Premessa
La pianificazione
d’area vasta, nel nostro paese,
non nasce nel 1990. Non nasce con la
legge 142, "Nuove norme sull’ordinamento
degli enti locali". Nasce molto
prima, sia come esperienze concrete
sia come esigenza, dibattito,
sperimentazione e ricerca di
soluzioni giuste: soluzioni, cioè,
culturalmente fondate,
amministrativamente valide,
politicamente praticabili. Se si
vuole comprendere lo stato attuale
della pianificazione d’area vasta,
i suoi problemi, le sue difficoltà
e i suoi successi, è della sua
storia che occorre avere
consapevolezza.
Lo strano
decennio
Della
pianificazione d’area vasta si
cominciò a parlare e a discutere, e
a lavorare, in quello strano
decennio del XX secolo (grosso modo
dalla fine degli anni Venti all’inizio
dei Quaranta) che separa tra loro la
grande crisi esplosa a Wall Street e
la Seconda guerra mondiale. E si
cominciò a farlo non solo negli USA
e in Gran Bretagna, ma anche in
Italia.
Tra le esperienze
italiane vorrei ricordare la
bonifica delle Paludi pontine e la
conseguente realizzazione di città
e paesi, di canali, strade e
ferrovie, di zone industriali e di
parchi. Tra gli istituti
amministrativamente validi (quegli
istituti giuridicamente fondati che
quasi sempre seguono le esperienze
pratiche e tentano di generalizzarne
gli esiti) vorrei ricordare due
delle figure pianificatorie
introdotte dalla legge 1150 del
1942: il piano intercomunale
in primo luogo, che avrebbe dovuto
consentire di governare le
trasformazioni territoriali nelle
aree più dense, e il piano
territoriale di coordinamento,
che avrebbe dovuto consentire il
governo delle realtà più ampie:
quelle che dalla dimensione dell’intercomunalità
si allargano a quella, appunto della
"area vasta".
Decenni di
silenzio
Perché per mezzo
secolo la pianificazione d’area
vasta non è stata praticata se non
eccezionalmente? Le ragioni di fondo
sono ormai acquisite alla
storiografia urbanistica. Concluso,
nel 1945, il periodo bellico, la
necessità di ricostruire le
infrastrutture, il patrimonio
edilizio e gli apparati produttivi
(questi ultimi, fortunatamente, in
gran parte salvati dagli operai) non
si utilizzò – come invece fecero
altri paesi europei – il metodo e
gli strumenti della pianificazione:
si abbandonò invece quest’ultima,
abbandonando la ricostruzione, e il
successivo sviluppo, alla logica del
più brutale spontaneismo.
E quando lo
sviluppo di forze produttive moderne
fece riemergere l’esigenza della
razionalità dell’assetto urbano,
l’unica pianificazione che venne
rilanciata fu quella a livello
locale. Del resto, l’unico
adeguamento legislativo che era
stato compiuto (oltre all’introduzione
di provvedimenti che consentissero
di derogare alla pianificazione) era
stata la sostituzione dei termini
del lessico fascista (Podestà,
Camera dei fasci e delle
Corporazioni, Casa del Fascio ecc.)
con quelli del lessico democratico
(Sindaco, Parlamento, servizi
pubblici ecc.).
Alcuni generosi
tentativi compiuti negli anni
Cinquanta (il piano del canavese
promosso da Adriano Olivetti, quello
piemontese del gruppo coordinato da
Giovanni Astengo, il manuale per la
pianificazione regionale
commissionato dal Ministero dei Llpp
ad Astengo) restano isolati episodi.
È solo nel corso degli anni
Settanta che si tenta di riprendere,
in modo generalizzato, la
sperimentazione di una dimensione d’area
vasta nella pianificazione.
Si ricomincia
Molte sono le
soluzioni tentate. Superate le
resistenze dei partiti di centro (e
in particolare della DC), timorosi
di un "potere rosso" nell’area
centrale della Penisola, si sono
finalmente istituite le regioni
(istituto cui gli urbanisti hanno
sempre dato notevole rilievo): è da
esse che finalmente verrà, si
spera, un quadro certo e razionale
sull’assetto del territorio, una
disciplina che darà coerenza d’insieme
alle politiche urbanistiche e a
quelle, infrastrutturali e
localizzative, che spettano allo
Stato: alcune regioni lavorano e
producono i primi piani urbanistici
regionali, o piani territoriali di
coordinamento, o piani territoriali
regionali (Governo e Parlamento si
guardano bene dal coordinare
alcunché), altre lavorano male, o
non lavorano affatto: amministrano
il giorno per giorno, distribuiscono
a pioggia le risorse di cui
dispongono. Ci si rende conto subito
che il livello regionale della
pianificazione d’area vasta non è
sufficiente: troppo ampia è la
forbice tra le decisioni che la
Regione può governare con
efficacia, e quelle proprie del
livello comunale. Occorre un
"livello intermedio" della
pianificazione. Si sperimentano
varie strade: quelle che fu tentata
più a lungo, è quella dei
"comprensori": enti
elettivi di secondo grado (i membri
dei consigli comprensoriali vengono
eletti dai consiglieri comunali),
oppure emanazione delle regioni,
oppure – nei casi
istituzionalmente più perversi –
costituiti a mezzadria tra regione e
comuni. Leggi regionali (Piemonte,
Emilia-Romagna, Veneto), a volte
coraggiose, precisano
caratteristiche, poteri, competenze
dei comprensori. Ma l’esperienza
dura pochi anni. Né più a lungo
dura quella del "comprensorio
speciale" previsto dalla legge
per Venezia.
Il fallimento dei
comprensori e la nascita della
pianificazione provinciale
Perché il
fallimento? Una ragione sostanziale
fu individuata nel fatto che i
comprensori non avevano poteri
propri. I soggetti che componevano
gli organi decisionali non erano
investiti direttamente dall’elettorato,
ma rappresentavano in primo luogo il
comune, o la regione, che li aveva
eletti come "suoi"
rappresentanti nei governi
comprensoriali. Poiché gli
interessi dei diversi livelli
possono essere, e spesso sono, in
contraddizione tra loro (con buona
pace dei fautori della concertazione
ad ogni costo), i contrasti interni
provocavano la paralisi di ogni
decisione. Fu negli anni Settanta
che emerse la posizione più
ragionevole: a ogni livello di
pianificazione deve corrispondere un
livello di governo autorevole, e
perciò eletto direttamente dai
cittadini.
Fu così che
matura, negli anni successivi, la
proposta di attribuire potere di
pianificazione del "livello
intermedio" alle province. Nate
sulla scia dell’ordinamento
statuale napoleonico come emanazione
dei poteri del governo nazionale,
trasformate in organi elettivi e
articolazioni dell’ordinamento
repubblicano con la Costituzione del
1948, le province avevano però
poteri debolissimi: caccia e pesca,
assistenza psichiatrica, scuole
superiori, strade di livello
intermedio, e pochissimo altro. Dopo
un lungo dibattito, è nel 1990 che,
con la legge 142, si assegna alle
province il ruolo e le competenze in
merito alla pianificazione d’area
vasta.
Poiché in
Italia, dal 1948, la competenza in
materia urbanistica è attribuita
alle regioni, è a questa che la
legge 142/1990 ha affidato il
compito di definire obiettivi,
contenuti, procedure, risorse per la
formazione della pianificazione
provinciale. Alcune regioni hanno
legiferato, altre no. Tra le regioni
renitenti è allineata anche la
Campania.
La pianificazione
nella Provincia di Salerno
Ma la
pianificazione del territorio non è
un ornamento, né l’adempimento di
una prescrizione legislativa: la
pianificazione del territorio, in
una realtà moderna, è una
necessità. Soprattutto là dove vi
sono risorse ambientali e culturali
ingenti, potenziale fonti di
sviluppo ma soggette a rischi di
degrado, dove l’organizzazione del
territorio pone problemi complessi
che i singoli comuni non possono
risolvere da soli, dove la
contraddizione tra aree a sviluppo
intensivo e aree caratterizzate da
fragilità economica e sociale
minaccia di accentuarsi. Per questa
ragione, nelle more di un
provvedimento regionale, i reggitori
della Provincia di Salerno decidono
di partire da soli. Nel 1995 il
processo si avvia, con un documento
d’indirizzo della Giunta
provinciale approvato dall’intero
Consiglio.
Il documento
definisce la pianificazione come
"un processo sistematico e
continuo di programmazione e
gestione del territorio", volto
a "indirizzare le politiche
comunali e coordinarle per creare le
condizioni di una migliore
organizzazione e assetto del
territorio che, partendo dalla
tutela e valorizzazione delle
risorse ambientali e culturali,
consente di far interagire tra loro
le diverse componenti che concorrono
allo sviluppo socio-economico
sostenibile dell’area".
L’iter di
formazione del Piano territoriale è
visto come "un processo
unitario nel quale i diversi
soggetti intervengono per
determinare, nell’ambito delle
loro competenze, un unico sistema di
scelte". Ove la collaborazione
tra tali soggetti non consentisse,
su determinati punti, di giungere
"ad una convergenza d’intenti",
si assumeranno comunque le decisioni
necessarie "la cui
responsabilità ricadrà sull’ente
al quale la legge affida competenze
superiori"1.
Tra Stato e
comuni
Quest’ultima
affermazione tocca un punto di
grande rilievo. La pianificazione d’area
vasta interviene, nel nostro paese,
quando si è già consolidata (dove
più, dove meno) una prassi di
pianificazione come prerogativa dei
comuni, e una prassi di decisioni
sul territorio (le grandi
infrastrutture, i finanziamenti per
le grandi opere pubbliche, l’approvazione
dei piani) affidata allo Stato (e,
negli ultimi decenni, in parte alle
regioni). È tra questi due livelli,
quello statuale (e regionale) e
quello comunale, che deve inserirsi
la pianificazione d’area vasta
provinciale. Essa deve perciò
guadagnarsi sul campo i galloni:
dimostrarsi utile ai comuni,
dimostrarsi efficace e autorevole
alla regione e allo stato.
Sul fronte
"a monte" la situazione
non è certo brillante. Se il
Parlamento nazionale ha legiferato
sin dal 1990, quello regionale della
Campania ha brillato per la sua
inerzia. Non solo non esiste una
legge urbanistica che attribuisca
contenuti, poteri e procedure alla
pianificazione provinciale, ma
addirittura si è stabilito che alla
Provincia è sottratto perfino il
potere di approvare i piani comunali
della grande maggioranza dei
comuni2. Vedremo nei prossimi mesi,
benché l’alba della nuova Giunta
non sembri molto felice3.
Sul fronte
"a valle" la Provincia di
Salerno sta conquistando il suo
ruolo con una serie di azioni le
quali, se a volte corrono il rischio
di un eccessivo empirismo,
concorrono comunque efficacemente ad
affermare il ruolo pratico della
Provincia nell’affrontare, e
condurre a proposte convincenti e
condivise, situazioni territoriali o
di settore che i comuni non possono
affrontare da soli, e la cui
soluzione contribuisce invece a
risolvere conflitti nell’uso delle
risorse e a migliorare il livello di
servizio di ampie zone del
territorio provinciale.
Ma dietro queste
pratiche si cela una questione più
complessa, alla quale la frase
citata del documento della Giunta
provinciale direttamente si
riferisce: Quali sono le
"competenze superiori" che
la legge affida alla pianificazione
provinciale; o meglio, in assenza di
una legge chiara, sulla base di
quale principio può individuare il
discrimine tra competenze
provinciali e comunali nella
pianificazione?
Il principio di
sussidiarietà
Il principio al
quale ci si può riferire è quello
"di sussidiarietà".
Poiché se ne parla spesso
a sproposito,
vediamolo nella sua interpretazione
più autorevole. Esso è stato
definito compiutamente nell’art.
3b degli Accordi
di Mastricht (che
regolano i rapporti tra l’Unione
europea e gli stati membri):
"Nei campi che non ricadono
nella sua esclusiva competenza la
Comunità interviene, in accordo con
il principio di sussidiarietà, solo
se, e fino a dove, gli obiettivi
delle azioni proposte non possono
essere sufficientemente raggiunti
dagli Stati membri e, a causa della
loro scala o dei loro effetti,
possono essere raggiunti meglio
dalla Comunità".
Sulla base di
questo principio, sono allora di
competenza della pianificazione
provinciale quegli interventi, e
quelle azioni, che "a causa
della loro scala o dei loro
effetti" possono essere
compresi e governati meglio al
livello territoriale della Provincia
che a quello del singolo comune. È
chiaro quindi che
"appartengono" alla
pianificazione d’area vasta
provinciale due grandi campi di
decisione. Da un lato, quelli che
attengono ai sistemi ambientali:
alla tutela e all’uso delle
risorse naturali e culturali, al
paesaggio, alla tutela del suolo e
dell’acqua e agli interventi volti
alla prevenzione dei rischi. Dall’altro
lato, quelli che riguardano la
grande attrezzatura del territorio
visto come sistema insediativo: come
insieme di infrastrutture,
attrezzature, servizi, centri i
quali sono funzionali non alla vita
di questa o quella unità di
vicinato, di questo o quel comune,
ma del sistema insediativo
provinciale nel suo complesso.
Una
interpretazione di
"pianificazione" e alcune
sue conseguenze
È tenendo conto
del contesto e dei criteri indicati
nelle righe che precedono che si è
operato per giungere alla bozza di
Piano territoriale di coordinamento
provinciale, che la scheda riportata
più avanti illustra nel suo
procedimento di formazione e nella
sintesi dei suoi contenuti. Poiché
peraltro al termine di
"pianificazione
territoriale" si danno spesso
significati molto diversi, è
opportuno precisare, nel concludere
queste note, l’idea di
pianificazione cui si è fatto
riferimento nel costruire il PTC
salernitano.
Intendo per
"pianificazione" un’azione,
continua e sistematica, condotta
dall’ente elettivo rappresentativo
della volontà generale dei
cittadini, volta a conferire
coerenza, nello spazio e nel tempo,
alle trasformazioni fisiche e
funzionali del territorio, in vista
di un determinato sistema di
obiettivi socialmente condivisi.
Ciascuno dei termini che ho
adoperato meriterebbe di essere
discusso. Dall’analisi di ciascuno
di essi si potrebbero trarre
indicazioni operative. Alcuni
rinviano a questioni ancora aperte:
penso all’interesse generale, e
penso alla condivisione sociale: due
questioni sulle quali una
contaminazione della nostra
disciplina con le scienze politiche,
e della nostra tradizione
pianificatoria nazionale con le
esperienze e tradizioni europee ed
americane potrebbe risultare
feconda.
E preferisco
parlare di
"pianificazione" anziché
di "piano" perché ritengo
che ciò che serve per governare il
territorio non è un documento
elaborato una volta per tutte,
singolare, magari accattivante come
un bell’oggetto (e come tale
pubblicato su patinate riviste), e
neppure una serie o una congerie di
piani, ma una pianificazione: un’attività
continua, costante e sistematica,
che esprima nel tempo la capacità
di governare le "scelte
politiche tecnicamente
assistite" in cui (come afferma
Francesco Indovina) si esprime la
pianificazione territoriale e
urbana, a tutte le scale e i
livelli.
Vorrei concludere
sottolineando che puntare alla
"pianificazione" anziché
al "fare un piano"
significa anche assegnare un’importanza
particolare alla costituzione di una
struttura capace di assistere
tecnicamente la politica nel governo
del territorio: un Ufficio del
piano, adeguatamente attrezzato,
efficace, autorevole, e di un
apparato tecnico capace di
costruire, aggiornare e gestire il
crescente patrimonio informativo
necessario per un avveduto governo
del territorio – un Sistema
informativo territoriale. Il
difficile percorso della formazione
di questi due strumenti è perciò
parte costitutiva della costruzione
della pianificazione territoriale
nella provincia di Salerno.
1
Il
documento di indirizzi individua i
principali obiettivi cui la
pianificazione territoriale è
chiamata a fornire idonee soluzioni.
Ci si limita in questa sede a
sintetizzare i più rilevanti:
a. il ruolo
della questione ambientale,
individuato nel porre le risorse
ambientali "non come vincolo
allo sviluppo ma come parametro
implicito di qualificazione";
b. "valorizzazione
del sistema dei beni e delle risorse
storiche e paesistiche-ambientali
per il loro valore intrinseco e per
la loro stessa potenzialità
economica", da considerare come
"condizione primaria" per
gli altri sistemi;
c. il ruolo
della pianificazione territoriale
"nella determinazione dei
criteri di organizzazione degli
insediamenti urbani, la
localizzazione dei servizi e delle
attrezzature di livello
sovracomunale, la funzionalità del
sistema della mobilità" deve
essere finalizzato al miglioramento
della qualità del sistema
insediativo;
d. assunzione
dell’obiettivo del superamento
della "attuale distinzione tra
aree forti e aree marginali",
puntando su un "modello
insediativo pluricentrico sul
territorio che miri a correggere la
spontanea aggregazione di funzioni
ed insediamenti attorno al capoluogo
e ai centri maggiori";
e. riqualificazione
e articolazione dell’offerta
turistica basata sull’esaltazione
della differenza dei siti e
assunzione di nuove strategie per il
rafforzamento, la razionalizzazione
e la riconversione ecologica delle
funzioni industriali, commerciali,
turistiche e industriali;
f. soluzione
del problema della mobilità
attraverso una visione integrata
delle diverse reti e modalità, e
affrontando anche la questione della
localizzazione sul territorio delle
funzioni generatrici di domanda di
traffico;
g. definizione
di norme, indirizzi e direttive per
la riqualificazione delle aree già
urbanizzate e abitate, aumentando la
dotazione di verde e di servizi,
stimolando il recupero della
permeabilità dei suoli, aumentando
il grado di ossigenazione,
utilizzando i corsi d’acqua previo
disinquinamento e rinaturalizzazione
ecc.
2
Infatti
i PRG dei capoluoghi di provincia
sono approvati dalla regione, quelli
dei comuni compresi nelle Comunità
montane da queste ultime.
3
Si
veda in proposito l’art. di Luigi
Scano, su questo stesso numero.