Scenari di frammentazione e istanze
d’integrazione
Il campo della pianificazione e delle politiche pubbliche del
territorio appare attraversato in misura
crescente da forze contrastanti. Da un lato,
la competizione globale determina una sempre
maggiore sensibilità dei governi regionali
e locali verso istanze di trasformazione
espresse dal mercato. Ne consegue la
tendenza a fornire risposte in chiave di
efficienza, rapidità decisionale, dinamismo
istituzionale, prevalentemente ispirate da
criteri di crescita economica,
dall’intento di attirare investimenti o
dal timore di perdere possibili vantaggi che
ne deriverebbero per il sistema economico
locale. D’altro lato, la crescente
sensibilità ambientale, manifestata dalla
società contemporanea, richiede ai governi
regionali e locali capacità di esercitare
azioni preventive nei confronti dei
possibili impatti ambientali negativi
derivanti dalla localizzazione di nuove
attività o dalla trasformazione di
insediamenti esistenti, di monitorare e
controllare con maggiore efficacia le
trasformazioni degli usi del suolo, di
promuovere progetti orientati al risanamento
e alla salvaguardia ambientale. A tali
processi si associa una crescente
frammentazione dei sistemi sociali,
territoriali e istituzionali. La
globalizzazione, infatti, implica selettivi
e localizzati mutamenti dei valori delle
risorse legati all’intensificarsi della
competizione fra città e regioni e
conseguente crescente instabilità e
incertezza delle relative prospettive di
sviluppo (Sassen, 1994; Harvey, 1989). Le
stesse città mondiali, le cui dinamiche di
crescita sono favorite da tali processi,
sono luoghi di polarizzazione sociale, ove
si concentrano nello stesso tempo
straordinario benessere e marginalità e
degrado estremi (Castells, 1989).
Nell’economia globalizzata, la distribuzione internazionale del
lavoro è diseguale e dipende in modo
cruciale dagli specifici vantaggi offerti
dalle diverse località all’accumulazione
del capitale. Ne consegue che la
globalizzazione non implica omogeneità, ma
perduranti e forse accentuate diversità e
differenze territoriali (Amin and Thrift,
1994).
La frammentazione nella società contemporanea è anche espressa dalla
sempre più spinta articolazione della
domanda sociale e dal moltiplicarsi di
movimenti legati a specifiche istanze
emergenti nei contesti locali. Non di rado
questi assumono forma di controversie
intrattabili: in campo ambientale, sindromi
di Nimby (Not in My Back Yard) e dispute per
Lulus (Locally Unwanted Land Uses) danno
origine a nuove coalizioni che tagliano
trasversalmente le divisioni sociali e
politiche tradizionali (Blowers and Evans,
1997).
Parallelamente, tendono a moltiplicarsi gli attori coinvolti nel
governo delle trasformazioni territoriali.
Gli enti pubblici ai quali il modello
consolidato di pianificazione affidava
compiti primari di promozione e controllo
delle trasformazioni territoriali, appaiono
sempre meno credibili e legittimati ad
assolverli. Specie nel Mezzogiorno
d’Italia, questo si deve, almeno in parte,
all’inefficacia e inefficienza di gran
parte dei piani in vigore e delle varie
forme di controllo pubblico sull’uso dei
suoli, e al dilagare di modalità
d’intervento sregolate. La crisi di
legittimazione sociale della pianificazione
pubblica ha contribuito essa stessa ad
aprire il processo di pianificazione, sia
nella fase di decisione sia in quella di
implementazione, alla partecipazione di una
pluralità di attori: imprese,
organizzazioni, gruppi di cittadini, oltre
che nuove agenzie create ai diversi livelli,
locale e sovralocale, come risposta ai
problemi gestionali sofferti dagli enti di
governo tradizionali.
Un simile processo non è una peculiarità del sistema italiano. A
livello europeo sembra emergere una tendenza
comune verso la frammentazione delle
responsabilità fra i diversi attori
istituzionali (Newman and Thornley, 1996),
da leggersi anche quale risposta
istituzionale all’impatto esercitato dalle
forze globali sul funzionamento dei mercati
locali. A processi di decentramento dallo
stato centrale ai diversi livelli locali, si
unisce il carattere sempre più multilivello
del policy making relativo alle
trasformazioni territoriali (Dente, 2001),
legato sia alla presenza dell’attore
europeo sia all’istituzione di nuove
agenzie, dipartimenti, commissioni, deputati
ad assolvere nuove funzioni o reinterpretare
i modi in cui queste erano assolte dalle
istituzioni preesistenti. Tali processi, che
possono anche essere interpretati quale
forma di istituzionalizzazione del rischio (Beck,
1991), ossia della capacità delle
istituzioni di adattarsi al cambiamento in
un contesto di crescente incertezza (Giddens,
1991), generano frammentazione politica,
amministrativa e spaziale. Ma quali che
siano le loro origini, uno stato
pluralistico, caratterizzato dalla mancanza
di un centro per l’esercizio autoritativo
del potere, comporta comunque la tendenza
degli attori - enti pubblici, imprese e
rappresentanti della società civile - a
entrare fra loro in competizione per
assicurarsi risorse pubbliche e private (Lash
and Urry, 1994). La pianificazione del
territorio, alla quale i processi sin qui
accennati pongono sfide rilevanti, appare
incline a rispondervi mediante
l’attivazione di rapporti con i diversi
attori pubblici e privati che affollano
l’arena decisionale, e la moltiplicazione
delle sedi di discussione, valutazione,
deliberazione. Tali rapporti possono avere
finalità anche profondamente diverse: ad
esempio, possono mirare a negoziare proposte
di investimento, mediare fra i diversi
interessi in campo ai fini della
localizzazione di impianti socialmente utili
ma localmente indesiderabili, creare
partenariati per accedere a finanziamenti di
matrice comunitaria e nazionale basati su
procedure competitive, costruire politiche
sostenibili in materia di acque, energia,
mobilità, risorse naturali.
1
L’integrazione rappresenta un obiettivo rilevante delle pratiche di
pianificazione, anche come risposta alle
diverse forme di frammentazione che
caratterizzano la società contemporanea. Ma
integrazione è termine ambiguo. Può
implicare ricerca di unità e coerenza, come
per lungo tempo è stato nella tradizione
della pianificazione territoriale. Ma può
anche alludere alla necessità di
coinvolgere diversi attori nel processo di
pianificazione in una prospettiva di
governance. In questo senso, il termine
riconosce l’irriducibile molteplicità
delle arene decisionali e l’esistenza di
molteplici pubblici piuttosto che di un
unico, generale interesse pubblico (Sandercock,
1999; Donolo, 1997). Ne conseguono due
possibili atteggiamenti: un’enfasi sul
coordinamento delle azioni, che si colloca
nel solco della tradizione del modello di
pianificazione dirigistico, top-down, oppure
un orientamento più creativo che,
attraverso l’integrazione di attori,
risorse, campi d’azione, sottintende la
promozione di diverse forme di
coinvolgimento socio-istituzionale e
l’attribuzione di potere a persone e
organizzazioni per creare nuovi spazi di
dialogo, mutuo apprendimento e innovazione (Barbanente,
Monno, 2002).
Per quanto il primo approccio appaia ancora dominante nel panorama
italiano, non v’è dubbio che, anche
grazie alla spinta dell’Ue, il campo della
pianificazione e delle politiche pubbliche
del territorio dagli anni ’90 è stato
attraversato in Italia, anche nell’area
vasta, da intense innovazioni nelle
direzioni in ultimo accennate (Palermo,
2001).
La crisi di legittimazione del sistema
di pianificazione consolidato
I processi sin qui delineati investono la Puglia con particolare
intensità, specie nelle aree caratterizzate
da maggiore dinamismo socioeconomico. Qui il
moltiplicarsi di nuove esperienze di
programmazione integrata, se da un lato
rivela l’ampiezza, spesso inaspettata, di
risorse e capacità d’azione, dall’altro
rischia di aggiungere nuovi elementi di
frammentazione a quelli esistenti, così da
inibire processi di apprendimento legati al
contesto e indebolire sistemi di governance
locale già piuttosto fragili (Donolo,
1997).
Il modello di pianificazione comprensiva, delineato dalla Lur 56/1980,
non è stato capace di interagire
virtuosamente con tali processi. Anzi, i
suoi limiti di astrattezza e rigidità, da
tempo manifesti (Barbanente, 1993),
all’impatto con le suddette domande di
trasformazione, hanno contribuito a creare
una prassi estemporanea e sovente sregolata
al di fuori dei piani o in variante ad essi.
D’altro canto, il moltiplicarsi delle
iniziative di programmazione negoziata,
piuttosto che indurre a ricercare possibili
forme di interazione con la pianificazione
ordinaria, sembra non avere avuto altro
riflesso su quest’ultima se non quello di
aggiungere occasioni di variazione degli
strumenti, così delegittimandola
ulteriormente. I tempi estenuanti delle
approvazioni regionali hanno ulteriormente
aggravato tale situazione, mettendo in
discussione il ruolo stesso dei piani quali
efficaci strumenti di guida e controllo
delle trasformazioni del territorio.
2
Il modello della Lur 56/1980 si fondava su un sistema a cascata
articolato in un piano territoriale
regionale, in piani intermedi,
temporaneamente affidati alla regione, e nei
piani comunali, generali e attuativi. Il
livello di area vasta rappresenta una delle
lacune principali della pianificazione del
territorio in Puglia. La mancanza, per un
ventennio, di qualsiasi quadro di
riferimento pianificatorio sovracomunale di
tipo generale appare espressione evidente
della difficoltà dell’urbanistica
pugliese di costruire scenari condivisi di
sviluppo e tutela del territorio ad ampia
scala1. Tale difficoltà non appare superata
neppure dalla recente approvazione del piano
territoriale tematico paesaggio (Putt/p).
Quest’ultimo, infatti, lungi dal proporsi
quale strumento di governo del territorio
orientato a valorizzare le cospicue risorse
ambientali e culturali della regione,
intendendole quali potenziali fonti di
sviluppo e rigenerazione ambientale, anche
in ragione di un’inadeguata base
informativa, ha finito per rinviare alla
fase di attuazione del piano, alla
pianificazione comunale e ai singoli
progetti di trasformazione, la gran parte
delle scelte in merito alle trasformazioni
desiderabili e possibili. Il parere
paesaggistico e l’attestazione di
compatibilità paesaggistica, strumenti
previsti dal Putt/p per la trasformazione
dei territori di maggiore pregio, in questo
quadro rischiano di diventare ulteriori
passaggi burocratici nella catena
esasperante dei controlli esercitati dalla
regione nei confronti degli enti
sottordinati.
La mancanza di visioni condivise nell’area vasta ha contribuito a
rendere opachi, se non arbitrari, molti dei
criteri adottati dalla regione per il
controllo della pianificazione comunale. Gli
unici criteri adottati, con una certa
continuità e scrupolosità, sono quelli
emanati nel 1990 in attuazione della Lr
56/1980. Basati, come sono, però, su
procedure quantitative stereotipate,
essenzialmente riferibili al dimensionamento
del piano e all’applicazione di standards,
essi appaiono simulacri sempre più distanti
dai mutamenti che investono la città reale
e ormai del tutto inadatti a rispondere alla
domanda di qualità ambientale posta dalla
società contemporanea.
La nuova legge regionale: innovazione dei principi e persistenza delle
pratiche
La nuova Lur 20/2001 “Norme generali di governo e uso del
territorio”, innova in profondità il
vecchio quadro legislativo, introducendovi,
oltre che significative modifiche
procedurali, nuovi principi e finalità di
carattere generale. Quattro i principi
fondamentali che orientano il nuovo
articolato: “sussidiarietà, mediante la
concertazione tra i diversi soggetti
coinvolti, in modo da attuare il metodo
della copianificazione; efficienza e celerità
dell’azione amministrativa attraverso la
semplificazione dei procedimenti;
trasparenza delle scelte, con la più ampia
partecipazione; perequazione”. Gli
obiettivi, finalizzati allo sviluppo
sostenibile della comunità regionale,
s’incentrano sulla tutela dei valori
ambientali, storici e culturali e sulla
riqualificazione territoriale.
La legge introduce innovazioni anche negli strumenti. Al documento
regionale di assetto generale (Drag) è
affidato il compito di definire gli ambiti
di tutela e conservazione dei valori
ambientali e culturali, gli indirizzi per la
formazione, il dimensionamento e i contenuti
dei piani provinciali e comunali, gli schemi
delle infrastrutture di interesse
regionale.
Prendendo atto del ruolo attribuito dalla legge 142/1990 alle province,
essa assegna a queste il compito della
redazione del piano territoriale di
coordinamento (Ptc), strumento volto a
coordinare la pianificazione locale e di
settore d’intesa con le amministrazioni
competenti. I campi di primario interesse
sono protezione della natura, tutela
dell’ambiente, tutela delle acque, difesa
del suolo, salvaguardia delle bellezze
naturali. Infine, per quanto attiene alla
pianificazione generale comunale, il piano
regolatore generale è sostituito dal piano
urbanistico generale (Pug), articolato in
piano strutturale e piano
programmatico.
Se l’impalcato generale della legge appare in linea con alcuni
recenti avanzamenti disciplinari, non
mancano contraddizioni che preoccupano alla
luce, da un lato, dell’immaturità della
cultura urbanistica pugliese, dall’altro,
del centralismo consolidato nella prassi
regionale (Barbanente, 2002). In linea di
principio, la nuova legge cerca di superare
il modello gerarchico e autoritativo che
ispirava la legge 56/1980, sposando l’idea
di pianificazione quale forma di governo del
territorio nella quale trovano sintesi
obiettivi, prospettive e azioni dei diversi
soggetti della pianificazione. Questo
principio è perseguito chiamando a
partecipare alla formazione del Drag,
nell’ambito della conferenza programmatica
regionale, rappresentanti degli enti locali,
delle associazioni, delle forze sociali,
economiche e professionali della regione,
dall’altro, tramite conferenza dei
servizi, i rappresentanti delle
Amministrazioni statali, al fine di
acquisirne previamente le manifestazioni di
interesse. Quest’ultima procedura è
prevista anche per l’elaborazione del Ptc,
questa volta con la partecipazione di
rappresentanti delle amministrazioni
statali, comunali e delle comunità montane,
delle autorità di bacino, dei consorzi di
bonifica. Analogamente a quanto era accaduto
per il Putt/p, il Drag diviene strumento per
rafforzare il potere dell’esecutivo
regionale sia nei confronti di comuni e
province sia nei confronti del consiglio
regionale (Figure 1 e 2).
Figura 1 -
Procedimento di formazione del
documento regionale di assetto
generale (Drag). |
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Una vera e propria anomalia rispetto al panorama - pure assai variegato
- delle situazioni delineate dalle recenti
legislazioni regionali (Inu, 2001), è la
mancanza di riferimenti al rapporto tra
programmazione economica e assetto
territoriale regionale, la cui verifica di
congruenza e compatibilità appare invece
elemento imprescindibile di qualsiasi forma
di pianificazione alla scala in
questione.
L’approvazione dei Pug segue ancora la logica del controllo di
conformità, nella fattispecie al Drag e al
Ptc. In assenza di questi, si ricorre alla
discutibile procedura del silenzio-assenso.
La copianificazione, intesa quale metodo per
perseguire il principio chiave della
sussidiarietà, si realizza utilizzando
l’istituto della conferenza di servizi
solo qualora la regione o la provincia
deliberino l’incompatibilità del Pug con
il Drag o il Ptc. Questo è un punto critico
di importanza primaria. Infatti, appare
difficile immaginare di poter fondare la
nuova pianificazione su una partecipazione
convinta, responsabile ed efficace dei
diversi soggetti alla costruzione delle
scelte, piuttosto che, come avveniva in
passato, su una distinzione gerarchica delle
competenze, se il metodo della
copianificazione per il livello comunale si
adotta solo in caso di difformità rispetto
ai piani sovraordinati.
Figura 2 -
Procedimento di formazione del Piano
territoriale di coordinamento regionale di assetto
generale (Drag). |
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Queste perplessità assumono rilevanza ancora maggiore se si
considerano lo stadio assolutamente immaturo
della pianificazione di area vasta e la
carenza di quadri conoscitivi approfonditi e
aggiornati sui caratteri e le tendenze di
trasformazione del territorio regionale. In
una simile condizione, infatti, la verifica
di compatibilità su accennata sarà
probabilmente operata in rapporto
all’unico piano di area vasta vigente, il
Putt/p. Uno strumento che, da un lato, ha
ampliato oltre ogni limite di accettabilità
le maglie dei territori nei quali non ha
applicazione, dall’altro, come accennato,
omette di fornire indicazioni specifiche
circa forma e ampiezza delle trasformazioni
del territorio ammissibili negli ambiti di
interesse paesaggistico da esso stesso
designati. La questione della valutazione
nella/della pianificazione è trascurata del
tutto, in contrasto con l’accresciuta
sensibilità degli enti locali sui temi
ambientali, dovuta sia agli stimoli
provenienti dagli organismi internazionali
sia alle pressioni di cittadini sempre più
consapevoli. La maggiore flessibilità del
piano comunale dalla legge stessa promossa
richiederebbe, invece, che il Pug prevedesse
criteri di qualità e di rischio per la
valutazione degli impatti ambientali delle
trasformazioni proposte2. Inoltre, in
assenza di quadri valutativi, le intese
istituzionali che la legge introduce nelle
procedure pianificatorie (accordo di
programma e conferenza dei servizi)
rischiano di svilupparsi sulla base di
criteri contingenti e di condurre al più a
qualche miglioramento del processo
decisionale in termini di efficienza. In
proposito va anche sottolineato che la legge
contiene solo un accenno al sistema di
conoscenze sul quale la nuova pianificazione
regionale dovrebbe fondarsi. In particolare,
l’ultimo articolo della legge riguarda
l’istituzione del sistema informativo
territoriale, manifestando un interesse
prevalente verso uno strumento, ossia verso
il come conoscere piuttosto che il perché
conoscere e cosa conoscere (Barbanente,
2002). E questo è un altro elemento che
discosta la situazione pugliese dalle
tendenze osservabili in altri contesti
regionali. La moltiplicazione degli attori,
l’articolazione dei livelli decisionali e
la frammentazione di processi e istanze di
trasformazione del territorio, sui quali ci
si è soffermati nella prima parte di questo
contributo, richiedono, invece, una
ricomposizione dei quadri di conoscenza che,
pur non annullando le differenze di visioni
e approcci, consenta di disporre di sfondi
comuni sui quali imperniare la
pianificazione territoriale. Tale esigenza
cognitiva appare ancor più rilevante se la
pianificazione è intesa - come alcuni dei
principi alla base della legge sembrano
indicare - quale processo dinamico,
evolutivo, capace di integrare attori,
risorse, campi d’azione e di favorire
accordi e collaborazioni istituzionali
orientati allo sviluppo territoriale e alla
rigenerazione ambientale.
1 L’unica eccezione è costituita dalla Provincia di Lecce, che ha di
recente adottato il Ptc. Bari, Foggia e
Brindisi, invece, hanno appena avviato, con
approcci molto differenti, il processo di
pianificazione e Taranto sta ancora cercando
di orientarsi sul da farsi. Vi è da
aggiungere che, in un simile impegno, non
solo le province non hanno avuto alcun
sostegno dalla regione, ma quest’ultima ha
considerato sfavorevolmente le iniziative
provinciali. Inoltre, in Puglia mancano
esperienze di pianificazione specialistica
nel campo delle aree protette, dei bacini
idrografici, dei trasporti, mentre la
pianificazione nel campo dello smaltimento
dei rifiuti, dell’attività estrattiva,
della sanità, nella fase implementativa ha
manifestato assoluta mancanza di efficacia
anche in ragione di un’impostazione
marcatamente dirigistica.
2 In questa direzione, com’è noto, si sono mosse altre leggi
regionali, introducendo il principio che
ogni variazione dell’assetto territoriale
debba essere subordinata alla valutazione
degli impatti sull’ambiente. Nessun
raccordo è invece ricercato, nella legge in
questione, con la Lr 11/2001, “Norme sulla
valutazione dell’impatto ambientale”, la
quale prevede che i Prg e le loro varianti
contengano, come parte integrante, uno
studio d’impatto ambientale. Deve in
proposito specificarsi che la Giunta
regionale non ha ancora emanato le previste
direttive volte alla specificazione di
contenuti e modalità di predisposizione
degli studi in questione. Tuttavia, sinora
l’intera materia è stata gestita
dall’assessorato all’ambiente secondo
procedure del tutto separate da quelle
seguite dall’assessorato competente in
materia di assetto del territorio.
3
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Le immagini fuori testo sono tratte dal volume “Lecce d'Argento - Gli
infiniti di Pietro Paolo”, Martano
Editrice srl, Lecce, 2001.
1. “Specchio”. Fine cesello su lastra Argento 925 sterling cm.
53x45. Da una finestra del Palazzo dei
Celestini in Lecce è realizzata la cornice
dello specchio;
2. “Acquasantiera”. Fusione a cera persa e fine cesello. Argento
925 sterling cm. 24,5x11x5. Il pezzo del
Seminario di Lecce è stato trasformato in
acquasantiera. Il pezzo è stato realizzato
in occasione della visita di Sua Maestà, la
Regina Paola del Belgio, e donato dalla
Camera di Commercio di Lecce;
3. “Portabuste”. Fusione a cera persa con
interventi di incisione. Argento 925
sterling cm. 8,5x16x4. Ottenuto dalla
trasposizione dei particolari del rosone
centrale e della trabeazione sinistra
dell'ordine inferiore della basilica di
Santa Croce in Lecce. |