Tre sono le novità di rilievo che
condizioneranno fortemente i destini del
territorio e del suo ordinato sviluppo
emerse tra la fine del 2003 e l’inizio del
2004: la rinnovata edizione del condono
edilizio; il cammino parlamentare della
riforma urbanistica; il nuovo Codice dei
beni culturali e del paesaggio.
Solo il terzo è ascrivibile al novero delle
disposizioni normative certe che
concorreranno alla gestione del territorio
per il prossimo futuro.
Incerto è, infatti il percorso della riforma
urbanistica, più volte tentata nelle
precedenti legislature, purtroppo senza il
successo conclusivo della definitiva
approvazione, come appena nel 2000 accadde
all’ottimo disegno di legge recante “norme
per il governo del territorio”, tenacemente
portato avanti dalla VIII Commissione
parlamentare della Camera dei deputati.
Come incerto è l’esito della terza edizione
del condono edilizio, dopo l’esperienza non
felice del 1985, confermata ancora più in
negativo con la replica del 1993.
Ciò non perché il Governo Berlusconi,
artefice anche del precedente condono, con
la già sperimentata inclusione nella legge
finanziaria dello Stato, non lo abbia
elevato a dignità di legge, ma perché ben
otto regioni hanno sollevato questioni di
costituzionalità dinanzi alla suprema corte
e lo stesso Governo ha impugnato le numerose
leggi regionali che, indipendentemente
dall’appartenenza politica delle
amministrazioni elette, hanno diffusamente
teso a vanificarne gli effetti, in tutto o
in parte, o, comunque, a rendere di gran
lunga più strette le maglie della potenziale
perdonabilità.
Rimandando, quindi, il commento di areAVasta
su tali vicende ai loro esiti conclusivi,
appare doveroso concentrarsi sul Codice
dei beni culturali e del paesaggio, il
cui testo è stato approvato in via
definitiva dal Consiglio dei ministri il 16
gennaio 2004, nella forma di DLgs 22 gennaio
2002, n. 42.
Esso è andato a sostituire, abrogandolo
totalmente, il pur recente DLgs 490/1999,
riguardante il Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di beni
culturali e ambientali, a norma
dell’art. 1 della legge 352/1997.
Con esso il governo era stato “delegato ad
emanare, ... , un decreto legislativo
recante un testo unico nel quale siano
riunite e coordinate tutte le disposizioni
legislative vigenti in materia di beni
culturali e ambientali …” ed autorizzato ad
“inserite nel testo unico le disposizioni
legislative vigenti …”, potendo apportare
“esclusivamente le modificazioni necessarie
per il loro coordinamento formale e
sostanziale, nonché per assicurare il
riordino e la semplificazione dei
procedimenti”.
Con il successivo art. 10 della legge
137/2002 il Governo è “delegato ad adottare
... uno o più decreti legislativi per il
riassetto e ... la codificazione delle
disposizioni legislative in materia di: beni
culturali e ambientali …”.
I suddetti decreti legislativi, “senza
determinare nuovi o maggiori oneri per il
bilancio dello Stato”, si sarebbero dovuti
attenere agli articoli 117 e 118 della
Costituzione; adeguare “alla normativa
comunitaria e agli accordi internazionali”;
favorire il “miglioramento dell’efficacia
degli interventi concernenti i beni e le
attività culturali, anche allo scopo di
conseguire l’ottimizzazione delle risorse
assegnate e l’incremento delle entrate”; ed
indicare le “… politiche pubbliche di
settore, anche ai fini di una significativa
e trasparente impostazione del bilancio …” e
lo “… snellimento e abbreviazione dei
procedimenti; adeguamento delle procedure
alle nuove tecnologie informatiche …”.
Inoltre, avrebbero dovuto “… aggiornare gli
strumenti di individuazione, conservazione e
protezione dei beni culturali e ambientali,
anche attraverso la costituzione di
fondazioni aperte alla partecipazione di
regioni, enti locali, fondazioni bancarie,
soggetti pubblici e privati, senza
determinare ulteriori restrizioni alla
proprietà privata, né l’abrogazione degli
strumenti attuali e, comunque, conformandosi
al puntuale rispetto degli accordi
internazionali, soprattutto in materia di
circolazione dei beni culturali;
riorganizzare i servizi offerti anche
attraverso la concessione a soggetti diversi
dallo Stato mediante la costituzione di
fondazioni aperte alla partecipazione di
regioni, enti locali, fondazioni bancarie,
soggetti pubblici e privati, in linea con le
disposizioni di cui alla lettera b-bis) del
comma 1 dell’articolo 10 del decreto
legislativo 20 ottobre 1998, n. 368, e
successive modificazioni; adeguare la
disciplina degli appalti di lavori pubblici
concernenti i beni culturali, modificando le
soglie per il ricorso alle diverse procedure
di individuazione del contraente in maniera
da consentire anche la partecipazione di
imprese artigiane di comprovata
specializzazione ed esperienza, ridefinendo
i livelli di progettazione necessari per
l’affidamento dei lavori, definendo i
criteri di aggiudicazione e prevedendo la
possibilità di varianti oltre i limiti
percentuali ordinariamente previsti, in
relazione alle caratteristiche oggettive e
alle esigenze di tutela e conservazione dei
beni; ridefinire le modalità di costituzione
e funzionamento degli organismi consultivi
che intervengono nelle procedure per la
concessione di contributi e agevolazioni in
favore di enti ed istituti culturali, al
fine di una precisa definizione delle
responsabilità degli organi tecnici, secondo
princìpi di separazione fra amministrazione
e politica e con particolare attenzione ai
profili di incompatibilità; individuare
forme di collaborazione, in sede
procedimentale, tra le amministrazioni per i
beni e le attività culturali e della difesa,
per la realizzazione di opere destinate alla
difesa militare …”.
In sostanza, il Governo è stato autorizzato
a legiferare nel modo più ampio possibile,
essendo improbabile, a meno di risultati
eclatanti, la formulazione di una qualsiasi
norma che possa, in un modo o nell’altro,
dirsi non ascrivibile al dettagliato ed
omnicomprensivo elenco degli obiettivi
delineati dalla legge 137/2002.
Da soli, i 184 articoli del Codice dei
beni culturali e del paesaggio (Cbcp),
rispetto ai 166 del DLgs 490/1999 (Tu),
tenderebbero a denotare una maggiore
articolazione e specificazione nella
trattazione della materia nel suo complesso.
La Parte III - Beni paesaggistici
si compone, viceversa, di 29 articoli (da
131 a 159), rispetto ai 25 (da 138 a 162)
del testo abrogato.
Veniamo, quindi, alle novità introdotte dal
Cbcp, limitando il commento alle questioni
afferenti ai suddetti beni paesaggistici
che perdono la connotazione di ambientali,
introdotta nel Tu.
|
1. Bitonto |
Le disposizioni generali
La denominazione della Parte III del
Cbcp fa, infatti, riferimento al paesaggio e
non più anche all’ambiente, quindi,
all’insieme dello spazio “considerato con
tutte o con la maggior parte delle sue
caratteristiche”1.
Con il termine paesaggio si fa, viceversa,
riferimento ad una “porzione di territorio
considerata dal punto di vista prospettico o
descrittivo, per lo più con un senso
affettivo cui può più o meno associarsi
anche un’esigenza di ordine artistico ed
estetico”2, definizione che
concettualmente coincide con quella data
dallo stesso Cbcp, che precisa come “per
paesaggio di intende una parte omogenea di
territorio i cui caratteri derivano dalla
natura, dalla storia umana o dalle
reciproche interrelazioni”.
Si è messo a confronto la suddetta
definizione normativa di paesaggio con
quella estratta da un dizionario di
italiano, quindi, con caratteri di
semplicità e stabilità linguistica, per
sgombrare il campo da ipotesi di approcci
innovatori che il Cbcp avrebbe praticato.
Già dalle denominazioni utilizzate, emerge
come si tratti di un testo che non solo non
recepisce una visione in evoluzione del
paesaggio, ma opera un arretramento rispetto
alla stessa legge 431/1985, nota come
legge Galasso dal nome del
sottosegretario ai beni culturali e
ambientali dell’epoca che la ideò,
riposizionando la nozione di paesaggio nella
consolidata tradizione valoriale delle
origini, così come da sempre interpretata
dalle Soprintendenze.
Coerentemente, i beni paesaggistici
sono oggetto di tutela e valorizzazione
operata dai piani paesaggistici che
sostituiscono i piani territoriali
paesistici introdotti dalla legge
fondativa 1497/1939.
Vero è che i piani paesaggistici possono
trovare un’alternativa nei “piani
urbanistico-territoriali con specifica
considerazione dei valori paesaggistici”
(art. 35, comma 1), ma il messaggio
culturale e politico che emerge è il
ridimensionamento della visione territoriale
del paesaggio.
Una visione derivante da un approccio che,
sin dalle origini, senza tuttavia
svilupparlo compiutamente, apriva il
concetto di paesaggio all’area vasta
e che, successivamente, avrebbe consentito
di maturare l’idea contemporanea di
ambiente, quale insieme indivisibile di una
pluralità di elementi e relazioni fra essi
intercorrenti, nello spazio e nel tempo.
Paradossalmente, essendo i piani
paesaggistici “concernenti l’intero
territorio regionale” (art. 35, comma 1), si
potrebbe avanzare l’ipotesi che le regioni,
che sono confermate nella competenza di
formarli, siano impegnate nell’assoggettarvi
esaustivamente il proprio ambito geografico,
collidendo con altre forme di pianificazione
territoriale, ora attribuite formalmente
alle province.
Tale ipotesi, discutibile per via di una sua
rigidità e pesantezza
tecnico-amministrativa, non sarebbe,
tuttavia, priva di suggestioni
politico-culturali.
La tanto spesso giustamente enfatizzata
coincidenza dell’intero territorio nazionale
con un solo ed indivisibile bene culturale e
ambientale avrebbe così sortito una prima
ricaduta operativa e fornito una strumento
concreto.
A ben vedere, la ricaduta, come sarà più
chiaro nel seguito, rischia di essere
diametralmente opposta.
Le regioni assoggettano ai piani
paesaggistici porzioni di suolo che
concernono il – leggi ricadono nel
– territorio di competenza e, quindi,
possono deciderne l’estensione, anche
revisionando i perimetri delle aree
assoggettato a vincoli paesistici imposti
dalle normative previgenti.
|
2. Roma Centocelle |
L’individuazione dei beni paesaggistici
Se le caratteristiche degli immobili e delle
aree da ritenere di notevole interesse
pubblico rimangono pressoché identiche a
quelle già descritte nel Tu, che le
riprendeva pedissequamente, sia nella
sostanza che nel lessico, dalla legge
1497/1939, dimostrando una
pietrificazione scientifico-culturale
forte di 65 anni di vita, una novità
rilevante deriva dalla soppressione dei
cosiddetti vincoli ambientali di natura
tipologica, introdotti dalla legge 431/1985.
Essi avevano avuto diversi meriti:
- avevano semplificato le procedure di
individuazione delle aree sensibili,
classificandole contestualmente ed in
maniera certa;
- avevano aperto la strada della transizione
concettuale tra paesaggio ed ambiente;
- avevano condotto sotto tutela paesistica
quasi la metà del territorio nazionale -
intorno al 47%.
L’attenzione a tali territori dovrà essere
riconfermata, pena la successiva decadenza,
a seguito della specifica inclusione dei
relativi territori nel piano paesaggistico
di iniziativa regionale, cui il Cbcp fa
riferimento al singolare, ma che sarà
conformato a macchie di leopardo.
In particolare, fiumi, torrenti e corsi
d’acqua, anche prima dell’approvazione del
piano paesaggistico, potranno essere
sottratti alla precedente tutela qualora,
“in tutto o in parte, siano ritenuti
irrilevanti ai fini paesaggistici e pertanto
inclusi in un apposito elenco redatto e reso
pubblico dalla regione competente” (art.
142, comma 3).
Ma come si può verificare che un fiume possa
non essere annoverato, per definizione, fra
quegli habitat in cui componenti della più
varia natura interagiscono conferendogli
pregi di indiscutibile valore paesaggistico,
oltre che ambientale?
Anche i fiumi più inquinati - ricorre sempre
a tal proposito il nome del Sarno in
Campania - sono da risarcire delle
perdite di valore paesaggistico subite negli
anni e, quindi, dovrebbero continuare ad
essere tutelati, possibilmente in modo più
efficace.
Invece, alcuni di essi si pensa di
declassarli quali figli di una natura
minore.
Volendo praticare una forma di cinico
realistico ambientale, si potrebbe anche
concludere per la irrecuperabilità di alcuni
episodi, almeno nel breve-medio periodo, ma
la disposizione del Cbcp, con tutta
probabilità, non sarà chiamato solo a
verificare le sorti terminali di alcune aste
fluviali, bensì scatenerà una pressione
permanente dei proprietari degli immobili
limitrofi all’ampio reticolo idrografico
superficiale che pervade capillarmente il
paese, al fine di sottrarre i propri suoli
alle tutele previgenti.
Il soggetto abilitato a gestire la
individuazione dei beni pesistici è la
commissione provinciale, nella quale i
sindaci sono esclusi rispetto al Tu,
rimanendo l’obbligo della loro audizione.
Non è dato di essere certi se la suddetta
commissione provinciale abbia facoltà
nel proporre sia la individuazione sia la
rimozione della tutela paesaggistica estesa
a determinati suoli o immobili, né è
chiarita la sua durata in carica.
Ciò perché il Cbcp appare, complessivamente,
di contorta lettura e denso di riferimenti a
sé stesso, non mancando comma di articolo
che non subordini effetti alle
determinazioni di altri, a loro volta
rimandanti a catene di commi sparsi
nell’intero articolato normativo.
|
3. Amsterdam |
La pianificazione paesaggistica
Anche nell’inquadramento della forma di
piano preposto alla tutela paesaggistica, il
Cbcp appare sufficientemente contorto,
miscelando azioni, livelli e controlli in
modo da renderne disagevole la comprensione.
Esso ripartisce il territorio in ambiti
omogenei, per livelli differenziati di
pregio paesaggistico, nei quali detta, fra
l’altro, “la previsione di linee di sviluppo
urbanistico ed edilizio” (art. 143, comma 2,
lett. b) e individua “le misure necessarie
al corretto inserimento degli interventi di
trasformazione del territorio nel contesto
paesaggistico” (art. 143, comma 3, lett. g).
Come si può vedere, il piano paesaggistico
non pone in modo residuale il tema delle
trasformazioni edilizie ed urbanistiche in
aree assoggettate a tutela, anzi finisce
per evidenziarne il ruolo baricentrico
nella nuova politica di gestione del
territorio.
È la risposta che, nell’attuale fase
politica, il Governo dà al problema reale
dello sviluppo economico del paese,
pervasivamente disseminato di beni culturali
e paesaggistici per buona parte della sua
estensione geografica.
Lo stesso codice fa riferimento alle “azioni
e … investimenti finalizzati allo sviluppo
sostenibile delle aree interessate” (art.
143, comma 3, lett. g).
È evidente che la sostenibilità dello
sviluppo in aree di pregio paesaggistico non
attiene alle modalità di trasformazione
fisica, se non in forma minimale e con
connotati di necessità estrema, come nel
caso di alcune importanti infrastrutture –
non facendo qui assolutamente riferimento al
ponte sullo Stretto di Messina - quanto alle
forme di uso e di riconversione d’uso che si
possono favorire nei preesistenti
insediamenti urbani, che in tutto il
territorio italiano e, in particolare, nelle
sue aree di maggiore valore naturalistico e
ambientale, si sono massicciamente diffusi
ed accresciuti negli ultimi 50 anni.
Per quanto attiene ai territori che il piano
paesaggistico deve obbligatoriamente
ricomprendere, sono da includervi le aree
assoggettate a tutela con atto
amministrativo esplicito, gli ambiti
tipologici già individuati dalla legge
431/1985 che si riterrà di considerare
meritevoli di tutela, altre aree “da
sottoporre a specifiche misure di
salvaguardia e utilizzazione” (art. 143,
comma 3, lett. c).
È stato sottolineato, da più parti, come un
successo il fatto che il piano paesaggistico
possa estendere la propria efficacia anche a
territori non formalmente assoggettati a
tutela, mentre il vecchio piano territoriale
paesistico, almeno così si riteneva non
essendo chiara la norma di riferimento,
poteva riguardare solo i territori oggetto
di vincolo.
Ma quali potranno essere tutte quelle aree
sfuggite ai decreti paesistici imposti
nell’ultimo secolo dallo Stato nè inclusi
fra i territori tipologicamente vincolati
dalla legge 431/1985?
In effetti, è come se il Cbcp avesse
aggiunto una marcia in più al motore della
riforma, ma ne avesse drasticamente ridotto
la potenza.
Un punto di evidente arretramento e di
aumento della confusione generati dal Cbcp
sta nel “coordinamento della pianificazione
paesaggistica con altri strumenti di
pianificazione” (art. 145).
Il DLgs 112/1998 aveva avviato il processo
di integrazione e di reductio ad unum
delle varie forme di pianificazione
territoriale - le cosiddette
pianificazioni separate - in anni
recenti invocato da più parti, dagli enti
locali alle forze sociali ed
imprenditoriali.
All’art. 57, concernente “pianificazione
territoriale di coordinamento e
pianificazioni di settore”, si disponeva che
“La regione, con legge regionale, prevede
che il piano territoriale di coordinamento
provinciale di cui all’articolo 15 della
legge 8 giugno 1990, n. 142, assuma il
valore e gli effetti dei piani di tutela nei
settori della protezione della natura, della
tutela dell’ambiente, delle acque e della
difesa del suolo e della tutela delle
bellezze naturali, sempre ché la definizione
delle relative disposizioni avvenga nella
forma di intese fra la provincia e le
amministrazioni, anche statali, competenti.
In mancanza dell’intesa di cui al comma 1, i
piani di tutela di settore conservano il
valore e gli effetti ad essi assegnati dalla
rispettiva normativa nazionale e regionale.”
Il Cbcp, viceversa, dispone che “le
previsioni dei piani paesaggistici … sono
cogenti per gli strumenti urbanistici dei
comuni, delle città metropolitane e delle
province, sono immediatamente prevalenti
sulle disposizioni difformi eventualmente
contenute negli strumenti urbanistici,
stabiliscono norme di salvaguardia
applicabili in attesa dell’adeguamento degli
strumenti urbanistici e sono altresì
vincolanti per gli interventi settoriali.
Per quanto attiene alla tutela del
paesaggio, le disposizioni dei piani
paesaggistici sono comunque prevalenti sulle
disposizioni contenute negli atti di
pianificazione”.
È palese come si contrappongano due
filosofie di governo del territorio: l’una,
basata sulla preminenza della pianificazione
territoriale di coordinamento di competenza
provinciale, orientata a ricomprendere la
tutela e la valorizzazione del paesaggio e,
più in generale, dell’ambiente, quale
momento ordinario ed intrinseco alle scelte
di tutela ed uso del suolo; l’altra,
aggrappata ai meccanismi di
sovraordinazione fra differenti
previsioni di assetto territoriale, tesa a
ritagliarsi una nicchia di territori
paesaggisticamente pregiati all’interno del
perimetro regionale, per i quali decidere
sulla sostenibilità di trasformazioni,
finalizzate ad uno “sviluppo urbanistico ed
edilizio compatibili con i diversi livelli
di valore riconosciuti e tali da non fare
diminuire il pregio paesaggistico del
territorio, …” (art. 142, comma 2, lett. b).
Le contraddizioni diventano ancora più
stridenti solo a ricordare anche l’art. 25
della legge quadro sulle aree protette
394/1991, allorquando dispone che “Il piano
per il parco … ha valore anche di piano
paesistico e di piano urbanistico e
sostituisce i piani paesistici e i piani
territoriali o urbanistici di qualsiasi
livello”.
Per altro, nel caso di parchi regionali la
competenza apparterrebbe al medesimo ente
titolare della pianificazione paesaggistica,
mentre, nel caso di parchi nazionali, si
fronteggerebbero competenze statali e
regionali.
Il Cbcp non provvede ad abrogare nessuna
delle norme evidenziate.
In definitiva, per le ricadute sul governo
del territorio, esso contribuisce a frenare
in tema di pianificazione di area vasta,
quale strumento organico della
programmazione economica e dello sviluppo
locale, ambientalmente sostenibile ovunque e
non solo nelle più limitate che nel passato
zone assoggettate a tutela paesistica.
Fermo restando le perplessità, prima
evidenziate, in merito al carattere dei
contenuti sui quali il Cbcp poggia il
ricongiungimento fra tutela e sviluppo.
Vera e più avanzata riforma dei beni
paesaggistici sarebbe stata se si fosse
previsto il definitivo superamento della
pianificazione territoriale paesistica e la
sua stabile ed organica integrazione con la
pianificazione territoriale di
coordinamento, affidandola all’attuale ente
intermedio e riferita all’interezza
dell’ambito provinciale, tale da essere così
esaustiva dell’intero territorio nazionale.
Si sarebbe così perseguita l’idea di un
paesaggio non più estetizzante e rinvenibile
episodicamente per scorci e punti di vista,
ma coincidente con il territorio nel suo
complesso; un paesaggio urbano, periubano ed
axtraurbano; naturale ed antropizzato;
agrario ed industriale; di pianura,
collinare e montano; costiero e interno.
Un paesaggio da riprogrammare con
modalità sapientemente articolate, ma da
migliorare ovunque, sia nelle aree meno
contaminate sia nei luoghi della
frantumazione insediativa tipica dell’ultima
metà del ‘900.
|
4. Edimburgo |
1
Devoto G, Oli G. C., Il dizionario della
lingua italiana, Le Monnier, 2000,
Firenze.
2
Idem.
Il titolo dell’editoriale si ispira ad una
battuta di Ennio Flaiano, “Certo, certissimo
… anzi probabile”, divenuta famosa dopo
essere stata utilizzata per lanciare, nel
1969, un film di Marcello Fondato, tratto
dal racconto Diario di una telefonista
di Dacia Maraini.
1. Bitonto
2. Roma Centocelle
3. Amsterdam
4. Edimburgo
Le immagini sono tratte da Albrecht B.,
Benevolo L. (1994), I confini del paesaggio
umano, Editori Laterza, Bari |