Il 2002 volge rapidamente alla conclusione e non sarà
ricordato come un anno rutinario dai
pianificatori territoriali e dagli
urbanisti, bensì di svolta, per almeno un
duplice ordine di motivi: l’epocale
inondazione dell’Europa centrale e
l’affermarsi di una nuova politica del
territorio in Italia.
Con il primo, per sorprendente coincidenza seguito
dal Summit Onu della Terra (Sot) di
Johannesburg, i temi dell’energia
inquinante, del mutamento del clima, della
desertificazione, delle inondazioni, della
povertà e dell’inquinamento nei paesi in
via di sviluppo, oltre ad essere stati
iscritti stabilmente nell’agenda dei
governi del pianeta, sono diventati un
problema per un’opinione pubblica sempre
più sensibile ed allarmata dai contraccolpi
che l’ambiente, in maniera episodica ma
sempre più frequentemente, comincia ad
infliggere alla quotidianità della vita.
Anche se gli sconvolgimenti ambientali, secondo le
stime più accreditate, dovrebbero impattare
sulla terra in maniera appariscente e
sistematica non prima di cinquant’anni,
lasciando un margine di tempo che spinge a
fare domani quello che si sarebbe potuto
fare oggi.
Il nostro paese si è positivamente distinto fra i
più attenti alla questione ecologica in
sede di Sot, sebbene, sia per la dimensione
globale del problema, sia per i tempi
oggettivamente lunghi, l’impatto sul
precario assetto territoriale italiano
rischia di non essere ricompresso nelle
aspettative di vita di gran parte della
popolazione oggi matura per età, sensibilità
e formazione.
Al contrario, la politica del territorio, che il
Governo italiano ha intrapreso e che,
proprio in questo 2002, ha formalizzato,
mira alla realizzazione di infrastrutture e
può essere riassunta nello slogan molte,
benedette e subito.
Problemi globali e locali hanno così trovato la
sintesi auspicata: per il prossimo mezzo
secolo siamo con l’Europa per la
salvaguardia dell’ambiente,
nell’immediato reinfrastrutturiamo
rapidamente il paese.
Fra l’intervento sul breve e sul lungo periodo,
viene così a mancare quello a medio
termine, tipico dei processi di
pianificazione territoriale che dovrebbero
conferire all’ambiente, che vivremo di qui
al prossimo ventennio, una organizzazione
spaziale e funzionale adeguata a meglio
vivere la quotidianità, nel mentre si
provvede a curare i mali del pianeta, i cui
risultati saranno visti e goduti, qualora
conseguiti, dai nostri figli e nipoti.
La nuova politica del territorio trova, per altro,
enfasi nella stessa ridenominazione del
Ministero competente che diventa delle
infrastrutture e dei trasporti, in luogo dei
lavori pubblici.
Ancora una volta, l’idea di varare un Ministero
del territorio che governasse gli assetti
urbanistici del paese alla scala di
competenza dello Stato, con attinenza alle
problematiche paesistico-ambientali,
infrastrutturali e di assetto territoriale
sovraregionale, non è risultata vincente.
Il nuovo Ministero restringe
emblematicamente il proprio campo di azione
ai processi di infrastrutturazione
sovraordinandoli agli assetti territoriali.
In questo, l’azione di Governo assume connotazioni
paradigmatiche che fanno registrare un salto
di qualità culturale.
* * *
Il metodo della pianificazione, a far data dal 1942,
con la pionieristica legge 1150, rivisitata
dai numerosi interventi normativi varati
negli ultimi sessanta anni anche se non
riformata, era stato molto spesso
contraddetto nei fatti ma mai
superato.
La motivazione politico-sociologica che se ne può
dare è che, nel nostro paese, la leadership
culturale è sempre stata riconosciuta alla
sinistra, anche se, nel concreto, la
gestione del potere e, quindi, del
territorio, è stata ampiamente praticata
dalla destra, che tuttavia non aveva mai
avuto interesse a forzarne i suoi presidi
intellettuali.
Mi sia consentito, solo ai fini esemplificativi ed
assolutamente privo della pretesa di
associarvi specifici movimenti o partiti, di
collegare al termine sinistra la propensione
a praticare politiche che favorissero la
crescita del benessere collettivo dal quale
fare emergere l’individuale; al termine
destra l’esatto contrario, vale a dire
politiche che liberassero la propensione al
benessere individuale, ipotizzando che la
sua diffusione potesse determinare quello
collettivo.
Nel settore della pianificazione urbanistica, anche
se la destra ha molto lavorato per renderla,
in questi anni, poco efficace, essa stessa
ha ritenuto di mantenerla in essere per un
duplice motivo: da un lato, per accusarla di
effetti paralizzanti, in modo da poterla
agevolmente superare in specifiche
congiunture politiche; dall’altro, per
mantenere un freno a tendenze speculative
eccessive e smodate sul breve periodo, che
avrebbero avuto contraccolpi negativi su
quelle ordinarie e più controllate ma di
lungo periodo.
Il tentativo che sta maturando e sortendo i suoi
primi effetti consiste nel ritenere
definitivamente superato il metodo della
pianificazione del territorio per
sostituirlo con il metodo della
infrastutturazione del territorio stesso.
In passato, la politica della infrastrutturazione
non era connotata da una sua cultura propria
e dichiarata.
Oggi si propone una cultura delle infrastrutture
esplicita: esse devono realizzarsi, laddove
emergano criticità immediatamente
verificabili, nel tempo più breve
possibile; avranno, inoltre, funzione
conformatrice degli assetti
urbanistico-territoriali.
Il progetto infrastrutturale diventa ordinatorio
dell’organizzazione dello spazio, assume
il ruolo di opera motore di insediamento
delle funzioni connesse e che
dall’infrastruttura possono trarre il
maggior beneficio: gli usi del suolo si
autoorganizzano per drenare i maggiori
vantaggi dalle potenzialità d’uso offerte
dalle singole infrastrutture.
Il Governo ha più volte affermato di non credere ad
una pianificazione strategica delle
infrastrutture ma di puntare alla
realizzazione di infrastrutture strategiche,
quindi, implicitamente, di non riguardarle
come archi che innervino un sistema
territoriale complesso, ma come degli
indicatori di emergenza, di mancata
funzionalità a parità di domanda e di
offerta di un determinato servizio reso
dalla singola infrastruttura: al più,
sempre per il Governo, si può parlare di
pianificazione dell’emergenza.
C’è da notare, inoltre, come i sostenitori del
progetto ed in contrapposizione al piano,
attivi nel dibattito che catalizzò
l’attenzione del mondo accademico negli
anni ’80, per proseguire nei primi del
decennio successivo, vedono incoraggiate le
loro tesi e ritornano a far sentire la
propria voce secondo la quale, in puro
spirito marinettiano, l’urbanistica è
morta e sepolta1.
* * *
Al di là delle interpretazioni che si possono dare
dell’azione di Governo o delle
dichiarazioni da esso rese, quali sono i
provvedimenti amministrativamente
formalizzati nel corrente anno?
Per le nuove infrastrutture, il Governo ha operato
con due azioni concentriche: la legge
obiettivo (443/2001) ed il collegato
infrastrutturale (166/2002), volendo
perseguire il traguardo di una generale
accelerazione di opere pubbliche o di uso
pubblico.
Sul versante della legge obiettivo (Lo) sono stati
individuati, con successivi documenti di
programmazione progressivamente affinatisi e
confluiti nella delibera Cipe 121/2001,
circa un centinaio di interventi, per la
maggior parte dei quali l’inclusione in
elenco servirà ad attivare le deroghe
procedurali introdotte, per le opere
cosiddette strategiche, dal decreto
legislativo di attuazione dell’agosto
2002, il cui finanziamento è riservato a
solo 21 di esse.
Su un aspetto della manovra governativa non può
esservi che larga condivisione: tentare di
snellire le procedure burocratiche che oggi
risultano defatiganti, senza per altro
garantire una maggiore qualità
dell’opera, per la cui realizzazione,
mediamente, è stato calcolato necessitino
2.410 giorni, di cui la metà impiegati per
attraversare il labirinto autorizzatorio.
Se lo sforzo è condivisibile, lascia qualche
perplessità il metodo: è sbagliato, ad
esempio, guadagnare tempo comprimendo le
possibilità d’interlocuzione degli enti
locali.
Invece di sottrarre loro capacità decisionale, si
dovrebbe fare giusto il contrario:
responsabilizzarli, individuando tempi
certi, pena l’attivazione
dell’intervento sostitutivo dello Stato
per l’espletamento delle procedure di
pianificazione, progettazione e
realizzazione degli interventi.
Tali fasi sono, viceversa, avocate all’autorità
centrale, non solo allorquando si tratti di
infrastrutture che attraversino più
territori regionali, per le quali, sebbene
si possano imporre tempi certi anche per la
concertazione interistituzionale, si
troverebbe una qualche utilità pratica, ma
anche per opere ricadenti in una sola
regione o provincia o, addirittura, in un
solo comune.
Caso quest’ultimo in cui l’organico inserimento
nei contesti urbani di riferimento, mediante
le indispensabili revisioni funzionali e
normative delle strumentazioni di piano,
appare indispensabile e non può essere
realizzato (quando raramente lo si fa)
sempre e soltanto ex post, ad opera conclusa
ed a criticità conclamata, ma on going.
Tutto ciò a fronte di finanziamenti
altrettanto certi. Aspetto che, invece,
ritorna incerto stando al decreto legge 194,
cosiddetto taglia spese, varato dal Governo
nel settembre 2002.
Si ha l’impressione che il principio di
sussidiarietà, ormai norma costituzionale,
sia stato puntualmente ribaltato: invece di
favorire l’azione decentrata,
contingentata nei tempi, con forme di
controllo e di possibilità di sostituzione
centralizzata, in un quadro definito di
trasferimenti finanziari, si propone
un’azione accentrata, senza forme efficaci
di controllo (il controllato ed il
controllore coincidono nel Governo) e senza
certezze finanziarie.
* * *
Le problematiche di natura territoriale che si
pongono per le singole opere contenute nel
programma Cipe pongono questioni relative a
scelta, localizzazione e impatto ambientale.
Nella citata delibera Cipe di individuazione delle
opere c’è di tutto: opere di cui si
discute, per le quali si cercano soluzioni
progettuali o si invocano le risorse
necessarie alla realizzazione da anni o
decenni.
Sono tutte utili e urgenti? La risposta del Governo
è stata aprioristicamente positiva.
Subito dopo il Governo ha fatto i suoi passi per la
richiesta di redazione, in sede europea, di
un master plan per gli assi di trasporto ed,
in ambito nazionale, per l’aggiornamento
del Pgt, così come recita l’art.1 del
collegato infrastrutturale (Ci). Ma nei
trascorsi 18 mesi di avvio della legislatura
attualmente in corso, non sarebbe stato
opportuno varare proprio quest’ultimo
strumento, indispensabile per conseguire
decisioni tecnicamente coerenti e
trasparenti?
E non si sarebbe dovuta compulsare la Commissione
europea, essendo favoriti anche dalla
presidenza italiana pro-tempore, per
l’inserimento di alcune opere considerate
strategiche come il ponte sullo stretto di
Messina, fiore all’occhiello della Lo, nel
piano dei trasporti europeo presentato nel
luglio 2002?
Ma restando al ponte: si tratta di un’opera
paradigmatica o emblematica? A valore
trasportistico o esclusivamente simbolico?
Da considerazioni tecnico-economiche rese note,
emerge che esso è chiamato a smaltire un
traffico valutato nell’ordine di un
ventesimo di quello ordinariamente
domandato, ad esempio, sul grande raccordo
anulare della capitale, con una offerta
infrastrutturale di gran lunga superiore a
qualsiasi altra esistente o progettata in
Italia.
Il sovra-dimensionamento può essere, tuttavia,
accettabilmente praticato in un quadro di
riassetto territoriale alla scala
interregionale (Calabria e Sicilia in
primis) e di programmazione economica di
livello europeo e mediterraneo che bisogna
cominciare a costruire con azioni
politico-istituzionali, se non prima, per lo
meno, insieme alla realizzazione
dell’infrastruttura stessa.
Ma, a quanto pare, la pianificazione territoriale è
estranea alle prospettive culturali del
Governo, coerentemente alla sua natura
liberista.
Si può riflettere, inoltre, sulla circostanza che a
ricoprire la carica di Ministro al ramo sia
stato chiamato un esperto costruttore di
infrastrutture (gallerie) e non di
pianificazione dei trasporti: ciò sta a
significare che, per supportare la
complessiva strategia di Governo, serve fare
le opere più che le opere servano.
Con ciò non si vogliono sostenere dubbi diffusi
sull’insieme delle opere accelerate dalla
Lo, quanto evidenziare il legittimo sospetto
che si sarebbe potuto effettuare, nei tempi
già trascorsi infruttuosamente a questo
fine, una programmazione più chiara,
articolata e convincente.
Alle questioni localizzative si è già accennato e
ci si ritorna solo per sostenere la scelta
federalista già operata in sede di riforma
costituzionale in merito alla legislazione
concorrente, che prevede la piena competenza
regionale relativamente all’ubicazione
anche delle grandi opere di rilievo
nazionale.
Queste ultime sono tali per l’impegno finanziario
necessario per la loro realizzazione e per i
benefici macroeconomici che conseguiranno a
favore del paese, ma sono riguardabili,
anche qualora non avessero soluzione di
continuità lungo il territorio nazionale,
come un insieme di opere interconnesse di
medie dimensioni, per le quali, provincia
dopo provincia, i temi dell’inserimento
territoriale, ambientale e funzionale non
possono che essere proficuamente gestiti in
prima battuta e direttamente dalle regioni,
anziché vederle giocare un ruolo di sponda,
sia pur reso obbligatorio dal Ci, in sede di
correzione della Lo.
Ci si augura, quindi, che la riforma della riforma
che il Governo ha dichiarato voler apportare
al Titolo V della Costituzione, non
riproponga la competenza statale progettuale
e realizzativa sulle infrastrutture di
rilevanza nazionale, ma solo la definizione
della strategia programmatica (piano
generale dei trasporti), e finanziaria ed i
poteri sostitutivi in caso di inerzia
locale. Va da sé che le problematiche
dell’impatto ambientale, ricondotte dalla
Lo alla piena sfera politica, sarebbero
condivisibili solo una volta risolti gli
aspetti connessi alle scelte ed alla
localizzazione delle infrastrutture nella
direzione prima auspicata.
Altrimenti, in assenza di protagonismo degli enti
locali, di programmazione nazionale e di
pianificazione territoriale, la gestione
politica della valutazione di impatto
ambientale così come prefigurata diventa
addirittura pleonastica.
* * *
E le opere medie e piccole, per le quali, un recente
studio di parte imprenditoriale2
dichiara rimanere
“poco corrisposto il bisogno urgente …
sia in termini di progettazione, sia di
realizzazione o di completamento”?
Il secondo corno della manovra governativa riguarda,
opportunamente, l’altra metà delle
infrastrutture. Una metà nominalistica e
non geometrica, in quanto le opere di
piccola e media dimensione rappresentano la
gran parte dell’investimento dello Stato,
nelle sue articolazioni territoriali, e
costituiscono il background nel quale si
inseriscono funzionalmente le grandi,
altrimenti destinate a sicura inefficacia.
Il Ci, sotto il profilo territoriale, segna alcuni
passi avanti ed altri indietro. Fra i primi
si annoverano l’esonero dalla norma
generale sui lavori pubblici delle opere di
urbanizzazione cosiddette a scomputo degli
oneri concessori, per importi sotto la
soglia Ue; il superamento del limite
trentennale per la durata delle concessioni;
il miglioramento delle procedure per il
project financing. Ai secondi, è
ascrivibile l'incrinazione della tenuta del
programma triennale delle opere pubbliche,
escludendo dalle sue previsioni i lavori al
di sotto dei 100.000 euro e consentendo
l’accompagnamento del solo studio di
fattibilità per quelli sotto il milione.
Perché questo stravolgimento, proprio ora
che i comuni, sia grandi sia piccoli,
iniziavano a mettere a regime procedure di
programmazione della spesa sulla base di
informazioni (i progetti preliminari) che
cominciavano ad uscire dalla precarietà
tecnica per approdare ad adeguatezza di
formulazione?
Da ultimo, se il Governo ha ritenuto affidabili le
nuove norme procedurali per i grandi lavori,
perché non le ha estese all’insieme di
tutte le nuove realizzazioni?
Si spera, per concludere, che gli sforzi tesi
all’accelerazione della spesa non siano
vanificati dalla sua potenziale inutilità.
Pericolo storicamente in agguato.
1 Lei non ha
paura delle grandi opere, del rischio
paventato dagli ambientalisti della grande
colata di cemento? “Io ho paura delle
infrastrutture solo quando sono fini a sé
stesse e non hanno senso per la collettività.
Ma chi potrebbe dire di essere contrario al
treno ad alta velocità tra Roma e Milano,
che consente di percorrere quella distanza
in tre ore, come già succede con il Tgv tra
Parigi e Marsiglia?”. E l’urbanistica,
che ruolo può giocare? “Nessuno.
L’urbanistica non c’è più. E’ morta.
Si è ostinata a pensare modelli per
porzioni limitate di territorio. Non ha
futuro” (Da un’intervista
all’architetto Massimiliano Fuksas a
IlSole24Ore del 23 agosto 2002).
2
Infrastrutture, servizi e amministrazione
che accompagna, Confartigianato, 2002. |