I patti
territoriali pur non rappresentando dei veri
e propri piani urbanistici, ma degli
strumenti di programmazione economica,
invadono di continuo il campo d’azione
dell’urbanistica (vanno a localizzare
fisicamente sul territorio strutture ed
infrastrutture oltre che risorse, generano
flussi di mobilità, ecc.) e la loro
complessa struttura utilizza meccanismi come
la concertazione, la partecipazione, la
pianificazione strategica, la costruzione di
scenari, innovativi nell’ambito
dell’urbanistica e intorno ai quali si
concentrano le maggiori aspettative.
La difficoltà
più evidente di una ricerca sui patti
territoriali in Campania è rappresentata
dall’essere un’esperienza di
programmazione ancora in itinere e
pertanto difficile da valutare; manca
infatti quella giusta distanza di tempo che
permetterebbe di analizzare se tale tipo di
strumento riuscirà effettivamente a
generare un’auspicabile sviluppo del
territorio.
Piuttosto
che sui risultati, la ricerca si è
concentrata sui processi, ovvero sugli
strumenti per pianificare lo sviluppo. Piani
e programmi elaborati si considerano
prodotti (intermedi) di questa attività.
Si
sono analizzati a tal fine i 19 patti più
avanzati della nostra regione sugli ormai 35
patti territoriali campani che attualmente
vanno a ricoprire quasi per intero la
superficie della nostra regione. Questo screening
sulla strutturazione dei programmi dei patti
territoriali rileva che la pianificazione
strategica è alla base di molti patti e i
programmi d’azione di alcuni di essi sono
veri e propri programmi strategici che
possono essere rappresentati in carte di
azioni strategiche.
Prima
di entrare nel merito dei patti campani, si
tratteggerà rapidamente le premesse
teoriche su cui si basa la politica della
concertazione locale. Poi saranno presentati
gli attori e le azioni che hanno agito nei
procedimenti di formazione dei patti e si
discuterà della presenza della
pianificazione strategica anche mettendo in
relazione il procedimento amministrativo
previsto prima dal Cnel e poi modificato e
semplificato dal Cipe. Infine saranno
presentati i prodotti della pianificazione
strategica in una visione regionale e come
contributo alla pianificazione regionale
dello sviluppo.
Le premesse teoriche
La
politica dei patti territoriali si basa su
uno sfondo costruito dal pensiero economico
e sociale. Anzi una caratteristica precipua
di questo sfondo é proprio costituito
dall'incontro dei due settori. Le
implicazioni economiche delle relazioni
sociali sono state evidenziate e
sottolineate come il nocciolo di intrecci
anche più complessi che dimostravano la
necessità di un approccio integrato allo
sviluppo, il superamento, in altri termini,
delle politiche settoriali. La spiegazione
di impreviste performance regionali nel
nord-est e nel centro dell'Italia (Becattini
1998) sono diventate teoria normativa delle
politiche di sviluppo per il Mezzogiorno
riproponendo l'attenzione verso le risorse
locali e il tessuto di piccole e medie
imprese da promuovere attraverso processi di
animazione e protagonismo degli attori
principali dello sviluppo.
Il successo di questo tessuto produttivo apparentemente fragile non si
spiega puramente su base locale. Nella
condizione di competizione odierna dei
mercati, con bassi ostacoli alla mobilità
delle merci e dei capitali, posizioni di
vantaggio non possono consolidarsi in ambiti
locali protetti (che non esistono più).
Queste imprese hanno guadagnato per i loro
prodotti una nicchia di vantaggio
competitivo sui mercati internazionali
grazie al marchio made in Italy. E'
abbastanza significativo, in un mercato
sempre maggiormente rivolto alla qualità,
come l'appartenenza ad un territorio e ad
una cultura funzioni da operazione di
marketing in sostituzione delle normali
operazioni pubblicitarie delle grandi
compagnie multinazionali. La riconoscibilità
del prodotto come italiano fa fare massa
anche ad una dispersione di marchi e li
rende competitivi rispetto a potenze
economiche incommensurabili. Ne segue che la
conservazione della nicchia di vantaggio
competitivo dipende dalla capacità di
mantenere quelle qualità che consentono
l'identificazione con le aspettative della
provenienza italiana e di orientare nuove
imprese verso il medesimo obiettivo.
Questa qualità consente di trattare con maggiore confidenza quello che
fino a qualche decennio fa era ritenuto uno
dei maggiori handicap del nostro sistema
produttivo: la polverizzazione delle
aziende. La prevalenza di piccole e medie
imprese e la difficoltà di affermazione
delle grandi compagnie autoctone, se non
realizzate dallo Stato, era considerato un
segno dell'arretratezza della nazione e del
Mezzogiorno in particolare, in un momento in
cui la produzione di massa di tipo fordista
era dipendente dalle economie di scala. Oggi
la crisi dell'industria di stato ha
ulteriormente assottigliato la presenza,
specie nel Mezzogiorno, della grande
industria (di base) che fortunatamente non
aveva del tutto distrutto (Del Monte 1997)
le piccole aziende locali di prodotti
tradizionali. Queste, oggi, liberate dalla
concorrenza, specialmente sul mercato del
lavoro, della grande impresa stanno
acquisendo spazi maggiori di azione per
promuovere i loro prodotti che trovano un
mercato più sensibile con l'attenzione
post-fordista alla qualità e alla diversità.
Ciò che per decenni è stato riguardato
come un dispregiato segno di arretratezza,
sta diventato il punto di forza di settori
che affondano le loro radici
nell'artigianato storico e cercano di
evolversi attraverso nuove forme di
organizzazione e iniziativa. Il cosiddetto
capitalismo cellulare quando si rende conto
dell'esistenza di una reale domanda a cui può
rispondere con il suo particolarissimo know-how,
si organizza per trarne il profitto che può,
come racconta la storia di successo del Tarì
di Marcianise che si avvia a diventare uno
dei maggiori gruppi orafi italiani
attraverso l'associazione di piccole aziende
napoletane.
La dispersione produttiva riesce ad essere vitale e competitiva oggi
nelle forme associate. Le diverse forme di
collaborazione tra le imprese, vuoi nel
costituire una filiera produttiva, che nel
condividere ogni altro fattore della
produzione fino a utilizzare il capitale
sociale disponibile in una comunità coesa e
collaborativa é stato concettualizzato nel
distretto industriale (Bagnasco 1988). Qui
l'integrazione necessaria nelle politiche di
sviluppo tocca, oltre che gli aspetti
culturali già citati, quelli sociali e
politici. La forte segmentazione della
divisione del lavoro ed il rispetto per
l'autonomia delle singole unità produttive
per ottenere risultati significativi deve
utilizzare intensivamente un tessuto fitto
di relazioni e mettere in sinergia tutte le
componenti diverse disponibili e necessarie.
Più vasta e fitta diventa questa rete di
competenze e capacità, tanto più il
sistema produttivo è in grado di
fronteggiare le sfide del mercato
assorbendone la domanda fluttuante con le
flessibilità della rete, disponendosi
rapidamente all'innovazione con la sua
plasticità, ecc.
Per disporre di capitale sociale, il distretto industriale si deve
collocare all'interno di una comunità. Le
relazioni di stima, fiducia e collaborazione
non si esauriscono nel campo puramente
lavorativo, ma suppongono la rispondenza ad
un’etica condivisa, strumenti di sanzione
sociali e di premio come rispettivamente la
stigmatizzazione e l'ammirazione, la
vigilanza ed il controllo dei comportamenti
(Bagnasco 1999). Questi dispositivi sociali,
sebbene indicati come essenziali fattori
determinanti il successo dei distretti, non
sono stati creati a quello scopo né in quei
tempi. Risalgono spesso ad antiche vicende
della formazione sociale con radici nella
forma della famiglia e del suo rapporto con
le attività economiche (Bagnasco 1988)
oppure alla storia delle tradizioni civiche
(Putnam 1993). Qualunque delle due tesi si
voglia abbracciare - quella di Putnam e di
Bagnasco sono state messe in contrasto tra
di loro - ci troviamo comunque di fronte a
tempi lunghi. Quando la società civile
emerge come fattore di sviluppo, ci fa
presente che i suoi cambiamenti procedono
con velocità deludenti per i tempi entro i
quali i programmi si aspettano risultati
valutabili.
Putnam ha
evidenziato che la società civile si forma
nelle pratiche politiche, che essa è cioè
forgiata da quella politica. Anche questa
viene descritta estremamente frammentata (De
Rita 1998) nella metafora della poliarchia.
La frammentazione in una molteplicità di
partiti è solo una delle sue
manifestazioni. Esiste anche una
frammentazione del potere per livelli di
governo ed un sentimento forte di autonomia
locale, anche superiore a quanto prevedono
quegli ordinamenti che hanno cercato, in
conformità con il modello napoleonico, di
ricondurla nell'uniformità della nazione (Vandelli
1990). Allo stesso tempo va ricordato che le
decisioni che interessano una comunità non
vengono prese esclusivamente nelle
istituzioni di governo. Esistono molte altre
organizzazioni che concorrono al processo
decisionale per la capacità di
rappresentare interessi organizzati.
Sindacati e organizzazioni datoriali sono i
più importanti nel mondo della manifattura,
ma associazioni civiche e culturali sono
altrettanto significative per politiche di
sviluppo, per non parlare delle istituzioni
dell'istruzione e della ricerca, del
volontariato e del terzo settore.
L'insieme di queste impostazioni viene legato e convalidato con la
decisa svolta della teoria dello sviluppo
(in campo economico) verso il locale.
L'attenzione è spostata sulle risorse e
sugli ostacoli localmente presenti e la
dimensione geografica dei problemi economici
irrompe sulla scena, dopo essere stata, per
tanto tempo, del tutto ignorata. Gli studi
territoriali, la raccolta di informazione e
la costruzione di quadri conoscitivi delle
caratteristiche, delle vocazioni, delle
risorse del territorio vengono così
investiti di nuova responsabilità.
Nell'approccio integrato allo sviluppo,
perdono senso gli studi settoriali. È più
consono ad essi un indirizzo analitico che
studi il territorio come milieu, un
complesso di risorse aggregate in una
comunità locale - materiali, umane e
immateriali; sociali, culturali e politiche.
Gli attori
Nella società politica meridionale, avvezza ad una stagione recente di
politica dello sviluppo basato
sull'intervento assistenziale e sull'uso dei
finanziamenti dell'intervento straordinario
come sostegno politico elettorale ai partiti
di governo, senza nessun progetto e nessuna
verifica dei risultati economici degli
investimenti (quando i finanziamenti si
indirizzavano a ciò) e senza nessuna
argomentazione sulla congruenza degli
obiettivi di sviluppo con la realtà ed i
progetti delle comunità locali, la svolta
determinata dall'elezione diretta del
sindaco è stata una speranza a cui
agganciare il cambiamento della politica di
sviluppo. Nella società meridionale viviamo
il paradosso che la società politica ed il
personale politico è tra i pochi che si
dedica e possiede, quindi, le abilità per
realizzare aggregazione, organizzare e
suscitare azione collettiva (essendo la
società ripiegata nel particolarismo
familiare, clientelare, corporativo) ma allo
stesso tempo è quello a cui si può
imputare di aver coltivato arretratezze
della segmentazione sociale come strumento
di lotta politica.
Quando la figura del sindaco si è elevata dalla litigiosità partitica
a simbolo degli interessi collettivi, avendo
alla spalle l'affacciarsi di nuove figure,
provenienti dalla società civile, alla vita
amministrativa, allora la capacità
organizzativa - questa volta addirittura
istituzionalizzata - aveva l'occasione di
legarsi ad un obiettivo di sviluppo
aggregante la società locale oltre i
particolarismi e le divisioni. Il sindaco,
personaggio innovativo (oltre che per un
metodo di elezione al di sopra delle parti -
per l'impegno di nuovi soggetti sociali),
prometteva la potenzialità di una svolta
con la cura di interessi strategici della
società locale. La maggiore responsabilità
contratta nei confronti degli elettori
sarebbe stata verificata con il giudizio del
voto al momento della ricandidatura.
Oltre la figura simbolica del sindaco, nei patti territoriali si
cimenta una nuova classe dirigente, anche
sul versante politico. Lo spazio per la
pianificazione strategica dipende dalla sua
cultura politica nel modo di affrontare
l'azione collettiva su basi cooperative.
Sebbene alcuni patti campani, come quello di
Benevento o di Caserta sono partiti grazie
all'iniziativa degli imprenditori,
certamente la maggior parte di essi si è
coagulato intorno ad un iniziatore politico.
A questi si deve prima di tutto la selezione
dei soggetti invitati al tavolo di
concertazione e la costruzione delle
alleanze.
Se i sindaci restano alquanto sullo sfondo come promotori dei piani
strategici, gli attori fondamentali sono le
associazioni. Seguendo anche i suggerimenti
del Cnel, associazioni degli imprenditori e
sindacati devono contrattare reciprocamente
impegni in rapporto al mercato del lavoro.
Gli imprenditori sono presenti con le
imprese di dimensioni minori, mentre le
grandi imprese non mostrano interesse per i
patti. Inoltre, mentre le prime hanno il
management in zona, le seconde no, e
considerano comunque la dimensione
geografica trattata come sottodimensionata
alle loro operazioni ed ai loro programmi.
La presenza delle organizzazioni nel processo sconta i limiti della
rappresentanza, sebbene i correttivi sono in
opera quando gli imprenditori e gli altri
attori dello sviluppo sono interrogati
direttamente nel corso della procedura di
formazione del piano strategico. La
rappresentanza delle categorie matura delle
politiche in suoi processi interni di
interazione complessi che fanno parte
integrante della vita delle associazioni con
momenti diversi che vanno dagli studi
condotti da esperti ai sondaggi di opinioni
degli associati o dei dirigenti, al contatto
continuo con gli associati nel trattamento
dei loro problemi. Queste politiche però
hanno bisogno di processi di
generalizzazione per diventare unificanti ed
estese su vasti ambiti geografici. Per
giunta, sono proprio le linee nazionali e più
generali che assumono maggiore visibilità e
prestigio nell'organizzazione, sposandosi
con le tesi della maggioranza nazionale, e
rimanendo associate ai leaders più
prestigiosi. Questa prevalenza del generale
sul particolare conforma il comportamento
della maggioranza, che quando diviene molto
convenzionale per degli irrigidimenti della
vita dell'associazione, privilegia le
convenzioni accreditate alle pratiche più
vicine. In base a tali processi si possono
verificare gli scostamenti tra
rappresentanze ed associati che possono
deformare la partecipazione degli attori
reali al processo di pianificazione. A
questa avvertenza bisognerebbe pensare
quando le proposte delle categorie appaiono
appropriate ma alquanto avveniristiche.
Perfetti centri di servizi per l'agricoltura
in cui sono presenti effettivamente quei
supporti alle imprese che sarebbero decisivi
non si realizzano perché esiste solo una
teoria (giusta) della loro necessità, ma
mancano gli attori locali capaci di prender
l'iniziativa, creare il consorzio necessario
di operatori locali che di quei servizi
sentono l'esigenza e sono disposti a pagare
per essi, organizzare il centro e lavorarci
dentro concretamente. Tra una perfetta
teoria e la pratica operativa ci può essere
una certa distanza e questa nuoce alla
definizione degli obiettivi strategici.
Un rapporto biunivoco si instaura tra attori e obiettivi e, in fondo,
selezionare gli uni vale quanto selezionare
gli altri. In questo senso l'iniziatore del
processo guida un poco le fila del gioco
chiamando o escludendo dal tavolo. I termini
con cui queste selezioni sono state fatte
però non credo che vanno ascritti a
coscienti manovre per predeterminare i
risultati desiderati. La filosofia inclusiva
del patto da un lato predeterminava delle
presenze istituzionali e prescriveva degli
attori indispensabili come gli imprenditori
e le banche e dall'altro rendeva subito
eticamente sospetto chiunque tentasse di
predeterminare delle strategie di alleanze
selezionate sia di aree geografiche che di
settori di intervento. L'una sarebbe stata
subito bollata come ritorno al campanilismo
(il patto era percepito come un superamento
del campanilismo) e l'altro come il
privilegio di interessi privati (il patto
era percepito come sviluppo degli interessi
collettivi). Ciò nonostante il fatto che i
patti si caratterizzino in maniera molto
differente non dipende solo dalle vocazioni
del territorio, ma anche
dell'associazione di attori localmente forti
con una certa idea dello sviluppo. Questa
associazione determina il carattere
nettamente industriale del patto di Caserta
come quello turistico dei Campi Flegrei.
Questa associazione pone la domanda di
quanto il governo locale sia stato in grado
di elaborare proprie idee dello sviluppo
indipendenti da tali presenze o equilibri di
forze, ovvero quanto sia stato in grado di
modificare l'equilibrio delle forze
produttive localmente presente sulla base di
una propria idea di sviluppo preferibile.
L'ambiguità del ruolo degli imprenditori è alimentata dalla loro
doppia presenza in quanto soggetti
dell'azione e beneficiari. Il livello di
attenzione nei loro confronti e le selezioni
che avvengono nel loro campo dipendono dagli
orientamenti dei partecipanti al tavolo di
concertazione i cui membri appartengono
prevalentemente alle due categorie
precedenti. Nella procedura la loro
partecipazione è regolata, piuttosto che
con interazione diretta, attraverso sistemi
di consultazione e con bandi. Questo
distanziamento, in certi casi, può
suscitare l'esigenza della mediazione e fare
da terreno per pratiche clientelari sebbene
queste vengano limitate ad aspetti marginali
(come l'informazione, ad esempio) da altre
misure della procedura come la
rappresentanza al tavolo delle categorie, la
valutazione indipendente dei business
plans e dell'oggettività dei criteri di
valutazione. In un modello interattivo il
loro maggiore apporto potrebbe essere, nella
costruzione del piano strategico, in termini
cognitivi. La conoscenza dei problemi
sostantivi del diretto operatore in un
determinato settore produttivo va oltre le
conoscenze del rappresentante
dell'organizzazione di categoria. Queste
vengono messe in campo per la progettazione
del piano della singola impresa concorrente
al finanziamento e possono essere coordinate
da terzi in un piano generale, ma l'assenza
di interazione tra i soggetti proponenti non
consente di attuare quella fase di reciproco
aggiustamento con cui i piani delle singole
aziende possono essere modificate l'una in
funzione dell'altra per rendersi
complementari e sinergiche. Tra la prima
fase in cui presentano le idee progetto e
quella in cui viene emanato il bando con
l'indicazione degli obiettivi strategici ed
i requisiti a cui debbono rispondere i
progetti aziendali viene a mancare un loro
apporto diretto. Una procedura di
consultazione interattiva non sarebbe
semplice con la media del numero di idee
progetto presentate nei patti campani
(spesso di varie centinaia), ma altre
esperienze di pianificazione strategica ci
indicano metodi per organizzare vaste
consultazioni attraverso il lavoro di gruppi
tematici (focus groups) coordinati
poi tra loro in modo intersettoriale. Ciò
richiederebbe una preventiva strutturazione
dei beneficiari secondo obiettivi e non solo
prossimità geografica, per pianificare
indipendentemente dall’assegnazione del
sostegno governativo La procedura
concorsuale per l'assegnazione dei
finanziamenti è giuridicamente inevitabile
per assicurare criteri di equità e
correttezza, ma andrebbe anche considerata
come attività premiale o strumentale al
piano elaborato.
Il coinvolgimento delle banche nei patti appartiene ad un progetto di
riforma del credito meridionale che si è
tradizionalmente limitato alla raccolta dei
risparmi. Uno sviluppo dell'impresa locale
ha invece bisogno di banche d'affari capaci
di sostenere finanziariamente le iniziative
e, senza voler aspirare a disporre di un
vero e proprio capitale di rischio, formare
almeno le professionalità capaci di
praticare bilanci e piani aziendali. In
questa prospettiva alle banche viene
affidato un ruolo di grande responsabilità
nella valutazione dei progetti. I criteri di
fattibilità finanziaria e di mercato
imposti dal Ministero del tesoro, e
accertati dall'istruttoria bancaria,
finiscono per essere determinanti nella
selezione. Di fatto l'istruttoria è una
cartina al tornasole che chiarisce
l'inconsistenza di molte idee progetto
avanzate da volenterosi poco esperti o
capaci, da semplici procacciatori di fondi
pubblici, da organizzazioni in crisi e senza
reali prospettive. Se non il suo rigore,
almeno un’analoga capacità di
discernimento andrebbe anticipata al momento
della definizione delle idee strategiche.
L'apprendimento di queste pratiche sta realizzando apposite competenze
e organizzazione nelle banche a partire dai
procedimenti amministrativi dettate dal
Parlamento e dai Ministeri. I tempi di
apprendimento, uniti all'imprevedibile
sviluppo del numero di patti in Campania, si
paga con la lungaggine dell'istruttoria.
Le azioni
Nel momento che i patti sono affidati all'iniziativa locale, non esiste
modo di controllare la loro proliferazione
nella regione né di garantire che essi
nascano in aree strategiche. Anche questa è
un’anomalia delle politiche di sviluppo:
l'assenza di un'area bersaglio e di una
qualsiasi guida dall'alto. Il Cnel ha
puntato ad un rapporto diretto con i patti
di fatto accantonando ogni possibile ruolo
degli organi di governo territoriali. Dal
loro canto tanto le province che le regioni
non si sono impegnate efficacemente neppure
in un ruolo di coordinamento a posteriori.
Alla fine sono stati gli stessi patti a
costruire una loro organizzazione di
coordinamento ma indirizzata principalmente
allo scambio di informazioni ed alla
diffusione di buone pratiche.
Non esistono quantità demografiche, numeri di comuni, estensioni
territoriali o omogeneità del tipo di
occupazione che possono essere prese come
criteri fissi di delimitazione dell’area
del patto. Esistono territori la cui identità
sovracomunale è già stata codificata per
alcuni caratteri geografici o economici che
si sono imposti nella letteratura e nella
pratica di pianificazione come i Campi
Flegrei, l'area del Miglio d'Oro, il
Sele-Tanagro. Come si vede si tratta di
aggregazioni intorno a temi molto diversi.
Talvolta sono ambiti geografici come le
vallate fluviali che sono luogo privilegiato
dell'insediamento umano nelle aree montane
interne, altre volte ambienti umani storici
con un patrimonio culturale di valore che è
stato riconosciuto come preminente risorsa
territoriale, altre volte, come nell'area
vulcanica puteolana, fattori culturali e
naturali si intrecciano in una entità del
tutto singolare e coesa.
Nei casi in cui non poteva confrontarsi con identità territoriali forti,
è più difficile trovare ragioni esterne
alla contingenza della sua formazione
specifica. Tra i motivi che hanno agito c'è
l'idea di azione all'origine del patto. In
certi casi, come per il patto di Caserta,
l'area diventa la semplice proiezione
territoriale del tipo di intervento che si
vuole attuare, interessando comuni sparsi
per la provincia e separati tra di loro; in
altri casi, dove l'iniziativa è dell'ente
locale, le aggregazioni risentono
maggiormente di omogeneità politiche che
economiche. L'aggregazione è condizionata
dall'adesione spontanea e
dall'autodeterminazione dei comuni per cui
il risultato di una delimitazione talvolta
non coincide con il disegno del promotore e
patti territorialmente molto ambiziosi, come
quello del Cilento, sono comunque costretti
a trovare criteri di selezione ed
aggregazioni per costruire organizzazioni e
programmi concretamente gestibili con le
presumibili risorse a disposizione rispetto
all'estensione dell'area geografica
omogenea.
L'area del patto pone il tema della corrispondenza tra azione e
territorio, il quale si interseca, a sua
volta, con le delimitazioni amministrative
le quali detengono i poteri di
pianificazione. Ciò comporta che l'azione
non è riducibile ad un processo
amministrativo interno ad un ente
territoriale che esplica le sue funzioni ma
assume il carattere di una pianificazione
indicativa elaborata comunque all'esterno di
essi e che di essi ha bisogno per trovare la
propria cogenza. Questa indipendenza è
tanto più preziosa quanto più il patto
costruisce la propria identità di agenzia
di sviluppo e sa godere della flessibilità,
agilità e legame con gli attori dello
sviluppo locale. Questi gradi di
indipendenza possono essere utilizzati per
costruire piani strategici di qualità -
seppure eventualmente parziali - che possono
essere sottoposti allo scrutinio degli enti
pubblici interessati.
La mancanza di chiarezza di questi rapporti ha generato nelle prime
esperienze pattizie alcuni inconvenienti che
bisognerebbe in futuro evitare. Una sorta di
idea di un piano del patto come piano
territoriale o variante a piani territoriali
esistenti ha anche forzato i progetti in
termini di modifiche urbanistiche piuttosto
che di progetti di sviluppo compatibile. Il
conflitto tra sviluppo e regolamentazione o
sviluppo e protezione dell'ambiente esiste
oggettivamente e non possiamo negarlo, ma la
promessa crescita di occupazione e benessere
viene anche utilizzata per forzare la
protezione di risorse non rinnovabili o
interessi collettivi irrinunciabili ed il
patto è sembrato lo strumento adatto a
compiere quest'aggiramento regolamentare in
territori forse anche ingessati da un
disperato estremismo protezionistico.
Mantenere una verifica delle proposte di sviluppo negli organismi
eletti garantisce la protezione del pubblico
interesse. Quest'obbligo, stante le attuali
procedure di approvazione delle varianti
urbanistiche, impone tempi troppo lunghi
incompatibili con i piani strategici. La
soluzione adottata dai patti di scartare
ogni progetto difforme dalla vigente
normativa è troppo limitativo perché la
difformità regolamentare è, a volte, solo
dovuta a incapacità di previsioni e a
cambiamenti di obiettivi, non a esigenza di
protezione dell'ambiente e dei beni
pubblici. Dai piani strategici può venire
questa spinta di aggiornamento degli
strumenti urbanistici e nuove proposte
dell'uso del suolo più aggiornate rispetto
non solo alle esigenze produttive
specifiche, ma anche ad una nuova visione
dell'assetto della comunità. Per questo
motivo l'azione del patto dovrebbe trovare
rapida traduzione in modifiche ai diritti
nell'uso del suolo.
Per inquadrare l’attività di pianificazione dei patti dobbiamo tener
presente di trovarci di fonte
un’importante novità, essendo abituati
alla attribuzione esclusiva delle funzioni
urbanistiche agli enti territoriali dello
Stato. Coi patti - come con le successive società
di sviluppo urbano - abbiamo invece
delle organizzazioni pubblico-private,
talvolta portatrici di interessi
particolari, quand’anche legittimi e
giusti, che si appropriano di quella
funzione e che, pertanto, necessitano dello
scrutinio degli organi rappresentativi.
Il più noto inconveniente nella individuazione dell'idea strategica è
la difficoltà a scegliere ai tavoli di
concertazione, con il risultato che si
perviene ad elenchi di obiettivi troppo
numerosi e troppo incoerenti per i quali si
disperdono risorse polverizzate, rese, in
questo modo, inefficaci. L'anomalia del
tavolo di concertazione consiste nel fatto
che non si riunisce per la soluzione di un
problema comune - il che sarebbe
naturalmente il modo alternativo corretto di
impostare il lavoro - del tipo: come
superare la crisi occupazionale?
L'aggregazione è di tanti interessi,
eventualmente anche confliggenti, accorsi
per appropriarsi di finanziamenti.
Anche la filosofia dello sviluppo integrato favorisce la dispersione
delle risorse. I vari settori produttivi si
influenzano tra di loro, il progresso
manifatturiero può avvenire contando
sull'innovazione agricola e richiedendo un
elevamento della qualità dell'insediamento
urbano, della fornitura di servizi, dello
sviluppo delle attività culturali.
L'integrazione si può interpretare come la
scelta di far marciare tutte le cose assieme
mentre la strategia richiede un ordinamento
gerarchico degli obiettivi attraverso
l'attribuzione di valore in funzione del
raggiungimento dello scopo. Strategia e
integrazione sono allora antagoniste? Una
selezione di obiettivi strategici può
essere fatta in un quadro di sviluppo
integrato se la scelta delle priorità terrà
conto di questo quadro più ampio.
Dato il contesto in cui si formano le strategie del patto, il modello
decisionale seguito non è tanto la sequenza
razionale delle fasi presentata dal primo
Bryson (1989), quanto il processo politico
di costruzione delle alleanze, formazione di
coalizioni e perseguimento degli obiettivi
del secondo (1992). Il tavolo di
concertazione, infatti, corrisponde ad una
arena pubblica in cui si presentano ed
interagiscono i vari soggetti alla ricerca
di far prevalere gli obiettivi di proprio
interesse per guadagnare le poste in gioco.
Le condizioni per cui si possa passare da
questo modello a quello di pianificazione
collaborativa (Innes 1999) sono piuttosto
rare. Si richiede un maggior impegno delle
competenze tecniche, una visione dei giochi
a somma positiva (invece che la semplice
distribuzione di risorse date), tempi più
lunghi ed un maggiore impegno
cognitivo.
Il processo di pianificazione
Le fasi del procedimento amministrativo codificate nella procedura Cipe
influenzano le fasi del processo di
pianificazione.
Concertazione
Il lavoro di concertazione si svolge spesso con il supporto
tecnico di esperti dell'economia dell'area
interessata al patto o con documenti di
politiche delle categorie produttive e anche
con descrizioni delle risorse del territorio
e dell'uso del suolo. Nell'apparato
conoscitivo di base è molto diffuso l'uso
della Swot Analysis. Applicata in un
primo tempo dagli economisti, ha trovato
traduzioni anche nel settore urbanistico.
Alle tradizionali carte dei vincoli tendono
a sostituirsi quelle dei problemi e delle
opportunità. Il cambiamento incomincia ad
essere significativo anche per un approccio
più integrato al territorio. L'urbanistica
esce dalla nicchia di scienza del
costruire e si amplia alla
valorizzazione delle risorse. Un bosco è un
vincolo all'edificazione ma anche una
risorsa da preservare e utilizzare per varie
attività.
Questi supporti alle decisioni sono elaborati settorialmente, oppure si
trovano in un unico documento d'insieme. La
distanza fino alla strategia del patto nel
primo come nel secondo caso cambia alquanto
ma non implica una maggiore o minore
selezione delle idee strategiche né una
maggiore o minore partecipazione degli
attori. In ogni caso esiste sempre l'impegno
ad uno studio abbastanza esteso e
comprensivo in modo da tenere in
considerazione tutte le componenti sociali
presenti. Infatti questi sfondi costruiti
all'inizio sono sempre più vasti
dell'azione che il patto é poi in grado
realmente di perseguire.
La verifica e selezione avviene con la prima raccolta di idee progetto.
Al bando rispondono solo una parte dei
potenziali attori dello sviluppo locale
selezionati dai livelli di informazione e di
fiducia. Il confronto tra indirizzi centrali
e indicazioni periferiche dovrebbe risultare
abbastanza efficace per individuare gli
obiettivi, fatto salva la difficoltà a
dominare tutte le indicazioni provenienti
dalle idee progetto talvolta tanto numerose
quanto generiche e superficiali. Contare,
catalogare e sintetizzare tutti i contributi
che vengono alla costruzione dell'idea
strategica non è facile specialmente con
pochi mezzi, tempi e personale a
disposizione. L'ideale sarebbe riverificare
le carte dei problemi e delle opportunità
con queste nuove conoscenze.
L'elaborazione di un piano strategico, sebbene impegnativo, è
perseguito in realtà piuttosto come uno
sfondo di riferimento su cui si muovono con
maggiore concretezza i progetti e le loro
relazioni senza essere mai fissato una volta
per tutte. Forse per questo motivo non si dà
un peso eccessivo alla accurata selezione di
pochi obiettivi qualificanti e alla
definizione di una vera e dettagliata
strategia, con precisi programmi di azione.
Una scorciatoia che si presenta sempre per
le situazioni difficili è risolverli con un
certo ricorso al convenzionalismo. Teorie
affermate e convinzioni diffuse di politiche
di sviluppo sono sempre una guida e nelle
situazioni complesse ordinano rapidamente le
evidenze. In particolare nei patti
comunitari lo schema delle misure e delle
azioni tipiche di molti programmi europei
finisce per imporsi in modo uniforme ed
amministrare la strategia nel segno
dell'integrazione e del partenariato.
Infatti quello che è decisivo è di mantenere viva l'idea strategica
nella valutazione dei progetti
imprenditoriali, impedendo che si riduca
alla semplice fattibilità. In questo caso,
il processo di pianificazione strategica
avrebbe comunque avuto il merito di
suscitare interesse e partecipazione degli
attori dello sviluppo locale, ma abdicato al
compito di indirizzare le azioni dei singoli
verso uno scopo comune. Questa duplice
impostazione è presente nello sviluppo dei
patti. In fondo, ma anche esplicitamente, c'é
chi ritiene la pianificazione strategica,
come qualsiasi altra pianificazione, sia
solo un impaccio al libero sviluppo delle
forze economiche che debbono essere
suscitate nelle loro capacità
imprenditoriali dal sostegno delle risorse
finanziarie, dall'accompagnamento nella
progettazione del business plan,
dallo snellimento delle pratiche
amministrative, nell'ottenimento rapido di
permessi e concessioni, dall'accordo con i
sindacati per vantaggiose modifiche del
mercato del lavoro e poi basta.
Progettazione
Il modo per orientare la progettazione non è solamente il
bando. La diffusione dell'informazione
formale ed informale è altrettanto
importante. Gli sportelli sono stati
organizzati anche come veri e propri uffici
di consulenza sia per la progettazione
economica che edilizia, ma ricevono solo
quelli che sono stati attivati attraverso
altri canali informativi che si dipartono
dai partecipanti al tavolo di concertazione.
Oltre all'esigenza di organizzare una vera e
propria attività di informazione che giunga
ai potenziali interessati nel modo più
corretto ed esauriente possibile, c'è anche
da considerare quanto del piano strategico
venga veicolata attraverso di essa. E questo
dipende in gran parte da quanto il tavolo di
concertazione è stato coinvolto nel
processo di pianificazione strategica.
Valutazione
Come
già accennato, l'idea strategica può
diventare criterio di valutazione dei
progetti. Sebbene questo sia un requisito
richiesto dalla procedura, sono necessarie
alcune condizioni perché si realizzi nella
pratica, come che l'idea sia stata elaborata
in modo chiaro e tradotta in criteri di
valutazione applicabili. Poi, vari criteri
di valutazione sono in competizione tra di
loro. Esiste una prassi consolidata
nell'esame delle pratiche per la legge
488/1992 di una procedura e criteri di
valutazione che è stata estesa anche
all'esame dei progetti dei patti. I patti
europei, volendo privilegiare l'occupazione,
allora hanno particolare attenzione per i
progetti produttivi (o anche di servizi
sociali) che creano di nuovi posti di
lavoro. Quando, in applicazione di criteri
di fattibilità economico-finanziaria, solo
pochi progetti restano veramente credibili,
allora la corrispondenza all'idea strategica
non opera come significativo elemento
decisionale.
Per la fase del finanziamento le decisioni sono spostate al ministero
ed alle sue procedure di erogazione dei
fondi che dipendono da aspetti politici ed
amministrativi di fondo e non dalle
decisioni locali o dai loro progetti. Della
fase dell'implementazione, poi, possiamo, al
momento, dire poco perché ben pochi sono i
patti campani che la hanno attraversata.
Questa sarà la decisiva verifica di tutti i
nostri discorsi.
L’innovazione del procedimento amministrativo
dei patti
La procedura di approvazione dei patti territoriali ha subito una
sostanziale modifica nel passaggio dalle
prime delibere Cipe del 1995 a quella del
1997.
Un grosso passo in avanti nell’innovazione della procedura era
avvenuto già con la legge 662/1996, che
oltre alla possibilità di attivazione in
via amministrativa di nuove tipologie
negoziali, prevedeva l’estensione degli
strumenti negoziali a tutto il territorio
nazionale. Questa rappresenta una radicale
innovazione dello strumento del patto
concepito nel 1995 come strumento per la
programmazione dello sviluppo
dell’economia della società meridionale.
Tuttavia anche se gli strumenti negoziali
vengono estesi all’intero territorio
nazionale le risorse del Cipe restano
comunque riservate alle sole aree depresse,
intendendo come tali quelle ammissibili agli
interventi dei fondi strutturali, obiettivi
1, 2 e 5b, nonché quelle rientranti nelle
fattispecie dell’art. 92, paragrafo 3
lettera c del trattato di Roma.
L’innovazione maggiore che viene imposto allo strumento del patto
territoriale è rappresentato dalla perdita
di ruolo del Cnel nel passaggio di
procedura.
Il Cnel con le delibere del 1995, la cosiddetta vecchia procedura,
è un soggetto di primo piano il cui ruolo
è di accompagnamento al patto, in quanto
ente a cui viene trasmessa l’elaborazione
dell’idea progettuale di patto e a cui
spetta la verifica di massima del patto
stesso, nonché la trasmissione del progetto
di patto definitivo, che porterà alla
sottoscrizione del protocollo d’intesa -
il primo documento istituzionale del patto
stesso in cui si sottoscrivono i precisi
obblighi delle parti - e alla trasmissione
al Ministro del tesoro, del bilancio e della
programmazione economica e alle verifiche da
parte degli uffici ministeriali.
Da
questo punto in qua la procedura di
approvazione del patto si esternalizza
prevedendo l’approvazione del patto da
parte del Cipe, la sua sottoscrizione e
presentazione al Ministero del tesoro, del
bilancio e della programmazione economica e
l’istruttoria da parte degli uffici
ministeriali. La procedura di approvazione
può infatti dirsi conclusa mancando solo
l’emissione dei decreti di concessione
delle agevolazioni alle singole imprese da
parte dei competenti uffici ministeriali e
la sottoscrizione di eventuali protocolli
aggiuntivi.
Nella
delibera Cipe del 1997, dopo la fase di
attivazione e sottoscrizione di un
protocollo d’intesa fra le parti sociali,
la trasmissione del patto viene fatta
direttamente al Ministero del tesoro, del
bilancio e della programmazione economica
senza l’intermediazione e
l’accompagnamento del Cnel. La procedura
di approvazione di un patto territoriale se
da una parte si semplifica, in quanto le
fasi di approvazione di un patto passano da
dieci a nove, diventa però interamente
esterna al processo. Il Ministero, infatti,
accerta la sussistenza dei requisiti,
acquisisce il parere della regione, se non
compresa tra i soggetti sottoscrittori del
patto, ed approva in maniera definitiva il
patto territoriale. Seguono quindi le fasi
dell’istruttoria, dell’approvazione con
decreto ministeriale, della
sottoscrizione/stipula del patto, della
trasmissione alla cassa depositi e prestiti
e la successiva erogazione da parte della
cassa stessa ed, infine, l’eventuale
sottoscrizione di protocolli aggiuntivi.
Nel
passaggio da una procedura all’altra si
palesa, quindi, un vero e proprio scontro
tra due politiche di sviluppo, quella di cui
è portatrice il Cnel e quella del Cipe. I
patti territoriali, allo stato attuale,
tentano di districarsi tra queste due
culture diverse ma in molti punti
convergenti.
Non è un caso che è il Cnel ad aver inventato i patti territoriali
come strumento fondamentale di concertazione
degli impegni dei protagonisti locali, come
schema di riferimento del partenariato
sociale, come nuovo e solido modo di fare
sviluppo locale (De Rita 1998) e ad aver
innescato la politica di sviluppo dei patti.
La
politica di sviluppo del Cipe, che prevale
con la delibera del 1997, ha una logica più
istituzionalizzata e va a valutare un
progetto sullo schema degli incentivi
previsti dalla legge 488/1992 per la quale
un progetto prevede un bussines plan
che ne garantisca la convenienza a
implementare il progetto stesso. Si
percepisce, quindi, uno smarrimento
dell’idea originaria di patto territoriale
e dell’azione di sviluppo che un patto
dovrebbe promuovere, compromettendo in tal
modo l’apporto più concreto dello
strumento negoziale del patto alla cultura
dello sviluppo locale.
Per una strategia regionale
Si
è proceduto a stilare una carta strategica
regionale sulla base delle azioni
strategiche dichiarate nei programmi
d’azione dei patti territoriali
tralasciando quelle di natura più politica
e di carattere generale comuni alla
maggioranza dei patti territoriali (relative
alle politiche attive per il lavoro, alla
formazione di nuovi profili professionali,
alle misure di flessibilità dei lavoratori
e al potenziamento del sistema
formativo).
I
programmi strategici dei patti si
presentano, nella maggioranza dei casi, come
un intreccio disordinato di più politiche
di sviluppo; non è un caso che molti patti
puntino ad esempio su un tipo di sviluppo
che sia allo stesso tempo turistico e
industriale.
Si
nota comunque una diversità di
strutturazione dei programmi d’azione in
base alla tipologia del patto (patto
comunitario per l’occupazione o patto
territoriale) e all’evoluzione temporale
dello strumento.
In
particolar modo, riflettendo su
quest’ultimo punto, si può affermare che
si è assistito ad un cambiamento dei
programmi d’azione essendo i patti più vecchi
(patto di Caserta, Benevento, Avellino)
mossi prevalentemente da una logica di
programmazione economica rispetto agli
ultimi (patto di Amalfi, Sorrento) in cui si
cerca attraverso un articolato programma
d’interventi, l’individuazione dei punti
di forza e debolezza del territorio e la
prefigurazione di uno scenario di sviluppo,
di pervenire alla creazione di quello che
si crede possa essere un ambiente
favorevole allo sviluppo. Molte
iniziative trasversali dei patti sono tese
alla creazione di questo ambiente favorevole
allo sviluppo che può essere considerata
come la precondizione per un solido sviluppo
economico. Una delle iniziative più di
successo in tal senso è quella definita dal
patto della penisola sorrentina la via
delle arti e dei mestieri che prevede la
creazione di botteghe artigiane che possano
fungere direttamente da attrattiva turistica
e indirettamente da pubblicità dei prodotti
e delle lavorazioni tipiche del territorio.
|
Figura 1 - Fasi
dei patti territoriali che seguono
la vecchia procedura |
Su
questa ipotetica carta strategica regionale
che si è cercato di delineare si sono
rappresentate quelle che appaiono come le
maggiori azioni strategiche previste dai
programmi d’azione dei patti, suddivise,
per comodità di lettura, in quattro
macroaree tematiche corrispondenti a
determinati settori di sviluppo: mobilità,
riqualificazione urbana, sistema produttivo,
turismo e ambiente.
Procedendo
con ordine, per quel che riguarda il settore
di sviluppo turistico, i programmi
d’azione dei patti hanno puntato
essenzialmente su azioni come la
valorizzazione del patrimonio culturale e di
fenomeni naturali, come il termalismo o il
bradisismo, che favoriscono le condizioni di
un turismo di qualità che a sua volta
dovrebbe innescare una situazione culturale
favorevole alla valorizzazione dello stesso
patrimonio.
Le
principali azioni strategiche che
contribuiscono a costruire un’immagine di
un territorio teso allo sviluppo del turismo
sono:
-
valorizzazione del patrimonio storico e dei
beni culturali, presente nei patti di Avellino e Baronia, ma anche nei patti
Sele-Tanagro, Miglio d’Oro, Campi Flegrei,
Ischia e Magna Graecia, nei cui territori
sussistono i siti di maggior interesse
regionale (anfiteatro Flavio, porto romano
sommerso di Pozzuoli, il parco archeologico
di Cuma, il fenomeno naturale bradisismico,
i templi greci di Paestum, le ville
vesuviane e gli scavi archeologici di
Ercolano);
-
turismo termale,
in particolare dell’area di Contursi -
Oliveto Citra del patto Sele-Tanagro, dove
sussiste una tradizione più o meno
consolidata di questo tipo di turismo anche
se non utilizzata a pieno; nel patto dei
Campi Flegrei, che annovera sul suo
territorio terme di rilievo storico come
quelle romane di Agnano, le Terme Puteolane
e le Stufe di Nerone; il patto dell’isola
d’Ischia, i cui centri termali sono
sicuramente i più famosi della regione e
tra i più conosciuti d’Italia;
-
sviluppo dell’agriturismo,
esplicitamente dichiarato come settore di
sviluppo in tre patti territorali: Magna
Graecia - Sele-Tanagro e Baronia;
-
utilizzo produttivo della risorsa mare,
con le connesse attività balneari e
turistiche, rappresenta una delle politiche
di sviluppo comune a tre patti di territori
costieri, Campi Flegrei, penisola sorrentina
e Magna Graecia. Implica un’interazione
tra balneazione, nautica, cantieristica da
diporto, pesca, sport acquatici, artigianato
del mare, archeologia sottomarina
intrecciando turismo ed economia;
-
turismo religioso,
relativo alla valorizzazione
dell’itinerario turistico-religioso delle Sette
Madonne del patto Sele-Tanagro.
Si
è notato che, rispetto ai programmi
d’azione dei patti interni, quelli dei
territoriali costieri sono caratterizzati
per il privilegiare una strategia di
sviluppo turistico anche per quei
territori, come nel caso dei Campi Flegrei o
del Cilento, che non hanno attualmente una
forte vocazione turistica.
|
Figura 2 - Fasi
dei patti territoriali che seguono
la nuova procedura |
Nello
specifico caso del territorio cilentano, il
turismo può rappresentare una vera risorsa
per lo sviluppo della costa del salernitano
meridionale, vergine al turismo e che
annovera tra i suoi punti di forza il mare
più pulito della regione.
Discorso
a parte merita lo sviluppo turistico di
patti di territori interni come ad esempio
quello del patto Sele-Tanagro per il cui
territorio la scommessa turistica è
effettivamente una novità.
La
politica di riqualificazione dei centri
urbani rappresenta un’azione comune
alla maggioranza dei patti ed in particolar
modo di quei patti orientati alla
valorizzazione o alla pianificazione di uno
sviluppo di tipo turistico ma anche sociale
in quanto il recupero, la valorizzazione e
la riqualificazione dei centri storici
contribuisce ad eliminare le fratture
sociali che si creano nella popolazione con
il degrado di interi quartieri urbani.
Legata
alla riqualificazione dei centri storici è
anche il recupero e la razionalizzazione
delle aree dismesse con particolare
riferimento al patrimonio di archeologia
industriale.
La
politica di riqualificazione dei siti
industriali dismessi è infatti comune a
molti patti campani, dal patto dell’agro
nocerino sarnese, al patto di Napoli
nord-est, al patto Vesuviano e a quello
Sele-Picentino.
Alcuni
programmi d’azione dei patti hanno inoltre
evidenziato un’attenzione particolare
verso siti di archeologia industriale; il
recupero dell’ex-Kerasav di Portici, ex
Poligrafica di Stato, con il patto del
Miglio d’Oro o degli antichi mulini e
delle cartiere della costiera amalfitana.
Molti
patti, come già abbiamo detto prima, sono
strutturati unicamente dalla programmazione
economica e pertanto mirano allo sviluppo
solo del sistema produttivo. In un’ottica
di questo tipo l’attenzione per il
territorio, i beni culturali e i centri
storici non viene manifestata.
PATTO
TERRITORIALE DI CASERTA
PATTI
TERRITORIALI COSTA DI AMALFI E MIGLIO D'ORO
I
patti di questo tipo sono essenzialmente
quelli dei territori interni e che seguono
la vecchia procedura, definibili in
quest’ottica come patti industriali
come quelli di Caserta e Benevento,
approvati con la vecchia procedura, e di
Avellino approvato con la nuova procedura.
Anche
patti più recenti, siglati da comuni di
aree interne alla regione, propongono una
logica di sviluppo tipicamente industriale
come nel caso del recentissimo patto del
Matese, che tra l’altro è l’unico patto
interregionale campano, del patto del medio
Volturno e di altri, mentre tra i patti
costieri è il solo Sele-Picentino a puntare
sulla valorizzazione del sistema produttivo
per la presenza sul suo territorio di
attività consolidate nel settore
automobilistico e tessile.
Lo
sviluppo industriale a cui mirano i progetti
imprenditoriali dei patti non è quello
della grande industria ma quello delle
piccole e medie imprese, spesso a conduzione
familiare, tipiche dell’esperienza del
nord-est d’Italia (Bagnasco 1988) che si
va sempre più affermando come un modello di
riferimento.
In
molti casi si può parlare di attività di artigianato
avanzato che puntino sulla
valorizzazione ad esempio della ceramica di
Vietri e di Cava o sui coralli dell’area
vesuviana o su attività autoctone come la
commercializzazione degli abiti usati di
Resina.
Nel
manifatturiero le calzature rappresentano
uno dei settori industriali che registrano
il maggior numero di attività
imprenditoriali all’interno dei patti: il
patto di Caserta, ad esempio, è interessato
da quindici progetti di calzaturifici su
ventisette progetti finanziati.
Anche
il settore agricolo e agroalimentare
è tra quelli che i patti tendono a
sviluppare maggiormente; in molti casi
l’azione si struttura con la proposta di
una filiera o di un vero e proprio distretto
agroalimentare come nel caso della costa
d’Amalfi in cui si punta sulla
valorizzazione dei prodotti tipici del
territorio come limoni, castagne e uva.
Si
registrano, inoltre, filiere agroindustriali
come quella della mozzarella di bufala nel
medio Volturno e nel casertano, del vino e
dell’olio nella Magna Graecia, dei vini
con i patti di Avellino e del Calore. Per i
patti comunitari, invece, in particolare il
patto di Napoli nord-est, si punta sullo
sviluppo del comparto floricolo e
fruttifero, soprattutto fragole, cachi e
ortive, mentre per l’agro nocerino
sarnese si punta sui pomodori; infine le
azioni strategiche dei patti del Matese,
Benevento e Caserta, vengono definite
genericamente agroalimentari.
Il
potenziamento delle attività produttive è
tra gli obiettivi della maggior parte dei
patti territoriali e anche molti patti
costieri puntano alla valorizzazione e
potenziamento delle aree dei piani degli
insediamenti produttivi (Pip) al loro
interno per accogliere le iniziative
imprenditoriali promosse con i bandi. È il
caso del Cilento, con le aree Pip di
Castellabate, Torchiara, Perito, Vallo della
Lucania; della penisola sorrentina con le
aree Pip di Sorrento e Meta; dei Campi
Flegrei dove si è proceduto ad attuare una
specifica politica per l’utilizzo delle
aree industriali presenti sul territorio con
il potenziamento delle aree industriali
interne e la dismissione di quelle costiere,
solidale alla promozione dello sviluppo
turistico.
Molti
dei patti che avevano inizialmente previsto
interventi infrastrutturali hanno dovuto
abbandonare queste azioni a seguito degli
strettissimi tempi di utilizzo dei fondi
imposti dal meccanismo dei patti
stessi.
Bisogna
ricordare che il finanziamento previsto per
ciascun patto territoriale è di circa 100
miliardi di lire; una quota pari a circa il
trenta per cento dell’intero finanziamento
viene assegnata alle opere di
infrastrutturazione che alimentano la
logica di un corretto sviluppo del
territorio.
I
patti di Avellino e di Caserta si sono visti
costretti a rinunciare alle quote da
destinare all’infrastrutturazione del
territorio, inficiando in parte l’azione
di programmazione dello sviluppo economico.
Sulla
carta strategica regionale sono stati
individuati quelli che emergono come i
maggiori interventi sulla mobilità
dichiarati dai programmi d’azione dei vari
patti.
Le
azioni di potenziamento stradale previste
dai patti tendono al superamento di
situazioni di isolamento del territorio. È
il caso del Matese, territorio montano dal
difficile collegamento con il resto della
regione o del medio Volturno che propone una
bretella stradale di collegamento alla
fondovalle Ischlero.
Altri
interventi sulla mobilità del territorio
rientrano nei programmi del patto del Miglio
d’Oro, i cui comuni di Portici, Ercolano,
San Giorgio a Cremano e Torre del Greco sono
caratterizzati da un sottodimensionamento
delle arterie stradali in rapporto al numero
di abitanti; della costa d’Amalfi, dove
invece si avverte oltre che un precario
collegamento tra la costa e le zone montuose
anche una forte carenza di parcheggi.
Per
il territorio del patto Sele-Picentino il
miglioramento dei collegamenti stradali è
funzionale all’obiettivo di costituire una
vera e propria cerniera di collegamento tra
i due grandi percorsi turistici, la costiera
amalfitana e il sistema Cilento.
Si
segnala ancora il patto Vesuviano che
prevede di realizzare un più facile
collegamento di questa parte del territorio
con i comuni contermini e con le maggiori
arterie della regione prevedendo il
completamento della bretella di collegamento
all’autostrada Napoli-Roma, la
riqualificazione degli assi Somma -
Marigliano e Sant’Anastasia-Pomigliano e
della ss 268 per Ottaviano ed il raddoppio
della tratta Napoli-Ottaviano-Sarno.
Altra
azione strategica relativa alla mobilità ed
al potenziamento della ricettività
dell’area, è quella dell’adeguamento
degli approdi marittimi proprio del
territorio dei Campi Flegrei (porto di Baia,
di Acquamorta e di Pozzuoli), della costiera
amalfitana (Maiori, Minori e Positano) e
della Magna Graecia (Agropoli).
CARTA
STRATEGICA DEI PATTI TERRITORIALI CAMPANI
Il
potenziamento degli accessi via mare è
inoltre previsto per la costa settentrionale
della penisola sorrentina.
I
programmi di sviluppo dei patti territoriali
promuovono anche azioni di salvaguardia
ambientale.
Le
maggiori attività che si tende a
valorizzare a riguardo sono l’agriturismo,
le coltivazioni ecologiche di prodotti
tipici, accanto ad attività di
trasformazione e commercializzazione,
apicoltura, campings, percorsi pedonali e
ciclabili.
Molti
patti individuano all’interno del proprio
territorio azioni volte alla tutela delle
aree verdi. Nella maggior parte dei casi si
tratta di aree già vincolate da parchi -
nazionali o regionali - o oasi
naturalistiche; è il caso dell’area del
parco nazionale del Vesuvio (patto
territoriale del Miglio d’Oro e
Vesuviano); dell’area del parco nazionale
del Cilento (patto territoriale del Cilento
e della Magna Graecia); delle aree del
Montenuovo e del cratere degli Astroni
(patto territoriale dei Campi Flegrei);
dell’area dell’oasi di Persano e del
parco dei Monti Picentini (patto
territoriale del Sele-Picentino); o di aree
di particolare interesse storico-ambientale
come la valle delle Ferriere, la valle del
Fiordo Furore, la valle del Dragone, il
vallone Poto di Positano, i monti del
demanio e Capo d’Orso a Maiori e il sentiero
degli dei ad Agerola (patto della Costa
d’Amalfi); dell’area del Laceno nell’Avellinese
(patto territoriale di Avellino o delle zone
collinari del patto della penisola
sorrentina).
Infine,
tra le azioni di carattere ambientale si
segnalano anche quelle relative al
potenziamento degli impianti di depurazione
(patto del sistema cilento e della costiera
amalfitana) e di rinaturalizzazione della
linea di costa (patti del Miglio d’Oro,
dell’isola d’Ischia, del Sele-Picentino
e del sistema Cilento) tendenti a perseguire
una maggiore fruibilità della costa con la
conseguente implementazione del turismo
costiero.
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Nota degli autori
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