Un ecosistema unico al mondo - e poi
spiegherò perché - il cui territorio
appartiene oggi a 9 comuni1, ma
le cui vicende sono strettamente dipendenti
dall’evoluzione di un bacino che a sua volta
ne comprende 110, appartenenti a quattro
province2. Se c’è un’area vasta
che ha bisogno di un governo unitario è
questa, la Laguna di Venezia. E, infatti, un
governo unitario quest’area l’ha avuto per
1000 anni. Dalla fine del XVIII secolo non
ce l’ha più, nonostante tentativi compiuti
negli ultimi decenni.
Un accidente della natura
È al suo governo unitario, garantito per
dieci secoli dalla Serenissima Repubblica di
Venezia, che la laguna deve la sua
sopravvivenza. È l’unica laguna al mondo
rimasta tale per tanti secoli. La laguna è,
infatti, per definizione, un sistema in
equilibrio instabile: un accidente della
natura.
È formata dall’equilibrio tra due forze
concorrenti. Le acque dei fiumi portano
verso il mare gli apporti solidi che
strappano alla terra, li accumulano alla
loro foce, lì si depositano assumendo - per
l’effetto delle correnti marine - la forma
di lunghe barre semisommerse che,
poco a poco solidificandosi, generano i più
stabili lidi. Tra i lidi e i margini
della terraferma si forma così uno specchio
d’acqua irrorato dalle acque dolci dei fiumi
e da quelle salate del mare, che penetrano
dalle bocche rimaste aperte tra i
lidi. Acque ormai né dolci né salate, ma
dotate d’una differente natura rispetto alle
une e alle altre: acque salmastre.
Lo specchio d’acque salmastre è un ambiente
diverso da ogni altro. Il suo fondale non è
regolare come quelli imbutiformi dei laghi o
digradanti delle baie e dei golfi o ripidi
delle coste a falesia: è formato dagli
innumerevoli letti dei meati fluviali che
nei secoli lo hanno percorso, scavando dove
più dove meno, depositando detriti in misura
più o meno vistosa. E dove il gioco
meandriforme del sistema dei canali sommersi
ha lasciato sponde più alte, lì - per
qualche ora al giorno o qualche settimana
all’anno - il terreno rimane emergente dalle
acque e ospita variabili vegetazioni e
specie animali.
(Nella laguna formata dalle foci del Brenta,
del Sile, del Musone, del Piave e di altri
numerosi corsi d’acqua a settentrione della
foce del Po e dell’Adige, su qualcuno degli
isolotti semisommersi le prime famiglie di
pescatori, e poi i popoli fuggitivi
dall’entroterra sospinti dalle ondate dei
barbari, hanno consolidato il terreno,
costruendovi dapprima le loro abitazioni e i
loro villaggi, poi la loro città, Venezia,
dotandosi nel tempo d’una rigida
pianificazione regolativa, unica garanzia
della saggia amministrazione d’un suolo
scarso e costoso).
Tutto ciò, fino a quando le due forze
contrapposte, quella dei fiumi e quella del
mare, restano in equilibrio, come una
pallina al culmine di una superficie
convessa.
Due destini naturali
Ecco allora i due diversi e opposti destini
cui ogni laguna è, per natura, condannata.
Se vince la forza dei fiumi terragni, se
prevale l’accumulo dei depositi solidi che
essi portano con sé (le ghiaie, la sabbia,
il limo, i residui vegetali delle foreste
travolte dalle alluvioni), ecco allora che
la laguna (ogni laguna), da instabile e
multiforme specchio d’acqua salmastra si
trasforma in uno stagno, poi in una palude,
e finalmente, magari bonificata dalle umane
opere, in un campo.
Se vince la forza delle onde marine,
l’erosione asporta gli apporti solidi
consolidati nel tempo, trascina via ciò che
contende spazio all’acqua salata e oppone la
sua salmastra immobilità alla forza delle
correnti: la laguna (ogni laguna) si
trasforma in un braccio di mare, baia o
golfo che sia.
Contro questi due destini la Serenissima
Repubblica di Venezia ha combattuto per 1000
anni. Vittoriosamente, solo perché ha
impegnato verso questo obiettivo tutte le
intelligenze disponibili, tutte le
tecnologie adeguate, tutte le risorse
mobilitabili, tutta l’autorità disponibile
(e non era poca), tutte le capacità di
amministrazione saggiamente costruite3.
Il nido del potere
Conservare la laguna era vitale per la
Serenissima. La laguna era il rifugio
che garantiva sicurezza dai possibili
attacchi da terra e dal mare; era il luogo
dove lo strumento essenziale dell’egemonia
statale sul suo vasto impero commerciale, la
flotta, poteva essere costruita, armata,
trovare riparazione e rifugio; era il luogo
al quale affluivano, grazie al controllo dei
fiumi e della loro navigabilità, le materie
prime (soprattutto il legname) necessarie
per consolidare il suolo, per fondare le
costruzioni ed erigerle (finché terribili
incendi suggerirono di sostituire almeno in
parte l’infiammabile legno con le leggere
argille cotte); era la vasta fabbrica dei
prodotti essenziali per l’alimentazione e la
conservazione degli alimenti: le molte
specie di pesci e molluschi,
parsimoniosamente regolamentate nel loro
prelievo4, i volatili attirati
dal particolare habitat, il sale dei
vasti depositi costieri, le verdure delle
isole maggiori e dei lidi.
Tutto questo era la laguna per la
Serenissima: il nido all’interno del quale
la sua forza si manteneva, si sviluppava,
diventava capace di gareggiare e di vincere,
di difendersi e di ritemprarsi. Per renderlo
possibile la laguna doveva venir
conservata, doveva rimanere tale pur
trasformandosi al mutare delle condizioni e
delle necessità. L’accidente della natura
doveva diventare un sistema permanente.
Un sistema permanente
Un sistema permanente: in queste due parole
sta tutta la scommessa di Venezia e della
sua laguna. Un sistema: un organismo
costituito da un complesso di elementi,
ciascuno dei quali essenziale e vitale, e
ciascuno legato agli altri da precise
relazioni, non modificabili ad libitum
senza condurre il sistema al collasso.
Permanente, cioè capace di rimanere nel
tempo tale, governato dalle medesime leggi
mutevoli della natura, benché soggetto agli
ulteriori elementi di cambiamento che gli
eventi al contorno e l’azione dell’uomo
producevano.
Realizzare questo miracolo, lasciare che le
contrastanti forze dei fiumi e del mare,
della terra e dell’acqua, collaborassero
senza che l’una prevalesse sull’altra, e al
tempo stesso introdurre le trasformazioni
necessarie a vivere la laguna (approfondire
un canale o aprirne uno nuovo, consolidare
un isolotto o aprire varchi in un altro)
significava sottoporre la laguna a un
governo minuzioso, fondato sulla
quotidianità dell’intervento, sulla
continuità della vigilanza, sulla più
accorta gradualità, sperimentalità e
reversibilità delle innovazioni (un nuovo
canale, un nuovo argine, un nuovo
consolidamento, una nuova immissione) e sul
monitoraggio dei loro effetti.
Soprattutto, significava adoperare le leggi
della natura con un’accortezza ancora
maggiore di quelle che la natura stessa
avrebbe impiegato, poiché si trattava di
rendere permanente un sistema che essa
avrebbe cancellato, in un modo o nell’altro.
Tutte le armi del buongoverno veneziano
vennero impiegate in questa logica e a
questo scopo. Come ha scritto Piero
Bevilacqua, la storia di Venezia è “la
storia di un successo (…) nel governo
dell’ambiente che ha le sua fondamenta in un
agire statale severo e lungimirante, nello
sforzo quotidiano e secolare di
assoggettamento degli interessi privati e
individuali al bene pubblico delle acque e
della città”5.
Cade il governo della laguna e cambia il
mondo
La caduta della Repubblica di Venezia,
l’anno 1797, fu senza dubbio la causa più
appariscente del cambiamento: della fine di
un governo unitario della laguna
finalizzato a quel sistema di
obiettivi e regolato da quel sistema
di strumenti. Eventi più vasti erano
accaduti, e non potevano non riverberarsi in
quello specchio d’acqua, in quell’angolo del
Mare Adriatico.
Il mondo era cambiato. Eventi accaduti a
Londra e a Parigi avevano trasformato le
condizioni di base della sua evoluzione.
L’avvento e il trionfo del sistema
economico-sociale basato sul modo
capitalistico della produzione e
sull’affermarsi della borghesia aveva
introdotto, e tendenzialmente generalizzato,
modi del tutto nuovi di governare i rapporti
tra gli uomini e quelli degli uomini con la
natura e il mondo circostante.
La produzione industriale si era rivelata in
grado di moltiplicare all’infinito le
quantità di merci disponibili, emancipando
l’uomo dal vincolo dei ritmi parsimoniosi
della natura. Ogni frutto prodotto dall’uomo
o dalla natura, da bene, oggetto
dotato d’una sua individualità e di un suo
valore d’uso era stato trasformato in
merce: mero deposito di valore di
scambio, oggetto fungibile con qualsiasi
altro. L’individualismo, molla potente del
progresso quantitativo, aveva via via
cancellato le regole della comunità,
soprattutto là dove queste minacciavano il
diritto all’appropriazione privata
dei beni disponibili. Le grandi possibilità
offerte dalle nuove tecnologie basate
sull’impiego dell’acciaio e del cemento,
sulla sostituzione delle macchine semoventi
alla fatica dell’uomo e dell’animale,
avevano rivoluzionato il modo di realizzare
strade, canali, argini e dighe, ponti e
nuove infrastrutture.
L’ambiente naturale, fino ad allora
rispettato e temuto compartecipe dell’uomo
nel suo progetto di trasformazione e
utilizzazione del mondo, era diventato
semplice materia prima per una continua
ri-creazione delle condizioni date. E lo
Stato (che a Venezia era stato il grande
garante di un equilibrato rapporto tra
l’uomo e l’ambiente) era diventato in ogni
paese d’Europa strumento per l’affermazione
d’ogni borghesia capitalistica, nella
concorrenza feroce con quella d’ogni altra
nazione: per l’impossessamento di
ambienti diversi, di nature
diverse da sfruttare, trasformare, alienare.
La stessa cognizione del tempo era mutata.
Non più misurato sulla durata lunga degli
eventi, sui ritmi delle ricorrenze naturali,
sulla gittata pluriennale delle
trasformazioni più consistenti (la messa a
dimora di un bosco, il consolidamento di un
lido, il rimodellamento d’un sistema
fluviale), l’unità di conto del tempo si
avvicinava sempre di più alla frantumazione
della giornata: all’ora, al minuto, al
secondo. La prospettiva non era più il
succedersi delle generazioni: era una
stagione della vita dell’uomo cui altre, più
ricche, dovevano seguire.
La laguna si trasforma
Basta osservare una mappa della Laguna di
Venezia per rendersi conto degli effetti dei
grandi mutamenti intervenuti nelle coscienze
e nella realtà mondiale, dalla caduta della
Repubblica ai tempi nostri.
Dissolti l’ombrello protettivo delle regole
che tutelavano i regimi proprietari, e la
stessa consapevolezza della laguna come bene
comune, parti estese del territorio lagunare
sono state privatizzate e usate in vista di
tornaconti immediati. Alcune bonificate e
ridotte a campagne, altre trasformate in
bacini chiusi da argini (le valli da
pesca) in cui praticare lucrose attività
itticole, altre ancora, più tardi,
imbonite e convertite in zone
industriali: porzioni consistenti del bacino
sono state sottratte ai ritmi delle acque e
al gioco delle alluvioni e delle maree.
Ridotto così (di circa un terzo in mezzo
secolo) l’ambito dove potevano estendersi le
maggiori alte maree e le piene dei fiumi
sversanti in laguna, sono aumentate
le frequenze e le intensità delle
inondazioni dei centri abitati.
Analogo effetto ha avuto l’approfondirsi dei
maggiori canali d’accesso (disegnati ormai
come rettilinei stradali, e non più
assecondando il disegno naturale delle
acque), e delle stesse bocche di porto,
sia per i dragaggi effettuati onde
consentire l’ingresso alle zone industriali
di navi di grande pescaggio, sia
semplicemente per l’abbandono delle pratiche
di monitoraggio e manutenzione continua che
la Serenissima aveva sistematicamente
condotto. Masse imponenti d’acqua si sono
riversate dal mare alla laguna ogni
volta che la fase lunare, il vento e la
depressione atmosferica aumentavano il
dislivello tra l’acqua esterna e quelle
interne6.
Gli effetti dell’accresciuta immissione di
acque marine e della ridotta superficie del
bacino d’espansione sono stati aggravati da
due ulteriori eventi. Da un lato, il venir
meno dell’attività di manutenzione continua
della rete canalicola nelle zone più lontane
dalle bocche di porto ha reso le
parti marginali della laguna più
difficilmente raggiungibili dall’onda di
marea e, quindi, ha ridotto ancora il bacino
d’espansione efficace. Dall’altro lato, le
esigenze della produzione industriale hanno
provocato, nella terraferma, l’attivazione
di numerosi pozzi di prelievo dell’acqua di
falda, causando l’abbassamento del livello
di quest’ultima e, con essa, di quel
soprastante strato solido di argilla
compattata da millenni (il caranto)
che sorregge i limi e le sabbie su cui
sorgono Venezia e gli altri centri lagunari.
Il collasso e i suoi frutti
Il 4 novembre 1966 l’effetto congiunto della
tracimazione dei fiumi e di un’eccezionale
alta marea marina fece aumentare il livello
delle acque ad un’altezza inusitata, per
molte ore. Si sfiorarono i 200 cm sul
livello medio marino, mentre l’altezza media
su tale livello del piano stradale e dei
piani terra delle abitazioni e dei negozi si
aggirava tra i 100 e i 150 cm. Si gridò alla
catastrofe. L’opinione pubblica mondiale si
commosse temendo che Venezia scomparisse tra
i flutti: se non oggi, in un domani non
lontano.
Si dibattè, si studiò, si comprese, si tentò
di fare. Il lungo lavoro pre-legislativo che
si svolse tra Roma e la laguna con il
puntuale controcanto dei maggiori quotidiani
e che si concluse con la discussione
parlamentare sulla legge 171/1973, approdò a
una nuova consapevolezza del problema, delle
sue cause, delle sue possibili soluzioni.
Si comprese che ogni ulteriore sottrazione
di area alla superficie lagunare doveva
essere vietata e che bisognava studiare i
modi per ripristinare l’antica estensione.
Di conseguenza, si abbandonò per sempre la
devastante iniziativa della realizzazione di
una nuova gigantesca terza zona
industriale, più grande della somma
delle precedenti: le casse di colmata
già realizzate dovevano essere restituite al
gioco delle maree.
In termini più generali, lo Stato assunse il
compito di assicurare la “regolazione dei
livelli marini in laguna, finalizzata a
porre gli insediamenti urbani al riparo
dalle acque alte”, mediante “opere che
rispettino i valori idrogeologici, ecologici
ed ambientali ed in nessun caso possano
rendere impossibile o compromettere il
mantenimento dell’unità e continuità fisica
della laguna”7.
Cominciò d’altra parte ad affacciarsi
l’ipotesi di operare sulle bocche di
porto con restringimenti fissi e, se
necessario, mobili per regolare l’afflusso
delle acque marine, ma si completò questa
soluzione con un mosaico ricco di altri
tasselli. Si prescrisse che nella
definizione delle soluzioni tecniche si
considerasse “l’influenza sul regime
idrodinamico dell’apertura alla espansione
delle maree delle valli da pesca nonché
delle aree già imbonite dalla cosiddetta
terza zona industriale”, che si operasse per
“la riduzione delle resistenze alle maree
della zona nord orientale della laguna”, per
“la riduzione a livello normale dei fondali,
ora profondamente erosi dalle correnti, nel
canale di S. Nicolò nonché allo sbocco in
laguna dei porti-canale di Malamocco e
Chioggia”, per l’aumento “delle dissipazioni
di energia del flusso di marea lungo il
percorso entro i porti-canali”8.
Una visione sistemica e una visione
ingegneristica
Si cominciò a comprendere, insomma, che la
laguna era un sistema, e come tale
doveva essere trattato. Non a caso, si
affidò a un “piano comprensoriale dei comuni
della Laguna di Venezia e Chioggia” il
compito di delineare l’insieme delle
soluzioni territoriali da adottare per
l’insieme dell’area.
Il piano comprensoriale venne
tempestivamente redatto, ma non giunse mai
all’approvazione finale. All’unità di
governo dei tempi della Serenissima la
pasticciata Repubblica italiana aveva saputo
sostituire solo un farraginoso meccanismo,
espressione delle volontà contrastanti (e,
quindi, paralizzanti) di poteri dei comuni e
della regione, e per di più sottoposto
all’approvazione finale di quest’ultima. Un
meccanismo che non funzionò perché non
poteva funzionare.
Ma accanto ad esso, lo Stato, e per esso il
Ministero dei lavori pubblici (e il suo
braccio operativo locale, quale era divenuto
l’antico e glorioso Magistrato alle acque)
agiva secondo le sue logiche. Partiva
l’ideazione e la progettazione di quello che
fu poi denominato MoSE (modulo
sperimentale elettromeccanico), e la
costituzione del soggetto privato cui lo
Stato avrebbe delegato poteri, competenze e
risorse pubbliche per studiare, progettare
ed eseguire il complesso delle opere
ritenute necessarie.
Mentre lo Stato proseguiva in un’ottica che
è definibile solo tardo-ottocentesca (come
argomenterò meglio più avanti), e la regione
affossava il piano comprensoriale, il Comune
di Venezia si attrezzava per poter
collaborare dialetticamente con gli altri
soggetti nell’ambito delle sue limitate
competenze istituzionali (ma dei suoi non
marginali poteri politici). Si affinavano
sul versante comunale, sia pure con risorse
limitatissime, gli studi e le analisi sulla
laguna.
Ripristino dell’ecosistema lagunare
Particolare rilievo ebbe quello intitolato
al “Ripristino, conservazione ed uso
dell’ecosistema lagunare”9. Dopo
aver segnalato come il processo degenerativo
della laguna tendeva a farne
scomparire i connotati specifici e aver
descritto le tendenze in atto e le loro
cause, il documento forniva un quadro
organico degli interventi necessari.
Preso atto che “la difesa della laguna e
degli insediamenti umani dalle acque alte
eccezionali deve essere affrontata con la
processuale realizzazione di specifiche
opere di sbarramento manovrabile per la
chiusura temporanea, ma totale, delle tre
bocche di porto” si afferma che “per
bloccare ed invertire la tendenza
degenerativa in atto e per condurre l’area
lagunare in una situazione nella quale si
possano controllare in modo continuo i
processi evolutivi ambientali è necessario
attuare un insieme di decisioni coordinate
che può essere elencato come segue:
- esclusione di ulteriori emungimenti di
falda al fine di arrestare la subsidenza di
origine antropica;
- recupero di una capacità moderatrice dei
flussi mareali in laguna, operando
sull’attuale assetto delle bocche di porto,
sul sistema di propagazione delle acque nel
bacino lagunare e sull’estensione
dell’ambito di espansione delle maree, così
da pervenire ad una riduzione dei volumi
d’acqua scambiati tra mare e laguna (in
termini non implicanti negative conseguenze
sulla qualità delle acque lagunari, in
relazione all’attuazione dagli interventi di
tutela dagli inquinamenti) e da mitigare la
dinamica delle acque lagunari, conseguendo
una consistente attenuazione dei processi
erosivi e di degrado ambientale nonché la
riduzione dei livelli e delle ampiezze di
marea in laguna e, quindi, della frequenza
con cui le maree medio-basse determinano il
fenomeno delle acque alte;
- tutela dei litorali, a partire
prioritariamente da Pellestrina, attraverso
interventi finalizzati al riassetto della
loro struttura, alla realizzazione di opere
di difesa dall’erosione costiera, al
ripristino di una dinamica naturale di
trasporto costiero ed al ripascimento anche
artificiale dei lidi e dei fondali;
- determinazione degli usi e dei modi d’uso
congruenti con le diverse parti dell’area
lagunare, dei litorali, dell’entroterra, e
pertanto in esse ammissibili;
- abbattimento e controllo degli
inquinamenti dell’acqua e dell’aria”10.
Un’eco dei risultati di questa impostazione
risuona nelle formulazioni della legge che,
dopo un lungo e accanito dibattito
parlamentare, integrò nel 1984 la legge
speciale del 1973. In essa, infatti, si
dichiarava che gli interventi dovevano
essere volti “al riequilibrio della laguna,
all’arresto ed all’inversione del processo
di degrado del bacino lagunare ed
all’eliminazione delle cause che lo hanno
provocato, all’attenuazione dei livelli
delle maree in laguna, alla difesa con
interventi localizzati delle insulae
dei centri storici, ed a porre al riparo gli
insediamenti urbani lagunari dalle acque
alte eccezionali, anche mediante interventi
alle bocche di porto con sbarramenti
manovrabili per la regolamentazione delle
maree”11.
Un compromesso dinamico
In realtà la legge apparve sul momento il
frutto del compromesso tra due logiche,
descritte da Luigi Scano: quella che
“concepisce la laguna veneziana come un
comune bacino d’acqua regolato da leggi
essenzialmente meccaniche”, e quella che
“intende invece la laguna come un delicato
ecosistema complesso, regolato da leggi che,
con qualche forzatura, sono piuttosto
apparentabili alla cibernetica, e rivolge i
propri interessi alla conservazione ed al
ripristino globale delle sue essenziali
caratteristiche di zona di transizione tra
mare e terraferma attraverso un complesso
coordinato di interventi diffusi”12.
Non a caso, gli interventi alle bocche di
porto, i rubinetti mediante i quali
si sarebbe potuto regolare l’afflusso delle
acque marine erano, secondo il dettato della
legge, uno (e non il primo) di una serie di
interventi che si dovevano programmare e,
sistematicamente, realizzare. Ma così non
fu. A volte il potere del legislatore è meno
efficace di quello del gestore della legge.
L’applicazione della legge fu
sostanzialmente affidata al Ministero dei
lavori pubblici, in quegli anni, e non solo
allora, saldamente in mano a quelle forze
(il Psdi di Franco Nicolazzi, la corrente
craxiana del Psi e il potente De Michelis,
parti rilevanti della Dc) che avevano
sposato con entusiasmo la logica
meccanicista e la soluzione dei
rubinetti.
Da allora, tutto il dibattito su Venezia e
la sua laguna si è ridotto al dibattito sul
Mose (modulo sperimentale
elettromeccanico). E la stragrande
maggioranza dei fondi (pubblici) investiti
nella salvaguardia della laguna sono andati
a quello straordinario colosso (e a quel
monstrum istituzionale) che è il
Consorzio Venezia Nuova.
Che cos’è il Mose
Il Mose è, in estrema sintesi, un
sistema costituito da 79 cassoni metallici,
la cui superficie maggiore è di oltre 20
metri per 20, suddivisi in quattro serie
nelle tre bocche di porto: 21+20 alla
Bocca di Lido, 20 a Malamocco, 18 a Chioggia.
Ogni paratia è incernierata in una grande
struttura di calcestruzzo sommersa e,
normalmente, è piena d’acqua. Secondo il
progetto, ogni volta che le previsioni
lasciano presagire che il livello di marea
supererà l’altezza desiderata (si parla
generalmente di +110 cm sul livello medio
marino), un sistema di pompaggio dovrebbe
immettere aria nei cassoni i quali si
solleverebbero e ostacolerebbero così
l’ingresso delle acque marine.
Il sistema prevede consistenti opere
sussidiarie e accessorie, che nel loro
complesso richiederebbero la movimentazione
di 5 milioni di metri cubi di materiali
inerti e comporterebbero l’immissione di
12.055 pali di cemento lunghi dai 10 ai 19
m. e fino a una profondità di -42,5 m., di
5.960 palancole metalliche lunghe da 10 a 28
m., di 157 enormi cassoni di calcestruzzo
armato, di 560.000 mq di pietrame e, infine,
la realizzazione di un’isola artificiale di
135.000 mq, con edifici alti dai 4 ai 10 m e
una ciminiera di 20 m.
Le critiche al Mose
Il progetto ha sollevato numerose e
argomentate critiche. È stato gratificato
d’un ampio e articolato parere negativo
dalla commissione incaricata dal Governo
(ministri Ronchi e Melandri) di effettuare
la valutazione d’impatto ambientale13,
è stato lungamente contrastato dal Consiglio
comunale di Venezia, al quale un parere
ambiguo finale è stato estorto con una di
quelle capriole interpretative delle quali
la bassa politica italiana è maestra14.
Le critiche sono riassunte in modo efficace
in alcuni documenti della Sezione veneziana
di Italia Nostra. Esse possono riassumersi
in un numero relativamente limitato di
punti.
Il progetto provoca danni certi e misurabili
all’ambiente lagunare sia nella lunga fase
di cantiere, nel corso della quale
verrebbero distrutti luoghi di grande rarità
e bellezza (come le dune di Ca’ Roman e
degli Alberoni e la Secca del Bacan), sia
per le stesse trasformazioni progettate
(basti pensare che le gigantesche strutture
sommerse in cui sono incernierati i cassoni
metallici interromperebbero definitivamente
la continuità naturale tra i fondali della
laguna e quelli marini negli unici tre
segmenti sopravvissuti nel processo di
formazione della laguna).
Il progetto difenderebbe i centri abitati
solo dalle alte maree di origine marina, non
dalle alluvioni fluviali (rispetto alle
quali costituirebbe, invece, un ostacolo al
deflusso delle acque). Si fa osservare che
negli eventi eccezionali del 1966 l’apporto
della rottura degli argini dei fiumi fu
determinante, e che a tutt’oggi le
condizioni dell’assetto idraulico sono
addirittura peggiorate. Sarebbe perciò,
oltre che scarsamente efficace al medesimo
fine cui è esclusivisticamente ordinato,
anche rischioso.
Il progettato sistema reagirebbe ad eventi
(alte maree superiori a 110 cm) di cui è
assolutamente incerta la frequenza. Se il
limite dei 110 cm venisse superato troppo
spesso (una delle ipotesi formulate è di 400
chiusure all’anno) la laguna diventerebbe un
bacino chiuso, l’inquinamento sarebbe letale15
e il porto non funzionerebbe più. Se il
livello degli oceani aumentasse oltre i +30
cm il sistema diverrebbe obsoleto, e i
portelloni sarebbero scavalcati dai flutti16.
Il progetto è costosissimo per quanto
riguarda la sua realizzazione (le stime sono
crescenti di anno in anno: ultimamente
raggiungono 7-8.000 milioni di €). La cosa
più straordinaria è che non si sa quanto
costerà la gestione del complesso
meccanismo, né a chi essa sarà affidata, né
chi e come ne sosterrà le spese. Basta
pensare che su un metro quadrato di cassone
metallico si depositano all’anno tra i 10 e
i 35 kg di incrostazioni biologiche,
eliminabili solo smontando i giganteschi
portelloni e lavorandoli a terra.
Il progetto è pericoloso per l’equilibrio
complessivo della laguna anche per due
ulteriori sue conseguenze. Si calcola che
esso rilascerebbe 12 tonnellate/anno di
zinco per effetto della protezione anodica
delle paratoie dalla corrosione; si fa
rilevare che ciò corrisponde al 50%
dell’intero carico ammissibile per l’intero
bacino idraulico gravitante in laguna e che
lo zinco si accumula nel ciclo alimentare. E
si calcola, inoltre, che l’ulteriore
approfondimento dei canali, previsto dal
progetto, e il più intenso scambio con il
mare che ne consegue, comporterebbe un
consistente aumento dell’erosione dei
fondali della laguna: quindi, un salasso
permanente della materia stessa di cui,
insieme all’acqua, la laguna è
costituita.
Gli errori di fondo del sistema Mose
Al di là delle critiche specifiche mi sembra
che al sistema progettato si debbano muovere
due critiche di fondo.
In primo luogo, esso è centrato su uno solo
degli obiettivi che devono essere
perseguiti: la riduzione degli effetti sui
centri abitati delle alte maree eccezionali.
Pur tralasciando il fatto che neppure questo
obiettivo sembra raggiungibile con
attendibili garanzie di successo (nonostante
il costo elevatissimo, e per una parte
rilevante neppure determinato), esso
considera del tutto marginali tutti gli
altri danni subiti dall’ecosistema lagunare,
non interviene su di essi17 ed
anzi in buona misura li accentua.
Così, ad esempio, invece di prevedere la
riduzione dei fondali dei canali principali
che adducono le acque marine, ciò che di per
sé limiterebbe drasticamente gli effetti
delle alte maree, se ne prevede addirittura
l’approfondimento e l’ampliamento della
sezione rispetto a quelle attuali. E per di
più tali trasformazioni sarebbero
irreversibili, poiché realizzate con
gigantesche cementificazioni.
Ciò significa, oltre tutto, che a tutti gli
altri interventi necessari per ripristinare
l’equilibrio dell’ecosistema lagunare (dalla
vivificazione delle zone di laguna interna
alla riapertura delle valli da pesca, alla
manutenzione della rete canalizia minore al
reimpianto della vegetazione degradata ecc.)
vengono destinate risorse del tutto
marginali e insufficienti, senza alcuna
garanzia di continuità e sistematicità
nell’azione.
In secondo luogo, questo stesso obiettivo è
perseguito attraverso tecniche che definire
dure e pesanti è perfino riduttivo.
Tecniche, comunque, ben lontane da quei
criteri di “gradualità, sperimentalità,
reversibilità” che la Serenissima Repubblica
di Venezia aveva perseguito per secoli, che
la cultura nazionale aveva finalmente
compreso essere le parole chiave per la
sopravvivenza della laguna, e che lo
stesso Parlamento italiano aveva inserito
nel corpus legislativo18. Che
cosa di graduale, sperimentale e,
soprattutto, reversibile vi sia nel sistema
proposto è impossibile comprendere.
Una soluzione semplicistica, meccanicistica,
tecnicistica, rigida, parziale là dove la
realtà e la storia pretenderebbero una
soluzione complessa, sistemica, flessibile,
governabile: l’unica adeguata al corpo vivo
della laguna, riduttivamente
assimilato dai promotori del Mose a
un vascone dotato di tre rubinetti.
Una matrice ideologica …
A ben vedere, le matrici di questi errori
sono riconducibili a due, l’una sul versante
della cultura e dell’ideologia, l’altra a
quello istituzionale.
Potremmo definire il sistema Mose
come l’estremo canto di quella ideologia
ottocentesca che affidava la soluzione dei
conflitti, inevitabilmente nascenti dalla
dialettica tra società umana e natura, alla
pesante sostituzione di elementi artificiali
ad ambienti naturali ogni volta che questi
pongono un ostacolo a un’esigenza, reale o
indotta, della società. L’intervento
dell’uomo, insomma, come demiurgica
sostituzione alla natura. Le leggi della
natura sostituite da quelle tecniche del
mondo delle costruzioni. O, più esattamente,
poiché le leggi naturali non sono
eliminabili per decreto, progressiva
riduzione dell’area in cui prevalgono le
leggi naturali ed espansione dell’area
dominata da quelle della tecnica (e del
cemento, dell’acciaio, dell’asfalto). In
definitiva, divisione del pianeta in due
aree, rigidamente distinte, affidate l’una
alla tecnica l’altra alla natura.
Quanto ci sia d’illusorio in questa
ideologia demiurgica, in questo revival
tardo-ottocentesco, ce lo ricordano ogni
anno gli eventi che devastano regioni sempre
più vaste del pianeta. Le vicende della
Laguna di Venezia l’avevano preannunciato
nel lontano 1966. Sembrava che chi sulla
laguna governa (prevalentemente in
capitali lontane da essa) l’avesse compreso.
Così è stato per una stagione troppo breve
per produrre effetti significativi. Le
grandi opere sono tornate di moda. Per
ragioni non solo ideologiche, ma anche molto
materiali. Per comprenderlo veniamo
all’altro aspetto: quello istituzionale.
La matrice istituzionale
Non è un’autorevole istituzione pubblica,
non è un pezzo dello Stato il
protagonista dell’intera operazione di
studio preliminare, sperimentazione,
progettazione, esecuzione dei lavori per la
salvaguardia della laguna. È
un’associazione di industrie private: in
grande prevalenza, industrie del settore
delle costruzioni. Le principali sono la
Impregilo spa (39,4%), la Grandi Lavori
Fincosit (16,65), la Società Italiana
Condotte d’Acqua (2,5%), la Saipem del
gruppo Eni (2,5%), La Mazzi Scarl (1,85%).
Il resto è suddiviso da alcuni
sottoconsorzi, che raggruppano imprese di
minori dimensioni.
Attraverso una serie di passaggi e di atti
amministrativi, a questo pool di imprese è
stato affidato uno straordinario e inusitato
insieme di compiti: è il concessionario
unico ed esclusivo dello Stato per lo
studio, la sperimentazione, la progettazione
e l’esecuzione delle opere necessarie per la
salvaguardia della laguna, tutte
finanziate con fondi pubblici. Le risorse di
straordinaria entità messe a disposizione di
questo monstrum istituzionale sono
tali che esso ha avuto la possibilità di
esercitare un vero monopolio sulla ricerca e
sulla promozione delle soluzioni volta a
volta proposte.
I tentativi di far valere, di fronte ai
tribunali internazionali, l’anomalia di un
affidamento così ampio di compiti senza
alcun ricorso a procedure concorsuali (e,
quindi, al di fuori delle norme di tutela
della concorrenza) sono state abilmente
eluse. Italia Nostra aveva presentato (nel
luglio 1998) un ricorso alla Commissione
europea. Questo era stato accolto ed era
stata aperta una procedura di infrazione
alle direttive europee nei confronti del
governo italiano.
Ma dopo una fase interlocutoria la
Commissione europea ha scelto di dare una
soluzione politica alla questione e con un
compromesso ha chiuso la procedura. Pur
riconoscendo la complessità della questione
e ammettendo di non avere raggiunto certezze
in materia, ha cercato di risolvere la
illegittimità con una soluzione cucita al
filo bianco. Si è deciso che il Consorzio si
impegna a dare in subappalto una parte dei
futuri lavori, tramite gara pubblica
organizzata dal Consorzio stesso. I lavori
alle bocche di porto (Mose) vengono
peraltro lasciati alla piena gestione del
Consorzio Venezia Nuova, che dunque continua
ad essere il concessionario degli interventi
più delicati e più discussi per la
salvaguardia della laguna.
Di fatto, si è creato in laguna un
potere, più forte di tutti quelli presenti
nell’area, nell’ambito del quale la missione
degli attori più rilevanti (la totalità dei
membri del Consorzio) è quella di aumentare
il volume degli affari, quindi la qualità
delle opere da realizzare e dei materiali da
impiegare (acciaio, ferro, cemento). È ben
difficile che, in un simile quadro, l’opera
del Consorzio possa ispirarsi a quei saperi,
a quelle procedure tecniche, a quel saggio
equilibrio di sperimentazione, gradualità,
reversibilità che secoli di saggezza
amministrativa avevano distillato e che la
politica italiana (in una sua fase certo non
eccelsa, ma infinitamente più alta di quella
attuale) aveva compreso e adottato.
Le alternative possibili
Le cose da fare sono note da tempo19.
Si tratta in primo luogo di ridurre
l’afflusso delle acque marine, riportando le
sagome delle bocche di porto e dei canali
d’accesso alle condizioni compatibili con la
navigazione sostenibile dalla laguna.
Questo essenziale intervento evidentemente
contrasta con le esigenze del traffico
petrolifero, il quale dovrebbe di per sé
essere eliminato (la legge lo prevede dal
1973) e con quelle della permanenza del
transito delle gigantesche navi di crociera.
Ed esso imporrebbe di affrontare seriamente
il problema del disinquinamento, soprattutto
di quello dovuto dalle immissioni dalla
terraferma.
Si tratta di ridurre, analogamente, il
rischio di inondazioni da parte dei fiumi,
che contribuirono notevolmente alle
eccezionali acque alte del 1966. Anche la
regolazione dei corsi d’acqua dell’intero
bacino gravitante sulla laguna è impresa
prevista da anni, e in parte già finanziata.
Si tratta poi di lavorare perché la laguna
viva possa riappropriarsi di una parte
almeno degli spazi che le sono stati
sottratti nell’ultimo secolo: oltre alle
casse di colmata della prevista terza
zona industriale (cioè di quelle vaste
aree lagunari già interrate ma non
utilizzate dall’industria), si tratta di
riaprire alle correnti le valli da pesca
privatizzate, sostituendo gli argini in
terra con le tradizionali griglie permeabili
alle maree, e si tratta di riprendere
l’opera di manutenzione della rete
canalicola.
Si tratta di ristabilire il rapporto tra
terra e acqua nella morfologia della
laguna, proteggendo e recuperando le
barene (le formazioni solide volta a volta
sommerse ed emerse per il gioco delle
maree), erose dal moto ondoso e dalla
aumentata idrodinamica del bacino lagunare,
avvalendosi di tecniche di ingegneria
naturalistica molto diverse da quelle hard
impiegate dal Consorzio Venezia Nuova,
reimmettendo in modo controllato e
reversibile una parte delle piene dei fiumi
nel bacino lagunare, al fine di arrestare il
processo erosivo con l’apporto di sedimenti.
Si tratta di proseguire il lavoro
sistematico, da tempo iniziato da
un’apposita azienda comunale, di difesa
locale degli abitati insulari, cioè di
rialzo della pavimentazione veneziana alla
quota di +110/+120: ciò consentirebbe di
eliminare il disagio degli abitanti per la
stragrande quantità degli eventi di acqua
alta.
Si tratta, infine, di approfondire proposte
diverse dal Mose per ridurre
ulteriormente l’immissione di acque marine
in caso di alte maree eccezionali. Idee e
proposte sono state avanzate negli ultimi
anni. Che l’approfondimento progettuale non
sia stato pari a quello che si è avuto per
il Mose è una ulteriore testimonianza
dell’errore di fondo: che è stato quello di
affidare a un unico attore, in condizioni di
monopolio assoluto, le ingenti risorse
statali destinate a studiare, sperimentare e
progettare, con l’unica bussola
dell’interesse del Consorzio. I cui
componenti sono, ricordiamolo, imprese di
costruzioni: strutture degnissime, la cui
missione, la cui cultura e i cui interessi
sono però ben diversi da quelli necessari
per affrontare il problema della laguna
in coerenza e continuità con la tradizione
e, quindi, con la salvaguardia di un bene
universale.
1
Venezia, Chioggia, Campagna Lupia, Mira,
Quarto d’Altino, Codevigo, Iesolo, Musile e,
oggi, Cavallino.
2
Venezia, Padova, Treviso, Vicenza.
3
Si veda: Bevilacqua P. (1995), Venezia e
le acque, Donzelli, Roma, soprattutto
pp. 85 e segg.; Cacciavillani I. (1984),
Le leggi veneziane sul territorio 1471-1789.
Boschi, fiumi, navigazioni, Signum,
Limena.
4
In molti luoghi di Venezia campeggiano
ancora, accanto alle piscine (i luoghi
dedicati alla vendita del pesce), le targhe
in marmo con le dimensioni minime d’ogni
specie vendibile.
5
Bevilacqua P. (1998), cit., p. 21.
6
“Ai primi dell’Ottocento la profondità delle
tre bocche di porto si attestava tra i -3,5
e i -4,5 m (…). Alla fine dell’Ottocento la
profondità raggiungeva i -7 m al Lido e i
-10 m a Malamocco. Nel secolo scorso
l’industria portuale in rapida ascesa e
l’espansione delle attività industriali
necessitavano di fondali ancora più
profondi. Si diede avvio dunque a campagne
di scavo che portarono la bocca di Malamocco
a -14,5 m e si tracciarono i canali Vittorio
Emanuele (-10 m) e Malamocco-Marghera o dei
petroli (-14,5 m) che attraversano la Laguna
come una profonda ferita. La gran massa
d’acqua che entra ora in laguna da questi
varchi così profondi, com’era prevedibile,
ha innescato fenomeni di auto-erosione: nel
1997 la bocca di Malamocco si era portata a
-17 m. Sempre a Malamocco, dentro la bocca,
si trova ora il punto più profondo
dell’Adriatico, -57m!”. Dalla sintesi dei
dati pubblicati in varie sedi ufficiali
redatta per il sito web di Italia Nostra -
Sezione di Venezia (http://www.provincia.venezia.it/italianostra/3laguna/).
7
Legge 16 aprile 1973, n. 171, articolo 12,
comma 2, lettera a).
8
Indirizzi per la redazione del piano
comprensoriale di Venezia approvati dal
Consiglio dei ministri nella seduta del 27
marzo 1975.
9
Comune di Venezia (1982), Ripristino,
conservazione ed uso dell’ecosistema
lagunare, Venezia. Autori erano Corrado
Avanzi, Valentino Fossato, Paolo Gatto,
Riccardo Rabagliati, Paolo Rosa Salva,
Andreina Zitelli; collaboratori Giampaolo
Rallo, Roberto Stevanato; coordinatori
Augusto Ghetti, Roberto Passino. Il
documento costituì la base delle
Osservazioni del Comune di Venezia al
progetto di piano comprensoriale,
Venezia, 1982, da cui sono tratte le
citazioni che seguono.
10
Osservazioni del Comune di Venezia,
cit.
11
Legge 29 novembre 1984, n. 798, articolo 3,
comma 1, lettera a).
12
Scano L. (1985), Venezia: terra e acqua,
Edizioni delle autonomie, Roma.
13
Le ampie conclusioni di questo documento,
insieme ad altri testi relativi alle fasi
più recenti della lunga vicenda del Mose,
sono disponibili sul sito web: http//eddyburg.it.
14
La maggioranza del Consiglio ha approvato un
documento che poneva undici tassative
condizioni, la cui accettazione avrebbe
comportato la revisione integrale del
progetto. Il documento è stato presentato
dal Sindaco allo speciale Comitato
incaricato di approvare il progetto. In tale
sede le condizioni più rilevanti sono
state respinte, e quelle accettate lo sono
state come mere raccomandazioni di cui tener
conto nella fase operativa!
15
Si tenga presente che tutti i liquami della
città sversano in laguna e la depurazione è
oggi assicurata dal ricambio provocato dalle
maree.
16
Le previsioni di innalzamento del livello
medio marino sono previste, negli scenari
calcolati dall’Intergovernamental Panel of
Climate Change per il prossimo secolo, in
valori variabili tra i +9 e +88 cm, con una
maggiore probabilità per il valore +48 cm.
Il Mose è basato, invece, sulla
previsione di un aumento massimo di soli +22
cm. Paolo Antonio Pirazzoli (Centre National
de la Recherche Scientifique, Meudon, France),
“Did the Italian Government Approve an
Obsolete Project to Save Venice?”, in Eos,
Transactions, American Geophysical Union,
vol. 83, n. 20, 14 May 2002, pp. 217-223.
17
E quando interviene sul resto della
laguna lo fa con tecniche e risultati
molto criticabili.
18
Legge 798/1984. È opportuno ricordare a
questo proposito che un ulteriore
provvedimento legislativo speciale, la legge
139/1992, prescrive che prima di avviare la
costruzione del Mose si debba
provvedere al riequilibrio idraulico della
laguna, all’estromissione del
traffico petrolifero e alla apertura delle
valli da pesca.
19
Una sintesi esauriente degli interventi
proposti è nel sito
http://www.provincia.venezia.it/italianostra/3laguna/3laguna.htm,
e nel fascicolo La salvaguardia di
Venezia dalle acque alte. Un piano di azione
strategico alternativo al Mose, a cura
della Sezione di Venezia di Italia Nostra e
del Comitato Salvare Venezia e la Laguna,
gennaio 2003. |