Roberto Gerundo
In questa occasione discutiamo di pianificazione di area vasta tra
riforma costituzionale e politiche
neocentraliste, in quanto, a far data dalla
primavera del 2001, nel nostro paese si sono
susseguite rilevanti novità.
Chi si occupa di questo settore da un po’ di anni ha vissuto un
fluire costante, se pur lento, della vicenda
urbanistica italiana che, negli ultimi mesi,
ha registrato un salto.
Questo lento fluire si era concluso con la riforma federalistica della
Costituzione che ha individuato competenze
dello Stato e ambiti di legislazione
concorrente, affidando poi il resto e, in
particolare i temi dell’assetto e della
gestione del territorio, al meccanismo di
decentramento amministrativo.
Si è registrato, si diceva, un salto, un momento di discontinuità,
seguito da un certo numero di inadempienze.
Per lunghi anni si è attesa la riforma
urbanistica e si era arrivati ad un passo
dal formalizzare uno schema innovativo di
assetto e gestione possibile del territorio,
che avrebbe utilizzato nuovi meccanismi.
Purtroppo tutto ciò non si è concretizzato
nella nuova legge urbanistica.
Ora siamo ad una riforma federalista della Costituzione, in
contrapposizione alla quale si rilevano
politiche neocentraliste per quanto riguarda
l’assetto del territorio, che traspaiono
dai provvedimenti legislativi che il governo
si è apprestato ad emanare. Tutto ciò crea
sicuramente un problema di rapporto fra
Stato centrale e ambiti di gestione federale
della cosa pubblica.
La prima questione che desidero porre agli intervenuti riguarda le
implicazioni della riforma federalista sulla
dimensione operativa della pianificazione di
area vasta.
Nel fluire molto lento e lungo di riorganizzazione normativa nel nostro
paese, culminato con la citata riforma
costituzionale, vi è stato un ulteriore
chiarimento, una definitiva affermazione
della dimensione operativa e della
competenza decentrata della pianificazione
di area vasta, ovviamente bilanciata fra
regione, province e comuni, e quali sono le
novità che si colgono in queste ultime
definizioni normative?
Francesco Domenico Moccia
La questione sollevata da Roberto Gerundo sulle competenze della
pianificazione in un momento di conclamato
federalismo, richiede una breve riflessione
sulla stessa definizione di decentramento e
sulla sua interpretazione, facendo anche un
bilancio di che cosa è stato il
decentramento fino ad oggi.
Ricordo che nel libro coloritamente intitolato da Vandelli, Sindaci e
miti, si evidenziava come il processo di
decentramento avvenisse con uno
sbilanciamento tra poteri e responsabilità.
Negli ultimi anni si è perseguita la
tendenza fondamentale di spostare alla
periferia le responsabilità e non far
corrispondere ad esse una pari quantità di
poteri.
Il bilanciamento tra i due aspetti, è una questione centrale per
mettere effettivamente in grado gli enti
locali di poter assolvere ai propri compiti,
per cui, si capisce bene come negli enti
decentrati si vivono con terrore i processi
di decentramento, percepiti come tutta una
serie di nuovi obblighi che debbano essere
soddisfatti, con a disposizione mezzi sempre
estremamente poveri e già insufficienti ad
assolvere le precedenti ed ordinarie
incombenze. Un aspetto fondamentale che il
decentramento mette a fuoco è la
sostanziale carenza in termini di risorse
umane qualificate, organizzative e
finanziarie degli enti locali capaci di
affrontare con competenza una domanda sempre
più complessa ed articolata di
pianificazione.
Il secondo punto che desidero sottolineare è che il processo di
decentramento è stato definito in diversi
modi e ciascuno di essi comporta un diverso
approccio alla pianificazione.
Un primo tipo di connotazione è stato il decentramento di carattere
funzionale, una lista di compiti che
dovevano essere trasferiti agli organi di
livello inferiore.
Designo in questo modo quanto è stato attuato con le Bassanini,
secondo una concezione che distribuiva i
compiti dell’amministrazione dello Stato
ai suoi diversi organi stabilendo a quale
livello era più opportuno trattare
determinate funzioni. Supponendo una
sostanziale unità dell’organizzazione
dello Stato e depoliticizzando le funzioni
amministrative, questo approccio sembrava
offrire una puntuale – addirittura
puntigliosa – chiarificazione dei compiti
e delle responsabilità, sottovalutando però
la latente conflittualità che si evidenzia
nei processi di implementazione delle
politiche che comportano inevitabilmente
interpretazioni e decisioni. Questi
conflitti si vivono ormai patologicamente,
ad esempio, nei rapporti tra enti locali e
sovrintendenze negli organismi di
concertazione durante i processi di
pianificazione e di implementazione dei
piani. La ripartizione per funzioni dei
compiti dell’amministrazione pubblica si
scontra con la plurifunzionalità del
governo del territorio.
Un secondo criterio è quello della sussidiarietà introdotto
dall’Unione europea per salvaguardare i
poteri dei paesi membri ed esteso secondo il
criterio della multilevel governance.
Riconoscerei in questo principio una volontà
di efficienza: gli organi superiori
intervengono solo per quei compiti che i
livelli inferiori non sono in grado di
portare avanti. Ciò significa che è
conveniente unire le forze per obiettivi più
ambiziosi. Ma questa unione è rispettosa
delle autonomie nella misura in cui esse
sono già identificate ed operanti. Ovvero
serve un criterio per determinarle, quando
non sono tali e questo criterio non mi pare
il principio di sussidarietà.
Un altro criterio che è preso meno in considerazione - a mio parere
ingiustificatamente - è il criterio
dell’interesse della comunità locale.
Questo criterio collega il governo locale ad una determinata comunità
e lo legittima nelle sue attribuzioni come
espressione di quel determinato gruppo di
cittadini per le questioni che sono
circoscritte alla loro identità ed ai
motivi specifici della loro coesione. Esso
individua una sfera di azione politica che
può essere riconosciuta alla coltivazione
delle diversità di questa comunità
garantendo che non si ponga in conflitto,
separandosi, rispetto alle comunità più
vaste di cui entra a far parte – ne
mantenga, in altri termini, l’apertura
alla solidarietà ed alla comprensione.
Questo legame comporta che il processo di decentramento non può
avvenire attraverso un atto unilaterale di
devoluzione ma deve comportare un doppio
movimento sia dall’alto che dal basso. Il
primo teso a riconoscere poteri locali, il
secondo teso a identificare la volontà di
autogoverno della popolazione locale. In
questo quadro i livelli di pianificazione
possono trovare una determinazione non
esclusivamente tecnico-razionale (a quale
livello è più conveniente trattare un
determinato problema).
Il livello del piano dovrà cercare ogni volta la legittimazione nella
comunità a cui si riferisce (se esiste e
per come si esprime) e troverà le sue
limitazioni negli interessi che per quella
comunità debbono essere protetti e
sviluppati.
Dino Borri
La domanda che pone Roberto Gerundo non ha una risposta semplice ed è
per questo motivo che preferirei astenermi
dal fare delle associazioni di tipo
biunivoco tra modello di governo ed esiti in
termini di efficacia a livello di politiche
territoriali.
L’Europa ci mostra un quadro molto articolato: vi è una tradizione
di forte centralismo nella pianificazione,
come ad esempio quella della Francia, dove
ancora oggi le province (i prefetti)
preparano i piani regolatori e li inviano ai
comuni. Tuttavia questa antica tradizione,
non sembra corrispondere ad un peggioramento
delle città e della qualità dei paesaggi.
Vi sono ancora modelli accentrati, dove la pianificazione è nazionale,
come in Olanda, ma anche molti altri
decentrati quali quello tedesco e italiano.
In particolare, quello italiano è un modello fortemente decentrato
attraverso le regioni.
Fin dagli anni settanta è divenuto un modello di decentramento molto
spinto dei poteri territoriali e
urbanistici, dove alcune cose sono andate
bene e altre male.
Per esempio, il nostro paese ha dimostrato grandi capacità di
conservare le sue città storiche e
straordinaria incapacità nel costruire le
città nuove dopo gli anni sessanta.
L’Italia ha costruito le più brutte
periferie europee, ha dimostrato spesso di
non aver avuto la capacità di conservare i
paesaggi e tutto ciò all’interno di un
modello di decentramento.
Per questo motivo eviterei di fare un’associazione di tipo
deterministico secondo la quale ad un
determinato tipo di governo corrisponde un
esito di un certo tipo.
Siamo in presenza di una relazione complessa nella quale forse è bene
pronunciarsi in maniera più locale.
Una seconda considerazione tecnico-politica riguarda la curiosità del
comportamento delle forze politiche
conservatrici in Europa.
Ad esempio, la Thatcher, durante il suo lungo periodo di governo,
esaltando principalmente il mercato, un
po’ come il governo polista oggi in
Italia, ha attivato un fortissimo
accentramento del governo territoriale. Il
periodo thatcheriano in Inghilterra ha
segnato un neocentralismo molto forte. Ciò
sembra essere una cosa alquanto curiosa se
si considera che i governi di tipo liberale,
orientati verso il mercato, dovrebbero
essere governi che allentano i sistemi di
pianificazione centralizzati.
Le tendenze neocentraliste del governo Berlusconi sono molto simili a
quelle del periodo thatcheriano. Il governo
Thatcher, infatti, ha smantellato buona
parte delle autonomie locali, per cui
l’attenzione al mercato si è configurata
in termini contraddittori, con una forte
volontà di starci dentro, di governarlo dal
centro e, quindi, di non accettarne quei
caratteri di mobilità e libertà che più
gli si addicono.
La questione è abbastanza complessa e a ciò si aggiunge un ulteriore
elemento di complessità e confusione
derivante dal fatto che i nostri
pianificatori sono tecnici o politici che
hanno giustamente smantellato i sistemi di
comando e di controllo, che hanno
praticamente costituito l’essenza della
pianificazione degli anni trenta fino a
tutti gli anni sessanta.
A partire dagli anni settanta, ma oggi in maniera molto definita,
quello che si chiamava comando e controllo
è stato sostituito da un modello di
partecipazione e di azione strategica nel
quale comunità allargate fatte di tecnici
esperti, ma anche di non esperti, di gente
comune tracciano insieme il cammino dei
propri ambienti di vita e lo tracciano non
in maniera fumosa, ma con una piena
consapevolezza di tutti i momenti, di tutte
le fasi, di tutte le operazioni che devono
riempire lo spazio che esiste tra gli
obiettivi e i risultati.
Questo smantellamento del sistema di comando e controllo, tipico della
pianificazione di un tempo, questo maggiore
potere delle comunità locali, si scontra
attualmente con una esigenza di tutela, o
meglio di qualche attenzione, più
centralizzata per il tema ambientale in
quanto esso non consente un totale
decentramento. Allora ancora una volta c’è
una contraddizione. Sulla dimensione
socio-economica e sulla dimensione politica,
il decentramento è benefico: dopo aver
giustamente smantellato il sistema di
comando e controllo, le comunità si sono
rafforzate, sono divenute protagoniste della
loro vita, ma per la dimensione ambientale
dei sistemi locali vi sono grossi rischi se
non ci sarà un’attenzione coordinata
dall’alto.
Francesco Indovina
In merito alla domanda posta da Gerundo, vorrei sottolineare che
l’attività di organizzazione del
territorio non è un’attività di
organizzazione ma, specificatamente,
un’attività di decisione politica. In
questo senso mi pare di poter convenire con
Borri che, estremizzando, affermava:
decentramento o non decentramento è
indifferente rispetto al contenuto politico
delle decisioni che vengono prese.
Il decentramento, per un lungo periodo, è stato guidato da una
tensione di unità: il senso del
decentramento era di collegare più
strettamente i processi di pianificazione
alle specificità di ogni luogo, di ogni
regione, nell’ambito di un’idea comune:
che il territorio era un bene collettivo,
che di questo territorio bisognava fare il
miglior uso possibile secondo parametri
condivisi.
Questa, mi sembra, essere stata l’idea guida di tante legislazioni
regionali (che poi la traduzione pratica
corrispondeva solo in parte a questa opzione
generale è altra questione, non marginale,
ma che attiene ad un altro tipo di
ragionamento).
Bisogna osservare che oggi non è più così, questa idea comune non
c’è più.
Non solo oggi la geografia
legislativa appare molto articolata ma è
prevedibile che nel futuro la diversità
potrà essere molto più accentuata, quasi
una disarticolazione.
Una differenziazione che non solo risponde a specificità di luogo, ma
soprattutto risponde a idee di uso del
territorio molto diverse (cito un caso per
tutti: il senso dell’abuso del territorio
che apparirà nella legislazione della
Sicilia, risulterà non conforme, non solo a
quello delle altre regioni, ma soprattutto a
qualsiasi senso comune di salvaguardia del
territorio e dell’ambiente).
Potremmo dire cinicamente che ogni popolazione avrà il territorio che
si merita, ma il problema è che il tipo di
territorio che risulterà non appare come
decisione delle popolazioni, ma di gruppi di
potere forti (non necessariamente di forza
economica, ma anche di forza elettorale);
non solo, ma gli effetti di una data
organizzazione dello spazio di una regione
travalica la dimensione della regione stessa
per tracimare nelle regioni circostanti.
Infatti, i processi di pianificazione del territorio non sono
indifferenti ai processi di sviluppo, non
sono indifferenti ai processi di equilibrio,
non sono indifferenti ai processi di qualità
della vita quotidiana.
Da questo punto di vista il decentramento comincia ad essere un
problema abbastanza complicato da gestire
politicamente.
Qualcuno prima faceva riferimento ad una probabile riduzione, per così
dire, della libertà di stampa, prevedendo
periodi più o meno oscuri, ma una ipotesi
di questo tipo non vale per singoli segmenti
della società, vale per tutti i segmenti,
per la giustizia, per la scuola, per la
salute e vale anche per il territorio. In
questo momento mi sembra sia possibile
cogliere un’unità di intenti, cosa
estremamente preoccupante.
Roberto Gerundo
Evitando di connotare decentramento e/o accentramento di competenze con
determinate estrazioni politiche o di
orientamento culturale, in quanto il
neocentralismo è stato negli anni passati
prodotto dalle più disparate e diverse
collocazioni politiche, si può sostenere
comunque che oggi, relativamente
all’assetto del territorio, ci troviamo in
una fase di politica neocentralista?
La conferenza delle regioni, sulla base di rilevamenti resi noti
all’inizio del 2002, annovera circa 28
provvedimenti governativi che sono
discordanti dalla riforma costituzionale,
nel senso che si appropriano di poteri, in
maniera diretta o surrettizia, che invece
dovrebbero essere decentrati.
Delle circa 200 opere che la legge obiettivo propone, molte di esse
sono puntuali che, certamente, si possono
considerare sempre facenti parte di una
piattaforma logistica unitaria, qual è il
nostro paese, ma che evidentemente sono
abbastanza specificamente individuate sul
territorio, collocate a livello strettamente
provinciale e regionale, se non addirittura
comunale.
Ma anche il vizio di legiferare nel dettaglio delle procedure, che c’è
sempre stato, adesso si carica con quella
parte della legge obiettivo che si occupa di
procedimenti amministrativi in termini
edilizi e che si incontra o si scontra o
fiancheggia una disciplina recentemente
varata dalla Regione Campania (la legge
19/2001), che si occupa delle stesse cose.
Ma allora, queste politiche neocentraliste
sono il frutto di una necessità?
Tutti ricordano che negli anni cinquanta le autostrade nel nostro paese
furono realizzate in pochi anni. Oggi non
siamo in grado più di realizzare grandi
opere, anche se c’è prioritariamente da
capire quali di esse siano necessarie e
quali lo sono di più.
Si evidenzia, tuttavia, un problema di mancanza di rapporto fra la
prospettiva di trasformazione urbanistica e
i tempi in cui poter toccare con mano tali
realizzazioni.
Il neocentralismo è, quindi, una necessità o un arretramento, nello
stato in cui versa l’amministrazione
pubblica? Ma c’è anche il rischio di
inaugurare un regime di straordinarietà
permanente che tra l’altro, in particolare
per quanto riguarda la Regione Campania e
buona parte del Mezzogiorno, si è già
vissuto e continua a viversi anche a venti
anni dal terremoto del 1980, alimentato, di
volta in volta, da altre vicende che vengono
affrontate facendo ricorso a poteri
commissariali. Non siamo in una condizione
in cui questi poteri straordinari, di fatto,
dal punto di vista procedurale e normativo e
anche nelle individuazioni delle
trasformazioni urbanistiche da mettere in
campo, possono precostituire una sorta di
straordinarietà permanente per il nostro
paese?
Francesco Domenico Moccia
Tempererei un poco questa visione di oscillazione, anche molto
occasionale, del processo di decentramento
– accentramento, perché, secondo me, ci
sono delle masse inerti che in realtà
condizionano fortemente quest’aspetto e in
qualche modo mettono in gioco delle altre
variabili oltre quelle strettamente
politiche messe in evidenza da Gerundo.
Faccio riferimento alla struttura
burocratica dello Stato. Di fatto, politiche
centraliste e politiche di decentramento,
fanno i conti con un’organizzazione dello
Stato che ha una sua tradizione e che in
qualche modo fa da massa inerte che
approfitta dei propri livelli di autonomia e
della sua capacità di iniziativa per
portare avanti delle contromisure rispetto
agli indirizzi del governo e del parlamento.
Ad esempio, si può ricordare come la burocrazia del Ministero dei
lavori pubblici, in una fase in cui c’era
un indirizzo politico di deciso
decentramento, ha intrapreso tutta una serie
di programmi (Prusst, Pru e tutta la
progettazione integrata) che tendevano, di
fatto, a riaffermare un ruolo di guida che
probabilmente è stato anche estremamente
positivo, perché ha costituito un momento
di svecchiamento e innovazione della cultura
urbanistica e pianificatoria italiana, ma
che aveva certamente anche un altro aspetto:
cercare di ritrovare un ruolo in un momento
di cambiamento politico.
Vedendo poi le cose dal punto di vista opposto, esaminando la legge
obiettivo, vediamo come un’elevata
progettualità locale ha, di fatto,
condizionato l’azione del governo e,
quindi, dove c’erano comunità locali con
idee chiare, piani costruiti, proposte in
atto, queste poi sono finite nella lista dei
progetti da fare perché rappresentano, in
fondo, il materiale disponibile.
Quindi, credo che questa sia una dinamica complessa che si gioca sui
periodi lunghi, non sulle contingenze
politiche, che possono dare delle svolte,
delle accentuazioni, ma poi in realtà nella
sua dimensione organizzativa, che è poi
quella che conta nella quotidianità della
gestione del territorio come della gestione
politica, è un’altra cosa.
Dino Borri
Rispondendo alla prima parte della domanda, certamente il
neocentralismo non è una necessità, perché
se così fosse guarderebbe alla dimensione
che più ha bisogno di centralismo o di
neocentralismo, ovverosia alla dimensione
ambientale.
È questa l’unica dimensione, a mio avviso, delle politiche attuali
che richiede un certo neocentralismo.
Nessuno accetta di avere inceneritori o altre attività inquinanti
vicino casa, ma esse devono pur essere
localizzate e richiedono una politica
coordinata.
Se ci fosse un’attenzione ambientale, allora si potrebbe pensare che
questo neocentralismo di ritorno sia
necessario; ma non è così, né può essere
determinato perché la politica ambientale
è trascurata a favore di una politica delle
infrastrutture che, peraltro, non prende in
considerazione alcune cose rilevanti dal
punto di vista ambientale.
Il neocentralismo non deriva dalla ricerca dell’efficienza e neanche,
da questo punto di vista, può esservi una
motivazione, perché l’efficienza dei
programmi degli anni cinquanta derivava dal
fatto che i governi dell’epoca furono
intelligenti nel creare dei modelli basati
su agenzie che poi sono stati aboliti. La
Cassa per il Mezzogiorno è stata
smantellata. Erano quelli modelli Keynesiani
che creavano una risposta organizzativa al
problema specifico. Tutti i grandi enti di
successo, le grandi organizzazioni di
successo nel campo del territorio sono state
create giustamente su questo modello.
L’efficienza derivava da quel modello,
mentre nell’attuale neocentralismo il
modello dell’agenzia è assente. Ritengo,
quindi, che non ci sia né un problema di
ricerca dell’efficienza, né una necessità
di controllo ambientale, perché non c’è
traccia di tutto questo. Direi, invece, che
questo ritorno di neocentralismo è
preoccupante perché si indeboliscono i
soggetti locali.
Per certi versi, il forte decentramento dei poteri urbanistici e
territoriali avviatosi negli anni settanta,
in modo originale in Italia, non è stato
usato benissimo; per esempio, le regioni
verso i comuni hanno tante colpe, hanno
fatto perdere ai comuni e alle comunità
locali moltissimo tempo, però sono state
anche capaci di generare un’esperienza
urbanistica rilevante, per esempio di
legislazione urbanistica.
Alcune regioni hanno avuto la capacità di creare leggi di seconda
generazione di straordinario interesse in
Europa, basti pensare alla Regione Toscana.
Quindi, si riscontrano luci ed ombre nel
comportamento delle regioni e, considerando
le ombre dell’azione del governo
regionale, ad esempio la loro azione un
po’ prevaricatrice e disattenta verso i
comuni, direi che non meritano, né le
regioni né i comuni, questo neocentralismo
che indebolisce i soggetti locali,
privandoli in qualche modo di risorse
proprio quando questi dovrebbero avere più
attenzione dallo Stato nella fase di una
politica negoziata per il territorio, di
un’urbanistica concertata.
Mi sembra una scelta improvvida indebolire le comunità locali quando
la pianificazione sta diventando politica
negoziata in tutto il mondo. Tra l’altro,
la scoperta e la pratica dei progetti locali
è estremamente vantaggiosa, pur rimanendo
convinto che nell’ambito ambientale è
necessaria una politica neocentralista pur
essendo altrettanto convinto della validità
della pratica dei progetti locali. Infine,
ritengo preoccupante il fatto che questo
neocentralismo delle infrastrutture non
consideri alcune straordinarie debolezze del
nostro paese, come i trasporti su ferro
nelle città, in cui l’Italia mostra un
arretramento spaventoso rispetto
all’Europa e non sembra avere dei segnali
coerenti, su questo problema, dal
neocentralismo delle infrastrutture.
Francesco Indovina
Credo che gli interventi neocentralisti siano divisibili in due
famiglie.
Quelli dei piani complessi che sono basati sull’ipotesi che la
pianificazione è insufficiente e rigida e
che deve essere resa flessibile e dinamica e
coinvolgere i privati; in questo caso il
centro si preoccupa molto poco degli
obiettivi, la sua attenzione è al fare,
incentivando i privati con semplificazione
di procedure e allettando le periferie sulla
base di finanziamenti.
Si tratta di una piega orribile, quasi sconcertante; se alcuni di
questi interventi avranno un risultato
positivo sarà del tutto casuale, in quanto
l’obiettivo sotteso è smantellare
qualsiasi idea che l’organizzazione del
territorio debba presentare coerenza e
qualità in ambito di area vasta o di area
piccola. Per questo tipo di intervento si
utilizzano come spinta anche i finanziamenti
della comunità europea.
L’altro settore è quello delle infrastrutture e anche qui siamo ad
un giro di boa. Non è il piano
dell’ammodernamento del paese, ma quello
di premiare alcuni interessi, cosa molto più
facile in modo centralizzato e autoritario.
Cito uno per tutti, il ponte sullo stretto
di Messina, che non costituisce, a detta di
nessuno, un ammodernamento del paese anche
se per realizzarlo il governo nomina un
commissario ad acta.
A fronte di problemi storici legati alle infrastrutture, quali la
mobilità interna alle grandi aree urbane,
la mobilità su ferro rispetto a quella su
gomma, la mobilità via mare rispetto a
quella via terra, che non sono stati mai
affrontati (anche se sempre affermati), si
avviano interventi particolari (ma di grande
dimensione) premiando particolari interessi.
Questo tocca un nervo scoperto della nostra situazione attuale: le
determinanti delle scelte politiche sono
tutte riferite a interessi molto particolari
(non si tratta neanche, in senso proprio, di
interessi di classe, ma di gruppi molto
ristretti, di amici).
Da questo punto di vista, le azione neocentraliste attivate non
appaiono affatto condivisibili, mentre non
è un caso che azioni di centralizzazioni
necessarie latitano. Per esempio, mi pare ci
possa essere un consenso generale sulla
necessità di una centralizzazione per
quanto riguarda gli aspetti ambientali e
relativi ai beni storici e culturali;
infatti, molte comunità, soprattutto quelle
in difficoltà, individuano in queste
risorse l’occasione di rilancio con una
loro valorizzazione economica che non
corrisponde quasi mai con la loro
salvaguardia. Va riaffermato, tuttavia,
ancora una volta che centralizzazione e
decentramento non sono valori in sé, ma
dipendono dalle relative scelte politiche.
Roberto Gerundo
Gli ultimi due temi da trattare riguardano la programmazione negoziata
e il ruolo delle regioni.
La programmazione negoziata, un’esperienza forte della seconda metà
degli anni novanta, sembra abbia cominciato
a incontrare una sorta di diffidenza
governativa, anche se appare strano che ciò
avvenga in un clima di propensione al
liberismo economico, in cui si dovrebbe
essere ben lieti che ci possa essere una
dinamica locale sufficientemente libera dai
cosiddetti lacci e lacciuoli.
Ci troviamo in una condizione in cui sembrerebbero emergere
preoccupazioni forti nei confronti dei
processi di programmazione negoziata, nella
fattispecie i patti territoriali. Lo stesso
vale per il ruolo delle regioni. Fino ad
oggi, le regioni, rispetto a questo clima,
indipendentemente dalla collocazione
politica, hanno protestato ritenendo
invadente il comportamento del Governo
attraverso gli atti legislativi che ha
proposto e fatto approvare dal Parlamento.
Per altro, i processi di pianificazione territoriale, che sono
tipicamente di competenza dei comuni e della
provincia, per l’attività di
coordinamento, vedono un indebolimento di
tali soggetti che più di tutti vengono
penalizzati nella loro autonomia decisionale
in termini di capacità e di possibilità di
determinare la morfologia, l’assetto e
l’organizzazione del territorio.
E le regioni, che hanno recepito in maniera positiva i finanziamenti
offerti dal Governo, potranno diventare uno
snodo fondamentale, un nuovo baricentro di
mediazione fra azione statale neocentralista
e autonomia decisionale di province e
comuni?
Francesco Domenico Moccia
Parlando del ruolo della regione, con riferimento alla Campania,
bisogna dare atto e merito all’assessore
regionale Marco Di Lello, di aver lavorato
ad una legge urbanistica regionale che sarà
proposta al dibattito consiliare.
Questa proposta è l’elemento di riferimento fondamentale in cui si
inquadrano tutti i tipi di problematiche
messi in evidenza da Roberto Gerundo, quindi
è opportuno soffermarsi criticamente su di
essa.
Lo schema di legge urbanistica regionale presenta una particolare
eleganza formale nel prevedere che i diversi
livelli di pianificazione abbiano tutti le
medesime articolazioni nella forma del
piano, tra parte strutturale e
programmatica. Il piano regionale, il piano
provinciale, il piano comunale, mantengono
tutti questa elegante simmetria, il che
potrebbe però oscurare il ruolo specifico
dei diversi livelli nel sistema di
pianificazione oltre a moltiplicare gli
strumenti di pianificazione.
Questo richiede una più chiara riflessione e valutazione di quali
siano quegli aspetti che debbono essere di
competenza della regione, quali delle
province, quali dei comuni e se vi debbano
essere ulteriori livelli intermedi di
pianificazione (comunità montane,
associazioni di comuni o sistemi locali di
sviluppo). Se ciò avvenisse, allora non
sarebbe necessario mantenere una forma del
piano uguale per ogni livello. Quando saremo
tutti d’accordo che il fondamentale piano
di area vasta è quello provinciale, nel
senso che assume il valore di piano
paesistico, coordina la pianificazione
settoriale ed organizza la localizzazione di
servizi ed infrastrutture di livello
sovracomunale, allora sarà evidente il suo
carattere eminentemente strutturale che
potrebbe sostituire anche la parte
strutturale dei piani comunali specialmente
dei comuni più piccoli (con un piccolo
strappo rispetto al napoleonico principio
amministrativo dell’uniformità suggerito
dal realismo delle risorse disponibili). A
quel punto, essendosi il piano regionale
liberato degli aspetti strutturali, ma
dovendo mantenere, ad esempio, una presenza
degli aspetti territoriali nelle politiche
di sviluppo, come negli altri settori di
programmazione regionale, assumerà più
chiaramente un carattere di indirizzo
programmatorio con un valore indicativo
sulla pianificazione sott’ordinata. La
frequente pratica di sovrapposizione delle
competenze tra i piani di diverso livello,
che si verifica anche nelle regioni che più
decisamente hanno attuato il decentramento,
suggerisce di prestare molta attenzione alla
chiarificazione della distribuzione dei
compiti.
Un secondo aspetto della legge regionale che vorrei commentare riguarda
i controlli sui piani sott’ordinati e
sulla loro approvazione. Qui la regione
potrebbe compiere un piccolo sforzo per dare
maggiore autonomia ai comuni, perché nel
momento in cui afferma il principio che è
sotto scrutinio solamente la congruenza dei
piani sottordinati rispetto ai piani
sovraordinati, allora le conferenze di
servizi dovrebbero essere degli strumenti
sufficienti per poter verificare ciò e
sanare gli eventuali conflitti che dovessero
insorgere tra il piano comunale e
provinciale. A questo punto sarebbe anche
ammissibile che ad approvare il piano
urbanistico comunale sia il consiglio
comunale che l’ha adottato ed ha discusso
le osservazioni, evitando la delibera di
giunta provinciale. Questa ulteriore fiducia
nei confronti della comunità locale
potrebbe essere un generoso atto della
regione.
Infine, riguardo alla programmazione negoziata e, in particolare, i
patti territoriali, è opportuno fare
un’ulteriore riflessione intorno a questo
momento di pianificazione che tende a
riprodurre un livello intermedio nel sistema
di pianificazione regionale, cercando di
fare un bilancio di che cosa di positivo
hanno portato queste esperienze,
valorizzandole all’interno del sistema di
pianificazione.
Ciò dà la possibilità di agganciarmi al problema della segmentazione
degli interessi.
La risposta alla segmentazione degli interessi ha una duplice
possibilità, da un lato un lavoro di
integrazione degli interessi all’interno
delle comunità e dall’altra un richiamo
delle parti alle loro responsabilità.
Entrambi questi momenti sono costitutivi
dell’attività di pianificazione. Nelle
ricerche che sono state condotte sulle
modalità di attuazione e sui risultati dei
patti territoriali, è descritto un quadro
molto vario dipendente dagli attori in
gioco. Il partenariato si è costituito ed
ha agito in maniera responsabile o
opportunistica. Solo nel secondo caso si è
potuto innescare un processo di integrazione
degli interessi della società segmentata.
Spesso questo processo si è limitato ad
alcune élite o a sfere corporative quando i
programmi erano circoscritti a settori
delimitati. Altre volte, invece, le
ristrette rappresentanze, direttamente
coinvolte, hanno allargato il raggio della
visione ed il livello di coinvolgimento
portando a sintesi sempre più inclusive. In
questo senso si sono mossi i tavoli di
concertazione e l’uso dei metodi della
pianificazione strategica ha fornito un
supporto tecnico e teorico che spingeva
proprio in quella direzione.
Debbo
dire, che soprattutto nel periodo iniziale,
alle iniziative dal basso non corrispondeva
una pari attenzione dall’alto. Provincia e
regione hanno per lungo tempo abdicato ai
loro compiti di coordinamento ed indirizzo
lasciando senza governo e, quindi, senza
concertazione, la competizione tra i sistemi
locali con evidenti sovrapposizioni ed
incompatibilità di programmi tra di loro.
In special modo la regione ha evitato di
formulare una propria strategia dello
sviluppo (stabilire eventuali settori o aree
strategiche, privilegiare l’equilibrio
territoriale, considerare irrinunciabili i
principi dello sviluppo sostenibile o
qualsiasi altra opzione o gerarchia di
opzioni). Ho l’impressione che nella
pianificazione dal basso sia annidato un
invisibile ma grave pericolo: la
deresponsabilizzazione del centro, la
copertura alla incapacità di prendere
decisioni.
Il venir meno di una visione d’insieme capace di rendere sinergici i
protagonismi locali sembra essere
altrettanto dannoso di un piano
centralistico, tecnico-razionale, che cali
dall’alto senza il coinvolgimento degli
attori locali e la valorizzazione delle
risorse endogene.
Per la pianificazione territoriale, nella nostra regione, credo che i
patti territoriali abbiano rappresentato un
importante passo avanti perché:
1. hanno innovato, con la diffusione della pianificazione strategica, i
modi di pianificare;
2. hanno introdotto il livello intermedio dei sistemi locali di
sviluppo come quello più idoneo a una
pianificazione territoriale integrata e
diffusa anche al di fuori degli ambiti
metropolitani;
3. hanno costituito possibilità di incontri che si sono anche
trasformati in organizzazioni stabili o in
evoluzione (come le agenzie di sviluppo) che
si propongono di praticare costantemente la
pianificazione per un’azione collettiva di
supporto ai territori, in contrasto con una
linea di incentivi individuali ed automatici
che la esclude.
Dino Borri
Personalmente non avrei dubbi sul fatto che le regioni resisteranno e
resteranno.
Siamo in una fase di indebolimento degli Stati nazionali, anche se da
queste ultime vicende, anche in riferimento
alla moneta unica, alcuni recalcitrano e
alcune cose non sono del tutto scontate. La
tendenza fondamentale, però, sembra essere
un indebolimento dello Stato nazionale e di
un emergere degli spazi locali, dove il
locale va dalle regioni ai comuni, in questa
nuova Europa che si sta costruendo con
sempre maggiore evidenza e con sempre
maggiore forza.
Quindi non c’è dubbio che le regioni saranno snodi fondamentali,
addirittura non più tra lo Stato nazionale
- magari come questo Stato un po’ convinto
di poter giocare ancora un ruolo
neocentralista - e i livelli locali, ma tra
questi ultimi e i livelli ancora più estesi
dello stesso Stato nazionale.
Le regioni sono fondamentali e, fra l’altro, quello che si sta
formando è una rete.
Difatti l’Europa non è altro che una rete di enti locali che
cooperano, che creano delle sinergie. Le
regioni sono spazi di identità e quanto più
sapranno conservare tali spazi di identità
in modo globale, quanto più sapranno
conservare le loro tradizioni, le loro
culture, i loro paesaggi, le loro
straordinarie città, quanto più sapranno
legarsi su questa forza della loro identità,
tanto più saranno efficienti e efficaci.
È una sfida sicuramente complicata, ma la dimensione locale è quella
che più di tutti può raccogliere questa
sfida.
Infine, condivido l’interesse per il problema della segmentazione
degli interessi, ma richiede più tempo per
discuterne. Il concetto di bene pubblico, di
interesse generale, si è in qualche modo
ridefinito ed emergono segmentazioni di
interessi che creano problemi e
incomprensioni.
Francesco Indovina
Con la pianificazione (centralizzata e no) si possono fare delle cose
buone e delle cose pessime, anzi
storicamente se ne sono fatte di buone e di
pessime, anche i campi di sterminio sono
stati perfettamente pianificati. Con la
pianificazione dialogante si possono fare
delle cose buone e delle cose pessime. In
Sicilia, per esempio, stanno facendo delle
cose pessime: l’abusivismo acquisisce il
connotato di azione di trasformazione del
territorio anche nelle aree archeologiche.
Quindi non è un problema di procedura, ma piuttosto di tensione e di
affermazione o meno di un’etica del
territorio. Una pianificazione guidata da
tale etica (che significa tante cose che non
si possono in questa sede esplicitare) in
qualsiasi sua forma (estremizzo) realizza
risultati buoni, in sua assenza qualsiasi
forma di pianificazione crea danni e
disastri.
Credo che varrebbe la pena di porre attenzione, e forse la rivista può
dare un grosso contributo, sul tema della
politica comunitaria e della sua influenza.
Lo schema di sviluppo dello spazio comunitario ha messo in evidenza,
per esempio, che il 14% delle popolazioni di
tale spazio è fortemente concentrato in
relazione alle attività economiche. Un dato
che pone in modo drammatico il problema del
rapporto centro-periferia e su questa base
la comunità europea pensa che ci siano temi
di rilievo sui quali investire in termini di
conoscenza, di risorse e in termini di
indirizzo. Si tratta dei temi relativi alle
regioni di medio sviluppo, alla questione
urbana, alla diversificazione delle zone
rurali, alle zone di ristrutturazione
industriale, alle zone con grandi handicap
geografici.
Nel rapporto centro-periferia, il ruolo e la funzione di un centro
sempre più lontano è quello di trovare
punti di equilibrio più avanzati rispetto a
quelli di un centro più locale, dove gli
interessi sono più incarnati e quindi
creano difficoltà, mentre a livello più
alto può essere meglio aver trovato un
equilibrio, un’indicazione più puntuale e
più precisa di cui gli interessi locali
devono tener conto. Credo che forse dal
livello europeo possono venire delle
indicazioni molto importanti, proprio per le
tematiche di pianificazione di area vasta
che costringono a ripensare ad alcune
questioni fondamentali, allentando un po’
la tensione della relazione fra interessi
fortemente frammentati.
* Il forum si è tenuto il 15 gennaio 2002, presso la Provincia di
Salerno, in occasione della presentazione
del n. 3/2001 di
Il logo fra i paragrafi appartiene all’Associazione Italiana per i
diritti del pedone e utenti mezzi pubblici
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