La sessione tematica coesione e competizione
ha funzionato da catalizzatore rispetto alle
altre forse per il motivo che risultava
quella in cui si condensava maggiormente la
discussione sugli obiettivi a cui bisognerà
tendere in questa contingenza economica e
politica. Inevitabilmente, nel parlare di
quegli argomenti, si viene proiettati nella
dimensione europea e nelle svolte cruciali
che attraversa con l’allargamento e la nuova
costituzione, i cui effetti si riversano sui
programmi dell’Unione, come i Fondi
strutturali. Ipotizzando che gran parte del
Mezzogiorno non esca dall’Obiettivo 1, la
riforma a cui si lavora richiede una messa a
punto di indirizzi per il futuro che
comunque può migliorare le nostre azioni di
sviluppo. Non potendo presentare un
resoconto esaustivo delle relazioni tenute,
ho colto alcuni spunti di riflessione che,
partendo da definizioni di base, possano
portarci ad indicazioni di linee di lavoro
fertili.
L’immediata contraddittorietà dei termini
coesione e competizione induce ad
esercizi, non solo lessicali, di
interpretazione che superino l’immediata
evidenza della loro inconciliabilità. L’aver
adottato queste parole d’ordine nella
politica europea di sviluppo regionale, ha
attirato le critiche di incoerenza da parte
degli studiosi. È evidente che la
competizione è indispensabile per sostenere
i ritmi di sviluppo dell’Unione, ma non si
può negare che genera squilibri: come
conciliarla, quindi, con la coesione?
Alla Conferenza nazionale del territorio, i
due relatori ufficiali hanno dato risposte
diverse a questa fondamentale domanda, da
cui possono derivare implicazioni importanti
per la pianificazione dello sviluppo.
Alla coesione, Lanfranco Senn1,
ha attribuito la funzione redistributiva,
propria delle politiche pubbliche, capace di
compensare i fallimenti del mercato. In
presenza di risorse ed opportunità scarse,
risulta inevitabile che lo sviluppo di
alcune aree avvenga con velocità diversa
rispetto ad altre, in un regime di
competizione in cui si registrano premi
tangibili per le regioni di successo, come
ricompensa dei loro sforzi e capacità,
rispetto a regioni svantaggiate o dalle
performances meno efficaci,
simmetricamente penalizzate da inferiori
livelli di benessere. Questa dinamica
competitiva genera squilibri che potrebbero
essere generatori di conflitti se non
intervenissero politiche di coesione
territoriale con l’intento di ridurre le
differenze nella distribuzione dei redditi
nello spazio.
Poiché entrano in gioco le risorse, ricavate
con la tassazione ed impiegate attraverso
una gamma molto differenziata di
allocazione, è inevitabile che su queste
scelte si formino diversi schieramenti,
portatori anche di gruppi di interessi,
direttamente coinvolti tanto nella fase
negativa di prelievo finanziario che in
quella di aiuti e di facilitazioni. La
polarizzazione tra i due termini coesione
e competizione è giunta così, sotto
la spinta di tali interessi, fino alla
convinzione della loro inconciliabilità ed
ha portato allo scontro - secondo Senn di
natura ideologica - tra efficientisti e
solidaristi schierati rispettivamente sulla
competitività o sulla coesione quali
indirizzi esclusivi per la migliore politica
di sviluppo. Per i primi, gli aiuti alle
regioni in ritardo di sviluppo sono solo
fondi sprecati perché inevitabilmente
risolti nell’alimentazione di un
assistenzialismo parassitario, nel mantenere
in vita imprese inefficienti impedendo, nel
contempo, la creazione delle condizioni per
la nascita di nuove e migliori. Per i
secondi le regioni prospere si avvantaggiano
di condizioni più favorevoli di partenza per
mantenere in posizione subordinata e
dipendente le regioni meno sviluppate,
impedendo che vengano efficientemente
valorizzate le risorse in esse presenti - un
vero e proprio spreco di potenziali
economici in assoluto - per condurre a
migliori condizioni di vita ed alla parità
dei diritti di cittadinanza tra gli abitanti
di tutta la nazione.
Se oggi possiamo registrare una qualche
opinione condivisa forse dobbiamo limitarci
a quelle negative come l’idea che la
politica di coesione europea non può essere
considerata come la compensazione data alle
nazioni ed alle regioni deboli per
compensarli dell’apertura dei mercati e,
quindi, della perduta protezione nazionale,
come recita anche il Secondo Memorandum
Italiano sulla riforma della politica
regionale di coesione comunitaria2.
Massimo Lo Cicero si pone, invece, in una
prospettiva aziendale dalla quale cerca di
evidenziare un coerente legame tra la
competizione e la coesione. Egli
li presenta come le due facce della stessa
medaglia: al pari di ogni vivente, imprese o
gruppi hanno una duplice esigenza, quella di
essere coesi al loro interno per competere
verso l’esterno. In questi termini, appare
evidente la complementarietà dei due termini
poiché il rafforzamento della coesione può
essere funzionale alla competizione. È pur
vero che la condizione di equilibrio è
quella che determina i migliori risultati
dato che l’eccedere in coesione porta ai
regimi monopolistici che per la loro
inefficienza diventano autodistruttivi, così
come la degenerazione della competizione
frammenta il sistema in unità minime
altamente conflittuali fino a diventare
autodistruttivo. Quanto osservato per
l’impresa si può estendere alla città ed al
territorio, con l’avvertenza che la
collaborazione è condizionata dai costi di
transazione e dagli effetti sinergici. I
primi determinano le condizioni di
convenienza economica delle scelte tra
internalizzazione o esternalizzazione -
rispetto all’azienda - dei processi
produttivi: se la gestione delle operazioni
avviene a costi (di transazione) più bassi
all’interno di una struttura gerarchica
unificata - l’azienda - oppure se è più
conveniente ricorrere al mercato. Allo
stesso modo sarà invogliato a realizzare
alleanze, costruire partnership chi
troverà, come risultato degli sforzi
congiunti, un valore superiore alla somma
degli apporti individuali.
Sembrerebbero due approcci la cui differenza
consiste nella previsione o meno del
soggetto pubblico e delle sue politiche.
Nella visione di Senn, questo attore svolge
la funzione di rimediare ai fallimenti del
mercato, sanando, ad esempio, gli squilibri
regionali, negativi tanto per la convivenza
civile che per il percorso di sviluppo, come
abbiamo appena detto. Questo attore è
assente nella visione di Lo Cicero. Sulla
sua scena si muovono solamente individui,
organizzazioni, città. Essa è popolata di
attori economici razionali. Come vedremo in
seguito, egli individua dei limiti alla loro
azione e delimita ciò che va oltre la
portata di questo settore privato, il campo
di intervento dello Stato. Ciò non toglie
però che tali individui siano dediti a fare
piani per se stessi ed a unirsi in azioni
collettive quando ciò diventa indispensabile
a raggiungere i propri scopi o ne facilità
ed ottimizza il perseguimento. Potremmo
anche chiamare queste azioni di mutuo
aggiustamento una micropolitica di
coesione territoriale, la quale obbedisce
alle leggi di costi di transazione e di
sinergia appena citate e, quindi, seguendo
Lindblom, non ha bisogno della
pianificazione come dell’intervento dello
Stato. Ma il riconoscimento di tale modalità
di funzionamento dell’economia deve
implicare necessariamente la conclusione di
lasciar fare o può essere, invece, un
insegnamento per costruire programmi più
adeguati e corrispondenti all’andamento
spontaneo dei comportamenti degli attori
economici per facilitare, sostener ed
accelerare questi processi, specialmente
nelle regioni in ritardo di sviluppo?
La risposta positiva a questa domanda
implica che è possibile aggiungere alle
politiche redistributive per il riequilibrio
regionale, richiamate da Senn, politiche di
autosviluppo locale3. Con queste
precisazioni, non abbiamo legittimato i
piani di sviluppo locale una volta per
tutte, né data una soluzione definitiva al
dibattito che coinvolge tanti punti
specifici dei programmi per il riequilibrio
regionale e la loro attuazione, quali i
Patti territoriali o i Fondi strutturali.
Quella appena tracciata può essere comunque
la chiarificazione di un approccio che
propone un determinato equilibrio del ruolo
delle imprese e dello Stato, che esplora un
terreno intermedio tra l’estremo liberismo
del rifiuto di ogni forma di incentivazione
se non di tipo automatico (Rossi) ed il
dirigismo statalista di una pianificazione
dall’alto sulla base di bisogni teorici,
senza la mobilitazione degli attori, o
peggio nella coltivazione di clientele
elettorali parassitarie.
Questo spazio d’azione consente una
pianificazione del territorio in stretto
contatto con le esigenze delle imprese, come
rimozione degli ostacoli e facilitazione
delle condizioni per la costruzione di
filiere, riduzione dei costi di transazione4,
incoraggiamento alle collaborazioni, insieme
al miglioramento delle condizioni esterne
all’azienda come fornitura di servizi
qualificati e a costi contenuti,
miglioramento del mercato del lavoro e delle
infrastrutture. Di fatto, una pianificazione
di questo tipo - che non fa una netta
separazione tra i due settori pubblico e
privato - è quella maggiormente innovativa.
Essa si propone di istituire un dialogo tra
il mondo delle imprese e le istituzioni -
specialmente locali - per comprendere meglio
i loro problemi e dare loro delle risposte.
Ma anche - questione ancora più importante -
costruire sistemi locali coesi e perciò
altamente competitivi, attraverso la
capacità di interazione tra le diverse
componenti. Oggi, nella pianificazione, è
molto più semplice realizzare questo dialogo
in quanto abbiamo avuto, nel settore
privato, un rigoglioso sviluppo della
pianificazione aziendale, come la
pianificazione strategica, la quale è
riuscita ad affermarsi anche nel settore
pubblico, grazie alla sue radici nella
pianificazione razionale ed all’evoluzione
che è riuscita a innescare in quel ceppo di
comune origine con la pianificazione
territoriale. In questo modo siamo giunti
non solo ad una uniformità di linguaggi -
sebbene non possiamo nasconderci i molti
equivoci ancora esistenti - ma anche alla
possibilità concreta di costruire arene
decisionali comuni in cui si incontrino
piani delle imprese tra di loro e, assieme,
contribuiscano al piano di una comunità5.
Alberto Clementi ha sottolineato, nelle sue
conclusioni, l’importanza dell’idea, emersa
nel corso della conferenza, che a fondamento
della coesione esiste la capacità di
interagire, di costruire reti e fare
progetti comuni. Ma ha anche avvertito delle
difficoltà che si trovano ancora nella
resistenza di una cultura urbanistica,
ancorata alle sue prassi, ad aprirsi verso
l’integrazione con i programmi di sviluppo.
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Figura 1 - Logo del Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti per
la seconda Conferenza nazionale del
territorio, Caserta 12-14 giugno
2003 |
Il campo di applicazione dell’intervento
pubblico, ribadisce Lo Cicero, è quello che
non può, per diverse ragioni, essere
trattato dal mercato e dalle imprese: i beni
di natura e le infrastrutture. I primi sono
disponibili senza prezzo e, quindi, come
dimostra il famoso apologo dei pascoli
comuni inglesi, sono destinati, seguendo la
semplice razionalità dell’azione del
privato, ad essere distrutti per eccesso di
sfruttamento. Ciò richiede l’intervento
dello Stato a protezione della natura come
bene comune da trasferire anche alle
generazioni successive, da cui discende
tutta la politica dello sviluppo
sostenibile. In questo campo Maria Prezioso
ha portato l’esempio del piano territoriale
di coordinamento provinciale di Roma come
strumento innovativo per guidare verso la
sostenibilità le azioni territoriali ed
urbanistiche della provincia in un modello
sussidiario di governance, ricavando
questo abbinamento tra sussidiarietà e
sostenibilità da una acuta rassegna delle
politiche territoriali dell’Unione europea.
Le infrastrutture hanno, al contrario, costi
troppo elevati per poter essere sostenuti da
singole imprese, per giunta in mancanza di
criteri certi per determinare il loro
rendimento, nel futuro, una volta
realizzate. Di qui la sfida intellettuale a
controllare e gestire il rischio, così come
la predisposizione dei meccanismi capaci di
assorbirne le conseguenze negative, ovvero
del fallimento dell’investimento.
Tradizionalmente è stato lo Stato ad
assumersi la responsabilità e gli oneri da
ciò derivanti ed inevitabilmente dovrà
continuare a farlo sebbene, con i processi
di unificazione europea, va cedendo poteri
che gli servivano proprio a realizzare
questo tipo di manovra. Infatti, con il
patto di stabilità, si è introdotta una
rigidità di bilancio che impedisce di
realizzare la manovra classica di scaricare
sull’inflazione i costi derivanti dalle
incertezze nella realizzazione di beni
pubblici. Ne dovrebbe conseguire che venga
trasferito al medesimo livello a cui si è
delegato il potere di vincolo di bilancio la
responsabilità nei confronti delle dotazioni
di beni comuni. Ciò contrasta, tuttavia, con
il processo di decentramento che punta ad
avvicinare il governo ai cittadini per
conoscerne meglio la domanda di beni
pubblici.
La soluzione, in termini finanziari, secondo
Lo Cicero, è stata trovata con il project
financing. Questo funziona come un
filtro che assorbe i rischi evitando di
trasferirli sul bilancio degli Stati nelle
loro conseguenze negative di costi non
recuperati dall’esercizio
dell’infrastruttura per errori di
previsione. Il trasferimento al locale non è
sufficiente a ottenere una previsione più
accurata del futuro, sebbene riesca a
realizzare coalizioni consensuali intorno ad
obiettivi condivisi e, quindi, a facilitare
le scelte dei beni comuni da realizzare in
quanto più desiderabili. Quindi, non bisogna
coltivare l’illusione che il consenso sia un
surrogato dell’informazione e possa
garantire l’efficienza delle opere
stabilite.
Nella teoria della pianificazione le
preoccupazioni ricordate da Lo Cicero sono
oggetto di attenzione da tempo. Avendo come
proprio oggetto fondamentale la decisione di
azioni future, si è sempre proiettata
nell’esplorazione di previsioni e
proiezioni, della loro validità e nel
miglioramento costante della loro
affidabilità. Sebbene abbia dovuto
registrare il crollo del mito scientista
della perfezione, ciò nonostante ha messo a
punto delle tecniche - purtroppo ancora poco
conosciute e praticate da noi6 -
capaci di gestire le situazioni di
incertezza e di rischio nel modo più
razionale possibile. Il problema avanzato
non è radicalmente risolvibile e progetti di
infrastrutture, come di qualsiasi altri tipo
di trasformazione del territorio, possono
sempre rivelarsi dei fallimenti, ma siamo in
grado di ridurre ragionevolmente questi
rischi con lo sviluppo delle competenze nel
campo della pianificazione, specialmente se
questa sensibilità si diffonde all’interno
delle istituzioni pubbliche responsabili
della gestione del territorio, tanto al
livello centrale che locale - dato il
decentramento delle decisioni pubbliche. Non
bisogna perciò sorprendersi della diffusione
della pianificazione strategica e
dell’incoraggiamento a questo scopo
proveniente dalla Commissione europea.
Le relazioni di Lo Cicero e di Senn
convergono, anche con le differenti
argomentazioni appena riassunte, verso il
sostegno ad un ampio programma
infrastrutturale sia come compito specifico
dello Stato che come sostegno alla capacità
di competizione delle diverse regioni del
paese. Come ha chiarito anche la relazione
del Ministro Lunari e del Direttore del
Dicoter Fontana, il governo è
prioritariamente impegnato nella
modernizzazione del sistema di trasporti
nazionale. Seguendo questa linea va
stipulando accordi di programma con le
regioni tra le quali risulta al primo posto
la Campania - come ha ribadito il Presidente
Bassolino, ricordando il vasto piano di
trasporto regionale su ferro - che si
propone come modello di concertazione
Stato-regioni.
La centralità del programma infrastrutturale
polarizza su questo fattore il miglioramento
delle condizioni dell’ambiente economico ma,
nel corso della conferenza, è apparso chiaro
come non potesse essere sufficiente. In
primo luogo è stata suggerita una
territorializzazione dei grandi progetti
infrastrutturali, in modo che assicurassero
da un lato di non creare ulteriori squilibri
attraverso quello che i francesi chiamano
l’effetto tunnel, dall’altro di trasformarsi
in progetti di sistemi locali capaci di
controllare l’impatto territoriale e
programmare le valorizzazioni ed i benefici
derivanti dalle nuove accessibilità così
create. Secondo Piercarlo Palermo, nella
riforma dei Fondi strutturali bisognerebbe
prevedere la concentrazione delle risorse su
dei principali assi strutturali per
declinare in versioni localmente radicate il
tema dei corridoi plurimodali, trasformati
in veri e propri assi di sviluppo. Questa
idea tende a conciliare quell’equilibrio tra
locale e globale a cui sono soggetti i
nostri distretti industriali e la loro
esigenza tanto di agganciarsi alle reti
lunghe transcontinentali quanto di
rafforzare la connessione interna e
l’efficienza delle proprie interazioni7.
È importante perciò individuare i distretti
e trovare forme per poterli governare e
rispondere alle loro esigenze, ha ricordato
Giuseppe Roma8. Ancora più
importante è trovare quegli indicatori che
consentano di valutare ex ante quali
progetti, e in che misura, sono capaci di
conferire valore aggiunto territoriale,
ovvero migliorare quelle condizioni
dell’ambiente economico che favoriscano le
imprese9.
Egli stesso, però, insieme a molti altri,
come lo stesso Clementi, valorizzano il
ruolo delle città e delle metropoli che è
stato appannato negli ultimi tempi
dall’attualità dei distretti e dei sistemi
locali. Il che ha fatto dimenticare la
concentrazione demografica e di attività che
in essi si concentra e che non subisce,
anche negli ultimi rilevamenti, riduzioni
del proprio peso relativo. Si ha così
l’impressione che si incomincino a sentire
qualche eco dello schema di sviluppo
dello spazio europeo (Ssse), a cui, ho
l’impressione, l’Italia poco ha contribuito
e di cui poco tiene conto, perlomeno in
paragone ad altre nazioni e perfino regioni
europee che ne hanno fatto oggetto di
riferimento nelle pianificazione nazionale
(ad esempio l’Olanda) e regionale (ad
esempio la Vallonia), talvolta anche con
specifici strumenti di piano per raccordare
programmazione economica e pianificazione
territoriale. Infatti, tra i temi centrali
dello Ssse troviamo grandi corridoi europei
ed il policentrismo. Quest’ultimo argomento
è oggetto di approfondimento nel programma
di ricerca Espon, lanciato per aggiornare lo
Ssse e formulare nuovi criteri per rendere
più efficaci i Fondi strutturali e gli altri
programmi europei di riequilibrio regionale.
La strategia di sviluppo che percorre questi
documenti coinvolge prioritariamente il
rafforzamento delle reti urbane e discute
delle politiche capaci di creare nuclei
forti o diramazioni (secondo la suggestiva
immagine di una piovra) all’esterno del
pentagono centrale in cui si concentra il
massimo livello di sviluppo europeo. Il tema
urbano è diventato una delle misure dei
Fondi strutturali, dopo l’esperimento, anche
reiterato, del Pic Urban e data l’omogeneità
dell’impostazione integrata potrebbe essere
complementare ai Prusst, oppure potrebbe
generare nuovi programmi di dimensione
sovracomunale che ne mettano assieme le
caratteristiche. Ma oltre agli strumenti
avremmo bisogno di approfondimenti
sostantivi sul sistema urbano nazionale, con
un coinvolgimento anche locale. Non mi
sembra che sia un argomento da lasciare
esclusivamente alle ricerche europee,
necessariamente sommarie, sebbene utili per
definire quadri di sfondo.
Anche Dematteis invitava ad individuare
quattro o cinque grandi aree metropolitane,
possibilmente capaci di raggiungere il peso
funzionale sufficiente a svolgere un ruolo
di nodi nella rete urbana europea ed agire
con politiche per sviluppare questi
potenziali. Bisognerebbe riprendere una
attività di pianificazione territoriale ad
ampio raggio; costruire quelle metafore
capaci di prospettare delle visioni del
futuro che sappiano imporre, come sono
riusciti a fare i geografi francesi con la
Banana Blu, interessi regionali sulla più
vasta scena europea10; impegnare
i governi locali in interazioni verticali ed
orizzontali, in forme di governance che
mobilitino gli attori economici e sociali,
perché queste immagini, una volta
collettivamente formulate ed imposte
trasversalmente dal livello locale a quello
nazionale, possano essere effettiva guida
per l’azione di sviluppo.
1
Uno dei due relatori ufficiali per il tema
coesione e competizione,
insieme a Massimo Lo Cicero.
2
Questa posizione è stata espressa anche dal
governo italiano nel suo contributo al
dibattito sulla riforma della politica
regionale di coesione comunitaria (Ministero
dell’economia e delle finanze, Dpsc e
Ministero degli affari esteri, Dgie, Secondo
Memorandum Italiano, dicembre 2002).
3
La filosofia dei patti territoriali, come
elaborata da De Rita e Bonomi, può essere
inclusa in questa linea di lavoro.
4
A cui contribuisce lo sviluppo del capitale
sociale.
5
Tale eventualità non è più solamente teorica
ma pratica concreta in tutto il mondo
progredito a partire dagli Usa più di due
decadi fa. Un esempio italiano è il piano
strategico di Torino.
6
Esemplare, in questo campo è il lavoro del
Centro per la ricerca operativa di Londra.
7
I distretti del nord-est hanno bisogno di
raggiungere a bassi costi l’Europa orientale
per meglio competere con Austria e Germania
avvantaggiati dalla migliore posizione.
Prato ormai subisce la concorrenza cinese ed
è forse destinato a soccombere nel tessile.
Sono tutte trasformazioni che avvengono a
grande velocità e richiedono conversioni
interne e elevazione dell’innovazione ed
efficienza.
8
Nel seminario preparatorio di Napoli,
Osvaldo Cammarota ha puntualizzato le
questioni fondamentali dei sistemi locali,
ribadendo la necessità di trovare nuove
strutture e modalità di governo, criteri per
la loro individuazione e politiche di
sviluppo del capitale sociale.
9
Questo programma di ricerca è sviluppato dal
Centro interateneo territorio del
Politecnico di Torino, diretto da Giuseppe
Dematteis.
10
Pasquale Coppola, nel seminario di Napoli,
ha illustrato il valore politico di tali
metafore geografiche.
1. Logo del Ministero delle infrastrutture e
dei trasporti per la seconda Conferenza
nazionale del territorio, Caserta 12-14
giugno 2003 |