Numero 4 - 2001

 

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La pianificazione di area vasta tra riforma costituzionale e politiche neocentraliste


a cura di:

Giovanni Pellegrino


 

In occasione della nuova fase di intervento sul territorio in corso di attuazione da parte del governo in carica, ha sollecitato il parere di eminenti studiosi di pianificazione urbanistica. Quale ruolo per il sistema delle autonomie locali e per le regioni nella prospettiva federalista attualmente contrastata dalle politiche neocentraliste dello stato? roberto gerundo ha posto alcuni interrogativi a FRANCESCO DOMENICO MOCCIA DELL'UNIVERSITA' DI NAPOLI FEDERICO ii, A DINO BORRI DEL POLITECNICO DI BARI E A FRANCESCO INDOVINA DELL'ISTITUTO UNIVERSITARIO DI ARCHITETTURA DI VENEZIA CHE SONO INTERVENUTI MODERATI DA KETTY VOLPE.

 

 

 

 

 

 

 

Roberto Gerundo

 

In questa occasione discutiamo di pianificazione di area vasta tra riforma costituzionale e politiche neocentraliste, in quanto, a far data dalla primavera del 2001, nel nostro paese si sono susseguite rilevanti novità.

Chi si occupa di questo settore da un po’ di anni ha vissuto un fluire costante, se pur lento, della vicenda urbanistica italiana che, negli ultimi mesi, ha registrato un salto.

Questo lento fluire si era concluso con la riforma federalistica della Costituzione che ha individuato competenze dello Stato e ambiti di legislazione concorrente, affidando poi il resto e, in particolare i temi dell’assetto e della gestione del territorio, al meccanismo di decentramento amministrativo.

Si è registrato, si diceva, un salto, un momento di discontinuità, seguito da un certo numero di inadempienze. Per lunghi anni si è attesa la riforma urbanistica e si era arrivati ad un passo dal formalizzare uno schema innovativo di assetto e gestione possibile del territorio, che avrebbe utilizzato nuovi meccanismi. Purtroppo tutto ciò non si è concretizzato nella nuova legge urbanistica.

Ora siamo ad una riforma federalista della Costituzione, in contrapposizione alla quale si rilevano politiche neocentraliste per quanto riguarda l’assetto del territorio, che traspaiono dai provvedimenti legislativi che il governo si è apprestato ad emanare. Tutto ciò crea sicuramente un problema di rapporto fra Stato centrale e ambiti di gestione federale della cosa pubblica.

La prima questione che desidero porre agli intervenuti riguarda le implicazioni della riforma federalista sulla dimensione operativa della pianificazione di area vasta.

Nel fluire molto lento e lungo di riorganizzazione normativa nel nostro paese, culminato con la citata riforma costituzionale, vi è stato un ulteriore chiarimento, una definitiva affermazione della dimensione operativa e della competenza decentrata della pianificazione di area vasta, ovviamente bilanciata fra regione, province e comuni, e quali sono le novità che si colgono in queste ultime definizioni normative?

 

 

Francesco Domenico Moccia

 

La questione sollevata da Roberto Gerundo sulle competenze della pianificazione in un momento di conclamato federalismo, richiede una breve riflessione sulla stessa definizione di decentramento e sulla sua interpretazione, facendo anche un bilancio di che cosa è stato il decentramento fino ad oggi.

Ricordo che nel libro coloritamente intitolato da Vandelli, Sindaci e miti, si evidenziava come il processo di decentramento avvenisse con uno sbilanciamento tra poteri e responsabilità. Negli ultimi anni si è perseguita la tendenza fondamentale di spostare alla periferia le responsabilità e non far corrispondere ad esse una pari quantità di poteri.

Il bilanciamento tra i due aspetti, è una questione centrale per mettere effettivamente in grado gli enti locali di poter assolvere ai propri compiti, per cui, si capisce bene come negli enti decentrati si vivono con terrore i processi di decentramento, percepiti come tutta una serie di nuovi obblighi che debbano essere soddisfatti, con a disposizione mezzi sempre estremamente poveri e già insufficienti ad assolvere le precedenti ed ordinarie incombenze. Un aspetto fondamentale che il decentramento mette a fuoco è la sostanziale carenza in termini di risorse umane qualificate, organizzative e finanziarie degli enti locali capaci di affrontare con competenza una domanda sempre più complessa ed articolata di pianificazione.

Il secondo punto che desidero sottolineare è che il processo di decentramento è stato definito in diversi modi e ciascuno di essi comporta un diverso approccio alla pianificazione.

Un primo tipo di connotazione è stato il decentramento di carattere funzionale, una lista di compiti che dovevano essere trasferiti agli organi di livello inferiore.

Designo in questo modo quanto è stato attuato con le Bassanini, secondo una concezione che distribuiva i compiti dell’amministrazione dello Stato ai suoi diversi organi stabilendo a quale livello era più opportuno trattare determinate funzioni. Supponendo una sostanziale unità dell’organizzazione dello Stato e depoliticizzando le funzioni amministrative, questo approccio sembrava offrire una puntuale – addirittura puntigliosa – chiarificazione dei compiti e delle responsabilità, sottovalutando però la latente conflittualità che si evidenzia nei processi di implementazione delle politiche che comportano inevitabilmente interpretazioni e decisioni. Questi conflitti si vivono ormai patologicamente, ad esempio, nei rapporti tra enti locali e sovrintendenze negli organismi di concertazione durante i processi di pianificazione e di implementazione dei piani. La ripartizione per funzioni dei compiti dell’amministrazione pubblica si scontra con la plurifunzionalità del governo del territorio.

Un secondo criterio è quello della sussidiarietà introdotto dall’Unione europea per salvaguardare i poteri dei paesi membri ed esteso secondo il criterio della multilevel governance. Riconoscerei in questo principio una volontà di efficienza: gli organi superiori intervengono solo per quei compiti che i livelli inferiori non sono in grado di portare avanti. Ciò significa che è conveniente unire le forze per obiettivi più ambiziosi. Ma questa unione è rispettosa delle autonomie nella misura in cui esse sono già identificate ed operanti. Ovvero serve un criterio per determinarle, quando non sono tali e questo criterio non mi pare il principio di sussidarietà.

Un altro criterio che è preso meno in considerazione - a mio parere ingiustificatamente - è il criterio dell’interesse della comunità locale.

Questo criterio collega il governo locale ad una determinata comunità e lo legittima nelle sue attribuzioni come espressione di quel determinato gruppo di cittadini per le questioni che sono circoscritte alla loro identità ed ai motivi specifici della loro coesione. Esso individua una sfera di azione politica che può essere riconosciuta alla coltivazione delle diversità di questa comunità garantendo che non si ponga in conflitto, separandosi, rispetto alle comunità più vaste di cui entra a far parte – ne mantenga, in altri termini, l’apertura alla solidarietà ed alla comprensione.

Questo legame comporta che il processo di decentramento non può avvenire attraverso un atto unilaterale di devoluzione ma deve comportare un doppio movimento sia dall’alto che dal basso. Il primo teso a riconoscere poteri locali, il secondo teso a identificare la volontà di autogoverno della popolazione locale. In questo quadro i livelli di pianificazione possono trovare una determinazione non esclusivamente tecnico-razionale (a quale livello è più conveniente trattare un determinato problema).

Il livello del piano dovrà cercare ogni volta la legittimazione nella comunità a cui si riferisce (se esiste e per come si esprime) e troverà le sue limitazioni negli interessi che per quella comunità debbono essere protetti e sviluppati.

 

 

Dino Borri

 

La domanda che pone Roberto Gerundo non ha una risposta semplice ed è per questo motivo che preferirei astenermi dal fare delle associazioni di tipo biunivoco tra modello di governo ed esiti in termini di efficacia a livello di politiche territoriali.

L’Europa ci mostra un quadro molto articolato: vi è una tradizione di forte centralismo nella pianificazione, come ad esempio quella della Francia, dove ancora oggi le province (i prefetti) preparano i piani regolatori e li inviano ai comuni. Tuttavia questa antica tradizione, non sembra corrispondere ad un peggioramento delle città e della qualità dei paesaggi.

Vi sono ancora modelli accentrati, dove la pianificazione è nazionale, come in Olanda, ma anche molti altri decentrati quali quello tedesco e italiano.

In particolare, quello italiano è un modello fortemente decentrato attraverso le regioni.

Fin dagli anni settanta è divenuto un modello di decentramento molto spinto dei poteri territoriali e urbanistici, dove alcune cose sono andate bene e altre male.

Per esempio, il nostro paese ha dimostrato grandi capacità di conservare le sue città storiche e straordinaria incapacità nel costruire le città nuove dopo gli anni sessanta. L’Italia ha costruito le più brutte periferie europee, ha dimostrato spesso di non aver avuto la capacità di conservare i paesaggi e tutto ciò all’interno di un modello di decentramento.

Per questo motivo eviterei di fare un’associazione di tipo deterministico secondo la quale ad un determinato tipo di governo corrisponde un esito di un certo tipo.

Siamo in presenza di una relazione complessa nella quale forse è bene pronunciarsi in maniera più locale.

Una seconda considerazione tecnico-politica riguarda la curiosità del comportamento delle forze politiche conservatrici in Europa.

Ad esempio, la Thatcher, durante il suo lungo periodo di governo, esaltando principalmente il mercato, un po’ come il governo polista oggi in Italia, ha attivato un fortissimo accentramento del governo territoriale. Il periodo thatcheriano in Inghilterra ha segnato un neocentralismo molto forte. Ciò sembra essere una cosa alquanto curiosa se si considera che i governi di tipo liberale, orientati verso il mercato, dovrebbero essere governi che allentano i sistemi di pianificazione centralizzati.

Le tendenze neocentraliste del governo Berlusconi sono molto simili a quelle del periodo thatcheriano. Il governo Thatcher, infatti, ha smantellato buona parte delle autonomie locali, per cui l’attenzione al mercato si è configurata in termini contraddittori, con una forte volontà di starci dentro, di governarlo dal centro e, quindi, di non accettarne quei caratteri di mobilità e libertà che più gli si addicono.

La questione è abbastanza complessa e a ciò si aggiunge un ulteriore elemento di complessità e confusione derivante dal fatto che i nostri pianificatori sono tecnici o politici che hanno giustamente smantellato i sistemi di comando e di controllo, che hanno praticamente costituito l’essenza della pianificazione degli anni trenta fino a tutti gli anni sessanta.

A partire dagli anni settanta, ma oggi in maniera molto definita, quello che si chiamava comando e controllo è stato sostituito da un modello di partecipazione e di azione strategica nel quale comunità allargate fatte di tecnici esperti, ma anche di non esperti, di gente comune tracciano insieme il cammino dei propri ambienti di vita e lo tracciano non in maniera fumosa, ma con una piena consapevolezza di tutti i momenti, di tutte le fasi, di tutte le operazioni che devono riempire lo spazio che esiste tra gli obiettivi e i risultati.

Questo smantellamento del sistema di comando e controllo, tipico della pianificazione di un tempo, questo maggiore potere delle comunità locali, si scontra attualmente con una esigenza di tutela, o meglio di qualche attenzione, più centralizzata per il tema ambientale in quanto esso non consente un totale decentramento. Allora ancora una volta c’è una contraddizione. Sulla dimensione socio-economica e sulla dimensione politica, il decentramento è benefico: dopo aver giustamente smantellato il sistema di comando e controllo, le comunità si sono rafforzate, sono divenute protagoniste della loro vita, ma per la dimensione ambientale dei sistemi locali vi sono grossi rischi se non ci sarà un’attenzione coordinata dall’alto.

 

 

Francesco Indovina

 

In merito alla domanda posta da Gerundo, vorrei sottolineare che l’attività di organizzazione del territorio non è un’attività di organizzazione ma, specificatamente, un’attività di decisione politica. In questo senso mi pare di poter convenire con Borri che, estremizzando, affermava: decentramento o non decentramento è indifferente rispetto al contenuto politico delle decisioni che vengono prese.

Il decentramento, per un lungo periodo, è stato guidato da una tensione di unità: il senso del decentramento era di collegare più strettamente i processi di pianificazione alle specificità di ogni luogo, di ogni regione, nell’ambito di un’idea comune: che il territorio era un bene collettivo, che di questo territorio bisognava fare il miglior uso possibile secondo parametri condivisi.

Questa, mi sembra, essere stata l’idea guida di tante legislazioni regionali (che poi la traduzione pratica corrispondeva solo in parte a questa opzione generale è altra questione, non marginale, ma che attiene ad un altro tipo di ragionamento).

Bisogna osservare che oggi non è più così, questa idea comune non c’è più.  Non solo oggi la geografia legislativa appare molto articolata ma è prevedibile che nel futuro la diversità potrà essere molto più accentuata, quasi una disarticolazione.

Una differenziazione che non solo risponde a specificità di luogo, ma soprattutto risponde a idee di uso del territorio molto diverse (cito un caso per tutti: il senso dell’abuso del territorio che apparirà nella legislazione della Sicilia, risulterà non conforme, non solo a quello delle altre regioni, ma soprattutto a qualsiasi senso comune di salvaguardia del territorio e dell’ambiente).

Potremmo dire cinicamente che ogni popolazione avrà il territorio che si merita, ma il problema è che il tipo di territorio che risulterà non appare come decisione delle popolazioni, ma di gruppi di potere forti (non necessariamente di forza economica, ma anche di forza elettorale); non solo, ma gli effetti di una data organizzazione dello spazio di una regione travalica la dimensione della regione stessa per tracimare nelle regioni circostanti.

Infatti, i processi di pianificazione del territorio non sono indifferenti ai processi di sviluppo, non sono indifferenti ai processi di equilibrio, non sono indifferenti ai processi di qualità della vita quotidiana.

Da questo punto di vista il decentramento comincia ad essere un problema abbastanza complicato da gestire politicamente.

Qualcuno prima faceva riferimento ad una probabile riduzione, per così dire, della libertà di stampa, prevedendo periodi più o meno oscuri, ma una ipotesi di questo tipo non vale per singoli segmenti della società, vale per tutti i segmenti, per la giustizia, per la scuola, per la salute e vale anche per il territorio. In questo momento mi sembra sia possibile cogliere un’unità di intenti, cosa estremamente preoccupante.

 

 

Roberto Gerundo

 

Evitando di connotare decentramento e/o accentramento di competenze con determinate estrazioni politiche o di orientamento culturale, in quanto il neocentralismo è stato negli anni passati prodotto dalle più disparate e diverse collocazioni politiche, si può sostenere comunque che oggi, relativamente all’assetto del territorio, ci troviamo in una fase di politica neocentralista?

La conferenza delle regioni, sulla base di rilevamenti resi noti all’inizio del 2002, annovera circa 28 provvedimenti governativi che sono discordanti dalla riforma costituzionale, nel senso che si appropriano di poteri, in maniera diretta o surrettizia, che invece dovrebbero essere decentrati.

Delle circa 200 opere che la legge obiettivo propone, molte di esse sono puntuali che, certamente, si possono considerare sempre facenti parte di una piattaforma logistica unitaria, qual è il nostro paese, ma che evidentemente sono abbastanza specificamente individuate sul territorio, collocate a livello strettamente provinciale e regionale, se non addirittura comunale.

Ma anche il vizio di legiferare nel dettaglio delle procedure, che c’è sempre stato, adesso si carica con quella parte della legge obiettivo che si occupa di procedimenti amministrativi in termini edilizi e che si incontra o si scontra o fiancheggia una disciplina recentemente varata dalla Regione Campania (la legge 19/2001), che si occupa delle stesse cose. Ma allora, queste politiche neocentraliste sono il frutto di una necessità?

Tutti ricordano che negli anni cinquanta le autostrade nel nostro paese furono realizzate in pochi anni. Oggi non siamo in grado più di realizzare grandi opere, anche se c’è prioritariamente da capire quali di esse siano necessarie e quali lo sono di più.

Si evidenzia, tuttavia, un problema di mancanza di rapporto fra la prospettiva di trasformazione urbanistica e i tempi in cui poter toccare con mano tali realizzazioni.

Il neocentralismo è, quindi, una necessità o un arretramento, nello stato in cui versa l’amministrazione pubblica? Ma c’è anche il rischio di inaugurare un regime di straordinarietà permanente che tra l’altro, in particolare per quanto riguarda la Regione Campania e buona parte del Mezzogiorno, si è già vissuto e continua a viversi anche a venti anni dal terremoto del 1980, alimentato, di volta in volta, da altre vicende che vengono affrontate facendo ricorso a poteri commissariali. Non siamo in una condizione in cui questi poteri straordinari, di fatto, dal punto di vista procedurale e normativo e anche nelle individuazioni delle trasformazioni urbanistiche da mettere in campo, possono precostituire una sorta di straordinarietà permanente per il nostro paese?

 

 

Francesco Domenico Moccia

 

Tempererei un poco questa visione di oscillazione, anche molto occasionale, del processo di decentramento – accentramento, perché, secondo me, ci sono delle masse inerti che in realtà condizionano fortemente quest’aspetto e in qualche modo mettono in gioco delle altre variabili oltre quelle strettamente politiche messe in evidenza da Gerundo. Faccio riferimento alla struttura burocratica dello Stato. Di fatto, politiche centraliste e politiche di decentramento, fanno i conti con un’organizzazione dello Stato che ha una sua tradizione e che in qualche modo fa da massa inerte che approfitta dei propri livelli di autonomia e della sua capacità di iniziativa per portare avanti delle contromisure rispetto agli indirizzi del governo e del parlamento.

Ad esempio, si può ricordare come la burocrazia del Ministero dei lavori pubblici, in una fase in cui c’era un indirizzo politico di deciso decentramento, ha intrapreso tutta una serie di programmi (Prusst, Pru e tutta la progettazione integrata) che tendevano, di fatto, a riaffermare un ruolo di guida che probabilmente è stato anche estremamente positivo, perché ha costituito un momento di svecchiamento e innovazione della cultura urbanistica e pianificatoria italiana, ma che aveva certamente anche un altro aspetto: cercare di ritrovare un ruolo in un momento di cambiamento politico.

Vedendo poi le cose dal punto di vista opposto, esaminando la legge obiettivo, vediamo come un’elevata progettualità locale ha, di fatto, condizionato l’azione del governo e, quindi, dove c’erano comunità locali con idee chiare, piani costruiti, proposte in atto, queste poi sono finite nella lista dei progetti da fare perché rappresentano, in fondo, il materiale disponibile.

Quindi, credo che questa sia una dinamica complessa che si gioca sui periodi lunghi, non sulle contingenze politiche, che possono dare delle svolte, delle accentuazioni, ma poi in realtà nella sua dimensione organizzativa, che è poi quella che conta nella quotidianità della gestione del territorio come della gestione politica, è un’altra cosa.

 

 

Dino Borri

 

Rispondendo alla prima parte della domanda, certamente il neocentralismo non è una necessità, perché se così fosse guarderebbe alla dimensione che più ha bisogno di centralismo o di neocentralismo, ovverosia alla dimensione ambientale.

È questa l’unica dimensione, a mio avviso, delle politiche attuali che richiede un certo neocentralismo.

Nessuno accetta di avere inceneritori o altre attività inquinanti vicino casa, ma esse devono pur essere localizzate e richiedono una politica coordinata.

Se ci fosse un’attenzione ambientale, allora si potrebbe pensare che questo neocentralismo di ritorno sia necessario; ma non è così, né può essere determinato perché la politica ambientale è trascurata a favore di una politica delle infrastrutture che, peraltro, non prende in considerazione alcune cose rilevanti dal punto di vista ambientale.

Il neocentralismo non deriva dalla ricerca dell’efficienza e neanche, da questo punto di vista, può esservi una motivazione, perché l’efficienza dei programmi degli anni cinquanta derivava dal fatto che i governi dell’epoca furono intelligenti nel creare dei modelli basati su agenzie che poi sono stati aboliti. La Cassa per il Mezzogiorno è stata smantellata. Erano quelli modelli Keynesiani che creavano una risposta organizzativa al problema specifico. Tutti i grandi enti di successo, le grandi organizzazioni di successo nel campo del territorio sono state create giustamente su questo modello. L’efficienza derivava da quel modello, mentre nell’attuale neocentralismo il modello dell’agenzia è assente. Ritengo, quindi, che non ci sia né un problema di ricerca dell’efficienza, né una necessità di controllo ambientale, perché non c’è traccia di tutto questo. Direi, invece, che questo ritorno di neocentralismo è preoccupante perché si indeboliscono i soggetti locali.

Per certi versi, il forte decentramento dei poteri urbanistici e territoriali avviatosi negli anni settanta, in modo originale in Italia, non è stato usato benissimo; per esempio, le regioni verso i comuni hanno tante colpe, hanno fatto perdere ai comuni e alle comunità locali moltissimo tempo, però sono state anche capaci di generare un’esperienza urbanistica rilevante, per esempio di legislazione urbanistica.

Alcune regioni hanno avuto la capacità di creare leggi di seconda generazione di straordinario interesse in Europa, basti pensare alla Regione Toscana. Quindi, si riscontrano luci ed ombre nel comportamento delle regioni e, considerando le ombre dell’azione del governo regionale, ad esempio la loro azione un po’ prevaricatrice e disattenta verso i comuni, direi che non meritano, né le regioni né i comuni, questo neocentralismo che indebolisce i soggetti locali, privandoli in qualche modo di risorse proprio quando questi dovrebbero avere più attenzione dallo Stato nella fase di una politica negoziata per il territorio, di un’urbanistica concertata.

Mi sembra una scelta improvvida indebolire le comunità locali quando la pianificazione sta diventando politica negoziata in tutto il mondo. Tra l’altro, la scoperta e la pratica dei progetti locali è estremamente vantaggiosa, pur rimanendo convinto che nell’ambito ambientale è necessaria una politica neocentralista pur essendo altrettanto convinto della validità della pratica dei progetti locali. Infine, ritengo preoccupante il fatto che questo neocentralismo delle infrastrutture non consideri alcune straordinarie debolezze del nostro paese, come i trasporti su ferro nelle città, in cui l’Italia mostra un arretramento spaventoso rispetto all’Europa e non sembra avere dei segnali coerenti, su questo problema, dal neocentralismo delle infrastrutture.

 

 

Francesco Indovina

 

Credo che gli interventi neocentralisti siano divisibili in due famiglie.

Quelli dei piani complessi che sono basati sull’ipotesi che la pianificazione è insufficiente e rigida e che deve essere resa flessibile e dinamica e coinvolgere i privati; in questo caso il centro si preoccupa molto poco degli obiettivi, la sua attenzione è al fare, incentivando i privati con semplificazione di procedure e allettando le periferie sulla base di finanziamenti.

Si tratta di una piega orribile, quasi sconcertante; se alcuni di questi interventi avranno un risultato positivo sarà del tutto casuale, in quanto l’obiettivo sotteso è smantellare qualsiasi idea che l’organizzazione del territorio debba presentare coerenza e qualità in ambito di area vasta o di area piccola. Per questo tipo di intervento si utilizzano come spinta anche i finanziamenti della comunità europea.

L’altro settore è quello delle infrastrutture e anche qui siamo ad un giro di boa. Non è il piano dell’ammodernamento del paese, ma quello di premiare alcuni interessi, cosa molto più facile in modo centralizzato e autoritario. Cito uno per tutti, il ponte sullo stretto di Messina, che non costituisce, a detta di nessuno, un ammodernamento del paese anche se per realizzarlo il governo nomina un commissario ad acta.

A fronte di problemi storici legati alle infrastrutture, quali la mobilità interna alle grandi aree urbane, la mobilità su ferro rispetto a quella su gomma, la mobilità via mare rispetto a quella via terra, che non sono stati mai affrontati (anche se sempre affermati), si avviano interventi particolari (ma di grande dimensione) premiando particolari interessi.

Questo tocca un nervo scoperto della nostra situazione attuale: le determinanti delle scelte politiche sono tutte riferite a interessi molto particolari (non si tratta neanche, in senso proprio, di interessi di classe, ma di gruppi molto ristretti, di amici).

Da questo punto di vista, le azione neocentraliste attivate non appaiono affatto condivisibili, mentre non è un caso che azioni di centralizzazioni necessarie latitano. Per esempio, mi pare ci possa essere un consenso generale sulla necessità di una centralizzazione per quanto riguarda gli aspetti ambientali e relativi ai beni storici e culturali; infatti, molte comunità, soprattutto quelle in difficoltà, individuano in queste risorse l’occasione di rilancio con una loro valorizzazione economica che non corrisponde quasi mai con la loro salvaguardia. Va riaffermato, tuttavia, ancora una volta che centralizzazione e decentramento non sono valori in sé, ma dipendono dalle relative scelte politiche.

 

 

Roberto Gerundo

 

Gli ultimi due temi da trattare riguardano la programmazione negoziata e il ruolo delle regioni.

La programmazione negoziata, un’esperienza forte della seconda metà degli anni novanta, sembra abbia cominciato a incontrare una sorta di diffidenza governativa, anche se appare strano che ciò avvenga in un clima di propensione al liberismo economico, in cui si dovrebbe essere ben lieti che ci possa essere una dinamica locale sufficientemente libera dai cosiddetti lacci e lacciuoli.

Ci troviamo in una condizione in cui sembrerebbero emergere preoccupazioni forti nei confronti dei processi di programmazione negoziata, nella fattispecie i patti territoriali. Lo stesso vale per il ruolo delle regioni. Fino ad oggi, le regioni, rispetto a questo clima, indipendentemente dalla collocazione politica, hanno protestato ritenendo invadente il comportamento del Governo attraverso gli atti legislativi che ha proposto e fatto approvare dal Parlamento.

Per altro, i processi di pianificazione territoriale, che sono tipicamente di competenza dei comuni e della provincia, per l’attività di coordinamento, vedono un indebolimento di tali soggetti che più di tutti vengono penalizzati nella loro autonomia decisionale in termini di capacità e di possibilità di determinare la morfologia, l’assetto e l’organizzazione del territorio.

E le regioni, che hanno recepito in maniera positiva i finanziamenti offerti dal Governo, potranno diventare uno snodo fondamentale, un nuovo baricentro di mediazione fra azione statale neocentralista e autonomia decisionale di province e comuni?

 

 

Francesco Domenico Moccia

 

Parlando del ruolo della regione, con riferimento alla Campania, bisogna dare atto e merito all’assessore regionale Marco Di Lello, di aver lavorato ad una legge urbanistica regionale che sarà proposta al dibattito consiliare.

Questa proposta è l’elemento di riferimento fondamentale in cui si inquadrano tutti i tipi di problematiche messi in evidenza da Roberto Gerundo, quindi è opportuno soffermarsi criticamente su di essa.

Lo schema di legge urbanistica regionale presenta una particolare eleganza formale nel prevedere che i diversi livelli di pianificazione abbiano tutti le medesime articolazioni nella forma del piano, tra parte strutturale e programmatica. Il piano regionale, il piano provinciale, il piano comunale, mantengono tutti questa elegante simmetria, il che potrebbe però oscurare il ruolo specifico dei diversi livelli nel sistema di pianificazione oltre a moltiplicare gli strumenti di pianificazione.

Questo richiede una più chiara riflessione e valutazione di quali siano quegli aspetti che debbono essere di competenza della regione, quali delle province, quali dei comuni e se vi debbano essere ulteriori livelli intermedi di pianificazione (comunità montane, associazioni di comuni o sistemi locali di sviluppo). Se ciò avvenisse, allora non sarebbe necessario mantenere una forma del piano uguale per ogni livello. Quando saremo tutti d’accordo che il fondamentale piano di area vasta è quello provinciale, nel senso che assume il valore di piano paesistico, coordina la pianificazione settoriale ed organizza la localizzazione di servizi ed infrastrutture di livello sovracomunale, allora sarà evidente il suo carattere eminentemente strutturale che potrebbe sostituire anche la parte strutturale dei piani comunali specialmente dei comuni più piccoli (con un piccolo strappo rispetto al napoleonico principio amministrativo dell’uniformità suggerito dal realismo delle risorse disponibili). A quel punto, essendosi il piano regionale liberato degli aspetti strutturali, ma dovendo mantenere, ad esempio, una presenza degli aspetti territoriali nelle politiche di sviluppo, come negli altri settori di programmazione regionale, assumerà più chiaramente un carattere di indirizzo programmatorio con un valore indicativo sulla pianificazione sott’ordinata. La frequente pratica di sovrapposizione delle competenze tra i piani di diverso livello, che si verifica anche nelle regioni che più decisamente hanno attuato il decentramento, suggerisce di prestare molta attenzione alla chiarificazione della distribuzione dei compiti.

Un secondo aspetto della legge regionale che vorrei commentare riguarda i controlli sui piani sott’ordinati e sulla loro approvazione. Qui la regione potrebbe compiere un piccolo sforzo per dare maggiore autonomia ai comuni, perché nel momento in cui afferma il principio che è sotto scrutinio solamente la congruenza dei piani sottordinati rispetto ai piani sovraordinati, allora le conferenze di servizi dovrebbero essere degli strumenti sufficienti per poter verificare ciò e sanare gli eventuali conflitti che dovessero insorgere tra il piano comunale e provinciale. A questo punto sarebbe anche ammissibile che ad approvare il piano urbanistico comunale sia il consiglio comunale che l’ha adottato ed ha discusso le osservazioni, evitando la delibera di giunta provinciale. Questa ulteriore fiducia nei confronti della comunità locale potrebbe essere un generoso atto della regione.

Infine, riguardo alla programmazione negoziata e, in particolare, i patti territoriali, è opportuno fare un’ulteriore riflessione intorno a questo momento di pianificazione che tende a riprodurre un livello intermedio nel sistema di pianificazione regionale, cercando di fare un bilancio di che cosa di positivo hanno portato queste esperienze, valorizzandole all’interno del sistema di pianificazione.

Ciò dà la possibilità di agganciarmi al problema della segmentazione degli interessi.

La risposta alla segmentazione degli interessi ha una duplice possibilità, da un lato un lavoro di integrazione degli interessi all’interno delle comunità e dall’altra un richiamo delle parti alle loro responsabilità. Entrambi questi momenti sono costitutivi dell’attività di pianificazione. Nelle ricerche che sono state condotte sulle modalità di attuazione e sui risultati dei patti territoriali, è descritto un quadro molto vario dipendente dagli attori in gioco. Il partenariato si è costituito ed ha agito in maniera responsabile o opportunistica. Solo nel secondo caso si è potuto innescare un processo di integrazione degli interessi della società segmentata. Spesso questo processo si è limitato ad alcune élite o a sfere corporative quando i programmi erano circoscritti a settori delimitati. Altre volte, invece, le ristrette rappresentanze, direttamente coinvolte, hanno allargato il raggio della visione ed il livello di coinvolgimento portando a sintesi sempre più inclusive. In questo senso si sono mossi i tavoli di concertazione e l’uso dei metodi della pianificazione strategica ha fornito un supporto tecnico e teorico che spingeva proprio in quella direzione.

Debbo dire, che soprattutto nel periodo iniziale, alle iniziative dal basso non corrispondeva una pari attenzione dall’alto. Provincia e regione hanno per lungo tempo abdicato ai loro compiti di coordinamento ed indirizzo lasciando senza governo e, quindi, senza concertazione, la competizione tra i sistemi locali con evidenti sovrapposizioni ed incompatibilità di programmi tra di loro. In special modo la regione ha evitato di formulare una propria strategia dello sviluppo (stabilire eventuali settori o aree strategiche, privilegiare l’equilibrio territoriale, considerare irrinunciabili i principi dello sviluppo sostenibile o qualsiasi altra opzione o gerarchia di opzioni). Ho l’impressione che nella pianificazione dal basso sia annidato un invisibile ma grave pericolo: la deresponsabilizzazione del centro, la copertura alla incapacità di prendere decisioni.

Il venir meno di una visione d’insieme capace di rendere sinergici i protagonismi locali sembra essere altrettanto dannoso di un piano centralistico, tecnico-razionale, che cali dall’alto senza il coinvolgimento degli attori locali e la valorizzazione delle risorse endogene.

Per la pianificazione territoriale, nella nostra regione, credo che i patti territoriali abbiano rappresentato un importante passo avanti perché:

1. hanno innovato, con la diffusione della pianificazione strategica, i modi di pianificare;

2. hanno introdotto il livello intermedio dei sistemi locali di sviluppo come quello più idoneo a una pianificazione territoriale integrata e diffusa anche al di fuori degli ambiti metropolitani;

3. hanno costituito possibilità di incontri che si sono anche trasformati in organizzazioni stabili o in evoluzione (come le agenzie di sviluppo) che si propongono di praticare costantemente la pianificazione per un’azione collettiva di supporto ai territori, in contrasto con una linea di incentivi individuali ed automatici che la esclude.

 

 

Dino Borri

 

Personalmente non avrei dubbi sul fatto che le regioni resisteranno e resteranno.

Siamo in una fase di indebolimento degli Stati nazionali, anche se da queste ultime vicende, anche in riferimento alla moneta unica, alcuni recalcitrano e alcune cose non sono del tutto scontate. La tendenza fondamentale, però, sembra essere un indebolimento dello Stato nazionale e di un emergere degli spazi locali, dove il locale va dalle regioni ai comuni, in questa nuova Europa che si sta costruendo con sempre maggiore evidenza e con sempre maggiore forza.

Quindi non c’è dubbio che le regioni saranno snodi fondamentali, addirittura non più tra lo Stato nazionale - magari come questo Stato un po’ convinto di poter giocare ancora un ruolo neocentralista - e i livelli locali, ma tra questi ultimi e i livelli ancora più estesi dello stesso Stato nazionale.

Le regioni sono fondamentali e, fra l’altro, quello che si sta formando è una rete.

Difatti l’Europa non è altro che una rete di enti locali che cooperano, che creano delle sinergie. Le regioni sono spazi di identità e quanto più sapranno conservare tali spazi di identità in modo globale, quanto più sapranno conservare le loro tradizioni, le loro culture, i loro paesaggi, le loro straordinarie città, quanto più sapranno legarsi su questa forza della loro identità, tanto più saranno efficienti e efficaci.

È una sfida sicuramente complicata, ma la dimensione locale è quella che più di tutti può raccogliere questa sfida.

Infine, condivido l’interesse per il problema della segmentazione degli interessi, ma richiede più tempo per discuterne. Il concetto di bene pubblico, di interesse generale, si è in qualche modo ridefinito ed emergono segmentazioni di interessi che creano problemi e incomprensioni.

 

 

Francesco Indovina

 

Con la pianificazione (centralizzata e no) si possono fare delle cose buone e delle cose pessime, anzi storicamente se ne sono fatte di buone e di pessime, anche i campi di sterminio sono stati perfettamente pianificati. Con la pianificazione dialogante si possono fare delle cose buone e delle cose pessime. In Sicilia, per esempio, stanno facendo delle cose pessime: l’abusivismo acquisisce il connotato di azione di trasformazione del territorio anche nelle aree archeologiche.

Quindi non è un problema di procedura, ma piuttosto di tensione e di affermazione o meno di un’etica del territorio. Una pianificazione guidata da tale etica (che significa tante cose che non si possono in questa sede esplicitare) in qualsiasi sua forma (estremizzo) realizza risultati buoni, in sua assenza qualsiasi forma di pianificazione crea danni e disastri.

Credo che varrebbe la pena di porre attenzione, e forse la rivista può dare un grosso contributo, sul tema della politica comunitaria e della sua influenza.

Lo schema di sviluppo dello spazio comunitario ha messo in evidenza, per esempio, che il 14% delle popolazioni di tale spazio è fortemente concentrato in relazione alle attività economiche. Un dato che pone in modo drammatico il problema del rapporto centro-periferia e su questa base la comunità europea pensa che ci siano temi di rilievo sui quali investire in termini di conoscenza, di risorse e in termini di indirizzo. Si tratta dei temi relativi alle regioni di medio sviluppo, alla questione urbana, alla diversificazione delle zone rurali, alle zone di ristrutturazione industriale, alle zone con grandi handicap geografici.

Nel rapporto centro-periferia, il ruolo e la funzione di un centro sempre più lontano è quello di trovare punti di equilibrio più avanzati rispetto a quelli di un centro più locale, dove gli interessi sono più incarnati e quindi creano difficoltà, mentre a livello più alto può essere meglio aver trovato un equilibrio, un’indicazione più puntuale e più precisa di cui gli interessi locali devono tener conto. Credo che forse dal livello europeo possono venire delle indicazioni molto importanti, proprio per le tematiche di pianificazione di area vasta che costringono a ripensare ad alcune questioni fondamentali, allentando un po’ la tensione della relazione fra interessi fortemente frammentati.

 

 

 

* Il forum si è tenuto il 15 gennaio 2002, presso la Provincia di Salerno, in occasione della presentazione del n. 3/2001 di

 

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