia stato in grado di elaborare proprie idee dello sviluppo indipendenti da tali presenze o equilibri di forze, ovvero quanto sia stato in grado di modificare l'equilibrio delle forze produttive localmente presente sulla base di una propria idea di sviluppo preferibile.

L'ambiguità del ruolo degli imprenditori è alimentata dalla loro doppia presenza in quanto soggetti dell'azione e beneficiari. Il livello di attenzione nei loro confronti e le selezioni che avvengono nel loro campo dipendono dagli orientamenti dei partecipanti al tavolo di concertazione i cui membri appartengono prevalentemente alle due categorie precedenti. Nella procedura la loro partecipazione è regolata, piuttosto che con interazione diretta, attraverso sistemi di consultazione e con bandi. Questo distanziamento, in certi casi, può suscitare l'esigenza della mediazione e fare da terreno per pratiche clientelari sebbene queste vengano limitate ad aspetti marginali (come l'informazione, ad esempio) da altre misure della procedura come la rappresentanza al tavolo delle categorie, la valutazione indipendente dei business plans e dell'oggettività dei criteri di valutazione. In un modello interattivo il loro maggiore apporto potrebbe essere, nella costruzione del piano strategico, in termini cognitivi. La conoscenza dei problemi sostantivi del diretto operatore in un determinato settore produttivo va oltre le conoscenze del rappresentante dell'organizzazione di categoria. Queste vengono messe in campo per la progettazione del piano della singola impresa concorrente al finanziamento e possono essere coordinate da terzi in un piano generale, ma l'assenza di interazione tra i soggetti proponenti non consente di attuare quella fase di reciproco aggiustamento con cui i piani delle singole aziende possono essere modificate l'una in funzione dell'altra per rendersi complementari e sinergiche. Tra la prima fase in cui presentano le idee progetto e quella in cui viene emanato il bando con l'indicazione degli obiettivi strategici ed i requisiti a cui debbono rispondere i progetti aziendali viene a mancare un loro apporto diretto. Una procedura di consultazione interattiva non sarebbe semplice con la media del numero di idee progetto presentate nei patti campani (spesso di varie centinaia), ma altre esperienze di pianificazione strategica ci indicano metodi per organizzare vaste consultazioni attraverso il lavoro di gruppi tematici (focus groups) coordinati poi tra loro in modo intersettoriale. Ciò richiederebbe una preventiva strutturazione dei beneficiari secondo obiettivi e non solo prossimità geografica, per pianificare indipendentemente dall’assegnazione del sostegno governativo La procedura concorsuale per l'assegnazione dei finanziamenti è giuridicamente inevitabile per assicurare criteri di equità e correttezza, ma andrebbe anche considerata come attività premiale o strumentale al piano elaborato.

Il coinvolgimento delle banche nei patti appartiene ad un progetto di riforma del credito meridionale che si è tradizionalmente limitato alla raccolta dei risparmi. Uno sviluppo dell'impresa locale ha invece bisogno di banche d'affari capaci di sostenere finanziariamente le iniziative e, senza voler aspirare a disporre di un vero e proprio capitale di rischio, formare almeno le professionalità capaci di praticare bilanci e piani aziendali. In questa prospettiva alle banche viene affidato un ruolo di grande responsabilità nella valutazione dei progetti. I criteri di fattibilità finanziaria e di mercato imposti dal Ministero del tesoro, e accertati dall'istruttoria bancaria, finiscono per essere determinanti nella selezione. Di fatto l'istruttoria è una cartina al tornasole che chiarisce l'inconsistenza di molte idee progetto avanzate da volenterosi poco esperti o capaci, da semplici procacciatori di fondi pubblici, da organizzazioni in crisi e senza reali prospettive. Se non il suo rigore, almeno un’analoga capacità di discernimento andrebbe anticipata al momento della definizione delle idee strategiche.

L'apprendimento di queste pratiche sta realizzando apposite competenze e organizzazione nelle banche a partire dai procedimenti amministrativi dettate dal Parlamento e dai Ministeri. I tempi di apprendimento, uniti all'imprevedibile sviluppo del numero di patti in Campania, si paga con la lungaggine dell'istruttoria.

 

 

Le azioni

 

Nel momento che i patti sono affidati all'iniziativa locale, non esiste modo di controllare la loro proliferazione nella regione né di garantire che essi nascano in aree strategiche. Anche questa è un’anomalia delle politiche di sviluppo: l'assenza di un'area bersaglio e di una qualsiasi guida dall'alto. Il Cnel ha puntato ad un rapporto diretto con i patti di fatto accantonando ogni possibile ruolo degli organi di governo territoriali. Dal loro canto tanto le province che le regioni non si sono impegnate efficacemente neppure in un ruolo di coordinamento a posteriori. Alla fine sono stati gli stessi patti a costruire una loro organizzazione di coordinamento ma indirizzata principalmente allo scambio di informazioni ed alla diffusione di buone pratiche.

Non esistono quantità demografiche, numeri di comuni, estensioni territoriali o omogeneità del tipo di occupazione che possono essere prese come criteri fissi di delimitazione dell’area del patto. Esistono territori la cui identità sovracomunale è già stata codificata per alcuni caratteri geografici o economici che si sono imposti nella letteratura e nella pratica di pianificazione come i Campi Flegrei, l'area del Miglio d'Oro, il Sele-Tanagro. Come si vede si tratta di aggregazioni intorno a temi molto diversi. Talvolta sono ambiti geografici come le vallate fluviali che sono luogo privilegiato dell'insediamento umano nelle aree montane interne, altre volte ambienti umani storici con un patrimonio culturale di valore che è stato riconosciuto come preminente risorsa territoriale, altre volte, come nell'area vulcanica puteolana, fattori culturali e naturali si intrecciano in una entità del tutto singolare e coesa.

 

Tabella 2

 

Nei casi in cui non poteva confrontarsi con identità territoriali forti, è più difficile trovare ragioni esterne alla contingenza della sua formazione specifica. Tra i motivi che hanno agito c'è l'idea di azione all'origine del patto. In certi casi, come per il patto di Caserta, l'area diventa la semplice proiezione territoriale del tipo di intervento che si vuole attuare, interessando comuni sparsi per la provincia e separati tra di loro; in altri casi, dove l'iniziativa è dell'ente locale, le aggregazioni risentono maggiormente di omogeneità politiche che economiche. L'aggregazione è condizionata dall'adesione spontanea e dall'autodeterminazione dei comuni per cui il risultato di una delimitazione talvolta non coincide con il disegno del promotore e patti territorialmente molto ambiziosi, come quello del Cilento, sono comunque costretti a trovare criteri di selezione ed aggregazioni per costruire organizzazioni e programmi concretamente gestibili con le presumibili risorse a disposizione rispetto all'estensione dell'area geografica omogenea.

L'area del patto pone il tema della corrispondenza tra azione e territorio, il quale si interseca, a sua volta, con le delimitazioni amministrative le quali detengono i poteri di pianificazione. Ciò comporta che l'azione non è riducibile ad un processo amministrativo interno ad un ente territoriale che esplica le sue funzioni ma assume il carattere di una pianificazione indicativa elaborata comunque all'esterno di essi e che di essi ha bisogno per trovare la propria cogenza. Questa indipendenza è tanto più preziosa quanto più il patto costruisce la propria identità di agenzia di sviluppo e sa godere della flessibilità, agilità e legame con gli attori dello sviluppo locale. Questi gradi di indipendenza possono essere utilizzati per costruire piani strategici di qualità - seppure eventualmente parziali - che possono essere sottoposti allo scrutinio degli enti pubblici interessati.

La mancanza di chiarezza di questi rapporti ha generato nelle prime esperienze pattizie alcuni inconvenienti che bisognerebbe in futuro evitare. Una sorta di idea di un piano del patto come piano territoriale o variante a piani territoriali esistenti ha anche forzato i progetti in termini di modifiche urbanistiche piuttosto che di progetti di sviluppo compatibile. Il conflitto tra sviluppo e regolamentazione o sviluppo e protezione dell'ambiente esiste oggettivamente e non possiamo negarlo, ma la promessa crescita di occupazione e benessere viene anche utilizzata per forzare la protezione di risorse non rinnovabili o interessi collettivi irrinunciabili ed il patto è sembrato lo strumento adatto a compiere quest'aggiramento regolamentare in territori forse anche ingessati da un disperato estremismo protezionistico.

Mantenere una verifica delle proposte di sviluppo negli organismi eletti garantisce la protezione del pubblico interesse. Quest'obbligo, stante le attuali procedure di approvazione delle varianti urbanistiche, impone tempi troppo lunghi incompatibili con i piani strategici. La soluzione adottata dai patti di scartare ogni progetto difforme dalla vigente normativa è troppo limitativo perché la difformità regolamentare è, a volte, solo dovuta a incapacità di previsioni e a cambiamenti di obiettivi, non a esigenza di protezione dell'ambiente e dei beni pubblici. Dai piani strategici può venire questa spinta di aggiornamento degli strumenti urbanistici e nuove proposte dell'uso del suolo più aggiornate rispetto non solo alle esigenze produttive specifiche, ma anche ad una nuova visione dell'assetto della comunità. Per questo motivo l'azione del patto dovrebbe trovare rapida traduzione in modifiche ai diritti nell'uso del suolo.

Per inquadrare l’attività di pianificazione dei patti dobbiamo tener presente di trovarci di fonte un’importante novità, essendo abituati alla attribuzione esclusiva delle funzioni urbanistiche agli enti territoriali dello Stato. Coi patti - come con le successive società di sviluppo urbano - abbiamo invece delle organizzazioni pubblico-private, talvolta portatrici di interessi particolari, quand’anche legittimi e giusti, che si appropriano di quella funzione e che, pertanto, necessitano dello scrutinio degli organi rappresentativi.

Il più noto inconveniente nella individuazione dell'idea strategica è la difficoltà a scegliere ai tavoli di concertazione, con il risultato che si perviene ad elenchi di obiettivi troppo numerosi e troppo incoerenti per i quali si disperdono risorse polverizzate, rese, in questo modo, inefficaci. L'anomalia del tavolo di concertazione consiste nel fatto che non si riunisce per la soluzione di un problema comune - il che sarebbe naturalmente il modo alternativo corretto di impostare il lavoro - del tipo: come superare la crisi occupazionale? L'aggregazione è di tanti interessi, eventualmente anche confliggenti, accorsi per appropriarsi di finanziamenti.

Anche la filosofia dello sviluppo integrato favorisce la dispersione delle risorse. I vari settori produttivi si influenzano tra di loro, il progresso manifatturiero può avvenire contando sull'innovazione agricola e richiedendo un elevamento della qualità dell'insediamento urbano, della fornitura di servizi, dello sviluppo delle attività culturali. L'integrazione si può interpretare come la scelta di far marciare tutte le cose assieme mentre la strategia richiede un ordinamento gerarchico degli obiettivi attraverso l'attribuzione di valore in funzione del raggiungimento dello scopo. Strategia e integrazione sono allora antagoniste? Una selezione di obiettivi strategici può essere fatta in un quadro di sviluppo integrato se la scelta delle priorità terrà conto di questo quadro più ampio.

Dato il contesto in cui si formano le strategie del patto, il modello decisionale seguito non è tanto la sequenza razionale delle fasi presentata dal primo Bryson (1989), quanto il processo politico di costruzione delle alleanze, formazione di coalizioni e perseguimento degli obiettivi del secondo (1992). Il tavolo di concertazione, infatti, corrisponde ad una arena pubblica in cui si presentano ed interagiscono i vari soggetti alla ricerca di far prevalere gli obiettivi di proprio interesse per guadagnare le poste in gioco. Le condizioni per cui si possa passare da questo modello a quello di pianificazione collaborativa (Innes 1999) sono piuttosto rare. Si richiede un maggior impegno delle competenze tecniche, una visione dei giochi a somma positiva (invece che la semplice distribuzione di risorse date), tempi più lunghi ed un maggiore impegno cognitivo. 

 

 

Il processo di pianificazione

 

Le fasi del procedimento amministrativo codificate nella procedura Cipe influenzano le fasi del processo di pianificazione.

 

Concertazione

Il lavoro di concertazione si svolge spesso con il supporto tecnico di esperti dell'economia dell'area interessata al patto o con documenti di politiche delle categorie produttive e anche con descrizioni delle risorse del territorio e dell'uso del suolo. Nell'apparato conoscitivo di base è molto diffuso l'uso della Swot Analysis. Applicata in un primo tempo dagli economisti, ha trovato traduzioni anche nel settore urbanistico. Alle tradizionali carte dei vincoli tendono a sostituirsi quelle dei problemi e delle opportunità. Il cambiamento incomincia ad essere significativo anche per un approccio più integrato al territorio. L'urbanistica esce dalla nicchia di scienza del costruire e si amplia alla valorizzazione delle risorse. Un bosco è un vincolo all'edificazione ma anche una risorsa da preservare e utilizzare per varie attività.

Questi supporti alle decisioni sono elaborati settorialmente, oppure si trovano in un unico documento d'insieme. La distanza fino alla strategia del patto nel primo come nel secondo caso cambia alquanto ma non implica una maggiore o minore selezione delle idee strategiche né una maggiore o minore partecipazione degli attori. In ogni caso esiste sempre l'impegno ad uno studio abbastanza esteso e comprensivo in modo da tenere in considerazione tutte le componenti sociali presenti. Infatti questi sfondi costruiti all'inizio sono sempre più vasti dell'azione che il patto é poi in grado realmente di perseguire.

La verifica e selezione avviene con la prima raccolta di idee progetto. Al bando rispondono solo una parte dei potenziali attori dello sviluppo locale selezionati dai livelli di informazione e di fiducia. Il confronto tra indirizzi centrali e indicazioni periferiche dovrebbe risultare abbastanza efficace per individuare gli obiettivi, fatto salva la difficoltà a dominare tutte le indicazioni provenienti dalle idee progetto talvolta tanto numerose quanto generiche e superficiali. Contare, catalogare e sintetizzare tutti i contributi che vengono alla costruzione dell'idea strategica non è facile specialmente con pochi mezzi, tempi e personale a disposizione. L'ideale sarebbe riverificare le carte dei problemi e delle opportunità con queste nuove conoscenze.

L'elaborazione di un piano strategico, sebbene impegnativo, è perseguito in realtà piuttosto come uno sfondo di riferimento su cui si muovono con maggiore concretezza i progetti e le loro relazioni senza essere mai fissato una volta per tutte. Forse per questo motivo non si dà un peso eccessivo alla accurata selezione di pochi obiettivi qualificanti e alla definizione di una vera e dettagliata strategia, con precisi programmi di azione. Una scorciatoia che si presenta sempre per le situazioni difficili è risolverli con un certo ricorso al convenzionalismo. Teorie affermate e convinzioni diffuse di politiche di sviluppo sono sempre una guida e nelle situazioni complesse ordinano rapidamente le evidenze. In particolare nei patti comunitari lo schema delle misure e delle azioni tipiche di molti programmi europei finisce per imporsi in modo uniforme ed amministrare la strategia nel segno dell'integrazione e del partenariato.

Infatti quello che è decisivo è di mantenere viva l'idea strategica nella valutazione dei progetti imprenditoriali, impedendo che si riduca alla semplice fattibilità. In questo caso, il processo di pianificazione strategica avrebbe comunque avuto il merito di suscitare interesse e partecipazione degli attori dello sviluppo locale, ma abdicato al compito di indirizzare le azioni dei singoli verso uno scopo comune. Questa duplice impostazione è presente nello sviluppo dei patti. In fondo, ma anche esplicitamente, c'é chi ritiene la pianificazione strategica, come qualsiasi altra pianificazione, sia solo un impaccio al libero sviluppo delle forze economiche che debbono essere suscitate nelle loro capacità imprenditoriali dal sostegno delle risorse finanziarie, dall'accompagnamento nella progettazione del business plan, dallo snellimento delle pratiche amministrative, nell'ottenimento rapido di permessi e concessioni, dall'accordo con i sindacati per vantaggiose modifiche del mercato del lavoro e poi basta. 

 

Progettazione

Il modo per orientare la progettazione non è solamente il bando. La diffusione dell'informazione formale ed informale è altrettanto importante. Gli sportelli sono stati organizzati anche come veri e propri uffici di consulenza sia per la progettazione economica che edilizia, ma ricevono solo quelli che sono stati attivati attraverso altri canali informativi che si dipartono dai partecipanti al tavolo di concertazione. Oltre all'esigenza di organizzare una vera e propria attività di informazione che giunga ai potenziali interessati nel modo più corretto ed esauriente possibile, c'è anche da considerare quanto del piano strategico venga veicolata attraverso di essa. E questo dipende in gran parte da quanto il tavolo di concertazione è stato coinvolto nel processo di pianificazione strategica.

 

Valutazione

Come già accennato, l'idea strategica può diventare criterio di valutazione dei progetti. Sebbene questo sia un requisito richiesto dalla procedura, sono necessarie alcune condizioni perché si realizzi nella pratica, come che l'idea sia stata elaborata in modo chiaro e tradotta in criteri di valutazione applicabili. Poi, vari criteri di valutazione sono in competizione tra di loro. Esiste una prassi consolidata nell'esame delle pratiche per la legge 488/1992 di una procedura e criteri di valutazione che è stata estesa anche all'esame dei progetti dei patti. I patti europei, volendo privilegiare l'occupazione, allora hanno particolare attenzione per i progetti produttivi (o anche di servizi sociali) che creano di nuovi posti di lavoro. Quando, in applicazione di criteri di fattibilità economico-finanziaria, solo pochi progetti restano veramente credibili, allora la corrispondenza all'idea strategica non opera come significativo elemento decisionale.

Per la fase del finanziamento le decisioni sono spostate al ministero ed alle sue procedure di erogazione dei fondi che dipendono da aspetti politici ed amministrativi di fondo e non dalle decisioni locali o dai loro progetti. Della fase dell'implementazione, poi, possiamo, al momento, dire poco perché ben pochi sono i patti campani che la hanno attraversata. Questa sarà la decisiva verifica di tutti i nostri discorsi.

 

 

L’innovazione del procedimento amministrativo dei patti

 

La procedura di approvazione dei patti territoriali ha subito una sostanziale modifica nel passaggio dalle prime delibere Cipe del 1995 a quella del 1997.

Un grosso passo in avanti nell’innovazione della procedura era avvenuto già con la legge 662/1996, che oltre alla possibilità di attivazione in via amministrativa di nuove tipologie negoziali, prevedeva l’estensione degli strumenti negoziali a tutto il territorio nazionale. Questa rappresenta una radicale innovazione dello strumento del patto concepito nel 1995 come strumento per la programmazione dello sviluppo dell’economia della società meridionale. Tuttavia anche se gli strumenti negoziali vengono estesi all’intero territorio nazionale le risorse del Cipe restano comunque riservate alle sole aree depresse, intendendo come tali quelle ammissibili agli interventi dei fondi strutturali, obiettivi 1, 2 e 5b, nonché quelle rientranti nelle fattispecie dell’art. 92, paragrafo 3 lettera c del trattato di Roma.

L’innovazione maggiore che viene imposto allo strumento del patto territoriale è rappresentato dalla perdita di ruolo del Cnel nel passaggio di procedura.

Il Cnel con le delibere del 1995, la cosiddetta vecchia procedura, è un soggetto di primo piano il cui ruolo è di accompagnamento al patto, in quanto ente a cui viene trasmessa l’elaborazione dell’idea progettuale di patto e a cui spetta la verifica di massima del patto stesso, nonché la trasmissione del progetto di patto definitivo, che porterà alla sottoscrizione del protocollo d’intesa - il primo documento istituzionale del patto stesso in cui si sottoscrivono i precisi obblighi delle parti - e alla trasmissione al Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e alle verifiche da parte degli uffici ministeriali. 

Da questo punto in qua la procedura di approvazione del patto si esternalizza prevedendo l’approvazione del patto da parte del Cipe, la sua sottoscrizione e presentazione al Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e l’istruttoria da parte degli uffici ministeriali. La procedura di approvazione può infatti dirsi conclusa mancando solo l’emissione dei decreti di concessione delle agevolazioni alle singole imprese da parte dei competenti uffici ministeriali e la sottoscrizione di eventuali protocolli aggiuntivi.

Nella delibera Cipe del 1997, dopo la fase di attivazione e sottoscrizione di un protocollo d’intesa fra le parti sociali, la trasmissione del patto viene fatta direttamente al Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica senza l’intermediazione e l’accompagnamento del Cnel. La procedura di approvazione di un patto territoriale se da una parte si semplifica, in quanto le fasi di approvazione di un patto passano da dieci a nove, diventa però interamente esterna al processo. Il Ministero, infatti, accerta la sussistenza dei requisiti, acquisisce il parere della regione, se non compresa tra i soggetti sottoscrittori del patto, ed approva in maniera definitiva il patto territoriale. Seguono quindi le fasi dell’istruttoria, dell’approvazione con decreto ministeriale, della sottoscrizione/stipula del patto, della trasmissione alla cassa depositi e prestiti e la successiva erogazione da parte della cassa stessa ed, infine, l’eventuale sottoscrizione di protocolli aggiuntivi.

Nel passaggio da una procedura all’altra si palesa, quindi, un vero e proprio scontro tra due politiche di sviluppo, quella di cui è portatrice il Cnel e quella del Cipe. I patti territoriali, allo stato attuale, tentano di districarsi tra queste due culture diverse ma in molti punti convergenti. 

Non è un caso che è il Cnel ad aver inventato i patti territoriali come strumento fondamentale di concertazione degli impegni dei protagonisti locali, come schema di riferimento del partenariato sociale, come nuovo e solido modo di fare sviluppo locale (De Rita 1998) e ad aver innescato la politica di sviluppo dei patti.

La politica di sviluppo del Cipe, che prevale con la delibera del 1997, ha una logica più istituzionalizzata e va a valutare un progetto sullo schema degli incentivi previsti dalla legge 488/1992 per la quale un progetto prevede un bussines plan che ne garantisca la convenienza a implementare il progetto stesso. Si percepisce, quindi, uno smarrimento dell’idea originaria di patto territoriale e dell’azione di sviluppo che un patto dovrebbe promuovere, compromettendo in tal modo l’apporto più concreto dello strumento negoziale del patto alla cultura dello sviluppo locale.

 

 

Per una strategia regionale

 

Si è proceduto a stilare una carta strategica regionale sulla base delle azioni strategiche dichiarate nei programmi d’azione dei patti territoriali tralasciando quelle di natura più politica e di carattere generale comuni alla maggioranza dei patti territoriali (relative alle politiche attive per il lavoro, alla formazione di nuovi profili professionali, alle misure di flessibilità dei lavoratori e al potenziamento del sistema formativo). 

I programmi strategici dei patti si presentano, nella maggioranza dei casi, come un intreccio disordinato di più politiche di sviluppo; non è un caso che molti patti puntino ad esempio su un tipo di sviluppo che sia allo stesso tempo turistico e industriale.

Si nota comunque una diversità di strutturazione dei programmi d’azione in base alla tipologia del patto (patto comunitario per l’occupazione o patto territoriale) e all’evoluzione temporale dello strumento. 

In particolar modo, riflettendo su quest’ultimo punto, si può affermare che si è assistito ad un cambiamento dei programmi d’azione essendo i patti più vecchi (patto di Caserta, Benevento, Avellino) mossi prevalentemente da una logica di programmazione economica rispetto agli ultimi (patto di Amalfi, Sorrento) in cui si cerca attraverso un articolato programma d’interventi, l’individuazione dei punti di forza e debolezza del territorio e la prefigurazione di uno scenario di sviluppo, di pervenire alla creazione di quello che si crede possa essere un ambiente favorevole allo sviluppo. Molte iniziative trasversali dei patti sono tese alla creazione di questo ambiente favorevole allo sviluppo che può essere considerata come la precondizione per un solido sviluppo economico. Una delle iniziative più di successo in tal senso è quella definita dal patto della penisola sorrentina la via delle arti e dei mestieri che prevede la creazione di botteghe artigiane che possano fungere direttamente da attrattiva turistica e indirettamente da pubblicità dei prodotti e delle lavorazioni tipiche del territorio.

 

Figura 1 - Fasi dei patti territoriali che seguono la vecchia procedura

 

Su questa ipotetica carta strategica regionale che si è cercato di delineare si sono rappresentate quelle che appaiono come le maggiori azioni strategiche previste dai programmi d’azione dei patti, suddivise, per comodità di lettura, in quattro macroaree tematiche corrispondenti a determinati settori di sviluppo: mobilità, riqualificazione urbana, sistema produttivo, turismo e ambiente. 

Procedendo con ordine, per quel che riguarda il settore di sviluppo turistico, i programmi d’azione dei patti hanno puntato essenzialmente su azioni come la valorizzazione del patrimonio culturale e di fenomeni naturali, come il termalismo o il bradisismo, che favoriscono le condizioni di un turismo di qualità che a sua volta dovrebbe innescare una situazione culturale favorevole alla valorizzazione dello stesso patrimonio.

Le principali azioni strategiche che contribuiscono a costruire un’immagine di un territorio teso allo sviluppo del turismo sono: 

- valorizzazione del patrimonio storico e dei beni culturali, presente nei patti di Avellino e Baronia, ma anche nei patti Sele-Tanagro, Miglio d’Oro, Campi Flegrei, Ischia e Magna Graecia, nei cui territori sussistono i siti di maggior interesse regionale (anfiteatro Flavio, porto romano sommerso di Pozzuoli, il parco archeologico di Cuma, il fenomeno naturale bradisismico, i templi greci di Paestum, le ville vesuviane e gli scavi archeologici di Ercolano);

- turismo termale, in particolare dell’area di Contursi - Oliveto Citra del patto Sele-Tanagro, dove sussiste una tradizione più o meno consolidata di questo tipo di turismo anche se non utilizzata a pieno; nel patto dei Campi Flegrei, che annovera sul suo territorio terme di rilievo storico come quelle romane di Agnano, le Terme Puteolane e le Stufe di Nerone; il patto dell’isola d’Ischia, i cui centri termali sono sicuramente i più famosi della regione e tra i più conosciuti d’Italia;

- sviluppo dell’agriturismo, esplicitamente dichiarato come settore di sviluppo in tre patti territorali: Magna Graecia - Sele-Tanagro e Baronia;

- utilizzo produttivo della risorsa mare, con le connesse attività balneari e turistiche, rappresenta una delle politiche di sviluppo comune a tre patti di territori costieri, Campi Flegrei, penisola sorrentina e Magna Graecia. Implica un’interazione tra balneazione, nautica, cantieristica da diporto, pesca, sport acquatici, artigianato del mare, archeologia sottomarina intrecciando turismo ed economia;

- turismo religioso, relativo alla valorizzazione dell’itinerario turistico-religioso delle Sette Madonne del patto Sele-Tanagro.

Si è notato che, rispetto ai programmi d’azione dei patti interni, quelli dei territoriali costieri sono caratterizzati per il privilegiare una strategia di sviluppo turistico anche per quei territori, come nel caso dei Campi Flegrei o del Cilento, che non hanno attualmente una forte vocazione turistica. 

 

Figura 2 - Fasi dei patti territoriali che seguono la nuova procedura

 

Nello specifico caso del territorio cilentano, il turismo può rappresentare una vera risorsa per lo sviluppo della costa del salernitano meridionale, vergine al turismo e che annovera tra i suoi punti di forza il mare più pulito della regione.

Discorso a parte merita lo sviluppo turistico di patti di territori interni come ad esempio quello del patto Sele-Tanagro per il cui territorio la scommessa turistica è effettivamente una novità. 

La politica di riqualificazione dei centri urbani rappresenta un’azione comune alla maggioranza dei patti ed in particolar modo di quei patti orientati alla valorizzazione o alla pianificazione di uno sviluppo di tipo turistico ma anche sociale in quanto il recupero, la valorizzazione e la riqualificazione dei centri storici contribuisce ad eliminare le fratture sociali che si creano nella popolazione con il degrado di interi quartieri urbani. 

Legata alla riqualificazione dei centri storici è anche il recupero e la razionalizzazione delle aree dismesse con particolare riferimento al patrimonio di archeologia industriale.

La politica di riqualificazione dei siti industriali dismessi è infatti comune a molti patti campani, dal patto dell’agro nocerino sarnese, al patto di Napoli nord-est, al patto Vesuviano e a quello Sele-Picentino.

Alcuni programmi d’azione dei patti hanno inoltre evidenziato un’attenzione particolare verso siti di archeologia industriale; il recupero dell’ex-Kerasav di Portici, ex Poligrafica di Stato, con il patto del Miglio d’Oro o degli antichi mulini e delle cartiere della costiera amalfitana.

Molti patti, come già abbiamo detto prima, sono strutturati unicamente dalla programmazione economica e pertanto mirano allo sviluppo solo del sistema produttivo. In un’ottica di questo tipo l’attenzione per il territorio, i beni culturali e i centri storici non viene manifestata.

 

PATTO TERRITORIALE DI CASERTA

PATTI TERRITORIALI COSTA DI AMALFI E MIGLIO D'ORO

 

I patti di questo tipo sono essenzialmente quelli dei territori interni e che seguono la vecchia procedura, definibili in quest’ottica come patti industriali come quelli di Caserta e Benevento, approvati con la vecchia procedura, e di Avellino approvato con la nuova procedura.

Anche patti più recenti, siglati da comuni di aree interne alla regione, propongono una logica di sviluppo tipicamente industriale come nel caso del recentissimo patto del Matese, che tra l’altro è l’unico patto interregionale campano, del patto del medio Volturno e di altri, mentre tra i patti costieri è il solo Sele-Picentino a puntare sulla valorizzazione del sistema produttivo per la presenza sul suo territorio di attività consolidate nel settore automobilistico e tessile.

Lo sviluppo industriale a cui mirano i progetti imprenditoriali dei patti non è quello della grande industria ma quello delle piccole e medie imprese, spesso a conduzione familiare, tipiche dell’esperienza del nord-est d’Italia (Bagnasco 1988) che si va sempre più affermando come un modello di riferimento.

In molti casi si può parlare di attività di artigianato avanzato che puntino sulla valorizzazione ad esempio della ceramica di Vietri e di Cava o sui coralli dell’area vesuviana o su attività autoctone come la commercializzazione degli abiti usati di Resina.

Nel manifatturiero le calzature rappresentano uno dei settori industriali che registrano il maggior numero di attività imprenditoriali all’interno dei patti: il patto di Caserta, ad esempio, è interessato da quindici progetti di calzaturifici su ventisette progetti finanziati.

Anche il settore agricolo e agroalimentare è tra quelli che i patti tendono a sviluppare maggiormente; in molti casi l’azione si struttura con la proposta di una filiera o di un vero e proprio distretto agroalimentare come nel caso della costa d’Amalfi in cui si punta sulla valorizzazione dei prodotti tipici del territorio come limoni, castagne e uva.

Si registrano, inoltre, filiere agroindustriali come quella della mozzarella di bufala nel medio Volturno e nel casertano, del vino e dell’olio nella Magna Graecia, dei vini con i patti di Avellino e del Calore. Per i patti comunitari, invece, in particolare il patto di Napoli nord-est, si punta sullo sviluppo del comparto floricolo e fruttifero, soprattutto fragole, cachi e ortive, mentre per l’agro nocerino sarnese si punta sui pomodori; infine le azioni strategiche dei patti del Matese, Benevento e Caserta, vengono definite genericamente agroalimentari.

Il potenziamento delle attività produttive è tra gli obiettivi della maggior parte dei patti territoriali e anche molti patti costieri puntano alla valorizzazione e potenziamento delle aree dei piani degli insediamenti produttivi (Pip) al loro interno per accogliere le iniziative imprenditoriali promosse con i bandi. È il caso del Cilento, con le aree Pip di Castellabate, Torchiara, Perito, Vallo della Lucania; della penisola sorrentina con le aree Pip di Sorrento e Meta; dei Campi Flegrei dove si è proceduto ad attuare una specifica politica per l’utilizzo delle aree industriali presenti sul territorio con il potenziamento delle aree industriali interne e la dismissione di quelle costiere, solidale alla promozione dello sviluppo turistico.

Molti dei patti che avevano inizialmente previsto interventi infrastrutturali hanno dovuto abbandonare queste azioni a seguito degli strettissimi tempi di utilizzo dei fondi imposti dal meccanismo dei patti stessi. 

Bisogna ricordare che il finanziamento previsto per ciascun patto territoriale è di circa 100 miliardi di lire; una quota pari a circa il trenta per cento dell’intero finanziamento viene assegnata alle opere di infrastrutturazione che alimentano la logica di un corretto sviluppo del territorio. 

I patti di Avellino e di Caserta si sono visti costretti a rinunciare alle quote da destinare all’infrastrutturazione del territorio, inficiando in parte l’azione di programmazione dello sviluppo economico.

Sulla carta strategica regionale sono stati individuati quelli che emergono come i maggiori interventi sulla mobilità dichiarati dai programmi d’azione dei vari patti.

Le azioni di potenziamento stradale previste dai patti tendono al superamento di situazioni di isolamento del territorio. È il caso del Matese, territorio montano dal difficile collegamento con il resto della regione o del medio Volturno che propone una bretella stradale di collegamento alla fondovalle Ischlero.

Altri interventi sulla mobilità del territorio rientrano nei programmi del patto del Miglio d’Oro, i cui comuni di Portici, Ercolano, San Giorgio a Cremano e Torre del Greco sono caratterizzati da un sottodimensionamento delle arterie stradali in rapporto al numero di abitanti; della costa d’Amalfi, dove invece si avverte oltre che un precario collegamento tra la costa e le zone montuose anche una forte carenza di parcheggi.

Per il territorio del patto Sele-Picentino il miglioramento dei collegamenti stradali è funzionale all’obiettivo di costituire una vera e propria cerniera di collegamento tra i due grandi percorsi turistici, la costiera amalfitana e il sistema Cilento.

Si segnala ancora il patto Vesuviano che prevede di realizzare un più facile collegamento di questa parte del territorio con i comuni contermini e con le maggiori arterie della regione prevedendo il completamento della bretella di collegamento all’autostrada Napoli-Roma, la riqualificazione degli assi Somma - Marigliano e Sant’Anastasia-Pomigliano e della ss 268 per Ottaviano ed il raddoppio della tratta Napoli-Ottaviano-Sarno.

Altra azione strategica relativa alla mobilità ed al potenziamento della ricettività dell’area, è quella dell’adeguamento degli approdi marittimi proprio del territorio dei Campi Flegrei (porto di Baia, di Acquamorta e di Pozzuoli), della costiera amalfitana (Maiori, Minori e Positano) e della Magna Graecia (Agropoli).

 

CARTA STRATEGICA DEI PATTI TERRITORIALI CAMPANI

 

Il potenziamento degli accessi via mare è inoltre previsto per la costa settentrionale della penisola sorrentina.

I programmi di sviluppo dei patti territoriali promuovono anche azioni di salvaguardia ambientale.

Le maggiori attività che si tende a valorizzare a riguardo sono l’agriturismo, le coltivazioni ecologiche di prodotti tipici, accanto ad attività di trasformazione e commercializzazione, apicoltura, campings, percorsi pedonali e ciclabili.

Molti patti individuano all’interno del proprio territorio azioni volte alla tutela delle aree verdi. Nella maggior parte dei casi si tratta di aree già vincolate da parchi - nazionali o regionali - o oasi naturalistiche; è il caso dell’area del parco nazionale del Vesuvio (patto territoriale del Miglio d’Oro e Vesuviano); dell’area del parco nazionale del Cilento (patto territoriale del Cilento e della Magna Graecia); delle aree del Montenuovo e del cratere degli Astroni (patto territoriale dei Campi Flegrei); dell’area dell’oasi di Persano e del parco dei Monti Picentini (patto territoriale del Sele-Picentino); o di aree di particolare interesse storico-ambientale come la valle delle Ferriere, la valle del Fiordo Furore, la valle del Dragone, il vallone Poto di Positano, i monti del demanio e Capo d’Orso a Maiori e il sentiero degli dei ad Agerola (patto della Costa d’Amalfi); dell’area del Laceno nell’Avellinese (patto territoriale di Avellino o delle zone collinari del patto della penisola sorrentina).

Infine, tra le azioni di carattere ambientale si segnalano anche quelle relative al potenziamento degli impianti di depurazione (patto del sistema cilento e della costiera amalfitana) e di rinaturalizzazione della linea di costa (patti del Miglio d’Oro, dell’isola d’Ischia, del Sele-Picentino e del sistema Cilento) tendenti a perseguire una maggiore fruibilità della costa con la conseguente implementazione del turismo costiero.

 

 

 

 

 

Riferimenti bibliografici

 

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Regione Campania (1999), La programmazione negoziata in Campania – Primo rapporto, Roma, Nova Officina Poligrafica Laziale.

 

Vandelli L. (1990), Poteri Locali, Bologna, il Mulino.

 

Nota degli autori

Sebbene si tratti di una ricerca realizzata in collaborazione, la stesura dei paragrafi “Il processo di pianificazione” e “L’innovazione del procedimento amministrativo dei patti” è di Emanuela Coppola, a cui si deve anche la raccolta e la rappresentazione delle idee strategiche dei patti.

 

 

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