Il governo del territorio si trova oggi di
fronte ad un contesto per molti versi
incerto1.
La riforma costituzionale del 2001 ha
cambiato profondamente la situazione in cui
all’inizio degli anni novanta si trovavano
le regioni italiane, quando avevano ancora
ben pochi poteri e responsabilità. Si
prospetta una situazione aperta, perché un
forte decentramento può creare benefici, ma
anche inconvenienti e costi. Infatti, “il
decentramento può produrre interventi a
scala troppo piccola, ridondanza,
conflittualità e duplicazione delle
politiche, la moltiplicazione delle
burocrazie e la complicazione delle
procedure decisionali, e quindi un peggiore
funzionamento del sistema
politico-amministrativo”2. Si
tratta di una partita tutta da giocare, per
una efficace interpretazione dei principi di
sussidiarietà che eviti una confusione di
ruoli e inefficienze.
Questo processo si incrocia con quella
“strana e ambigua voglia di Stato” di cui ha
scritto recentemente Ilvo Diamanti3.
Il rischio cioè che dopo vent’anni di
infatuazione verso il privato, con il suo
fallimento come valore e regolatore
dell’economia e della vita sociale e
individuale, nonostante la storica scarsa
fiducia e stima che gli italiani hanno
sempre avuto nei confronti dello Stato, solo
per disperazione essi tornino ad
apprezzarlo. Ma - questa è la domanda cruda
che si pone Diamanti - può “crescere,
durare, se non la passione, almeno la
fiducia, [nei confronti dello Stato] quando
nasce dalla disperazione?”. Probabilmente
no, serve - credo - proprio in un momento di
forte incertezza, perspicacia ed equilibrio.
Questo interrogativo generale ci pone subito
di fronte al problema di una valutazione non
superficiale e troppo oscillante su alcuni
processi generali che riguardano oggi il
governo del territorio.
Anzitutto un giudizio equilibrato nei
confronti dei processi di
contrattualizzazione (il gouverner
par contrat dei francesi)4
che coinvolgono sempre più tutte le
politiche complesse e integrate. Si tratta
di un processo che, nella sua progressiva
estensione, non può essere liquidato sulla
base di pregiudizi. Su questi processi
agisce il convincimento erroneo cioè che la
costruzione di accordi significhi rinunciare
a decidere sulla base di ragioni fondate e
obiettive; significhi adattare la legge, le
prescrizioni, a esigenze particolariste;
comporti velare le responsabilità pubbliche
dietro indistinte scelte negoziate; in
sintesi significhi rinunciare alle
prerogative pubbliche. Mentre al contrario
il suo significato positivo risponde ad una
concezione pluralista e federale, dove
l’interesse pubblico si pone come
espressione di un continuo accomodamento tra
interessi diversi, da appoggiare su una
visione del diritto di tipo adattivo. Senza
per questo distorcere le regole, ma aiutando
interessi e strategie distinte a convergere5.
Questi processi di contrattualizzazione
dell’azione pubblica sono caratterizzati da
alcuni tratti distintivi.
L’apertura relativa di due mondi
tradizionalmente separati (quello privato e
quello pubblico) e una dinamica di
intersezione tra settori amministrativi
tradizionalmente autoreferenziali.
L’apertura intersettoriale: la politica
della città, oltre i confini tradizionali
dell’urbanistica, si rivolge al campo delle
politiche sociali, dello sviluppo economico
e soprattutto della politica ambientale.
Ed infine uno sviluppo di forme
collaborative limitate nel tempo, diverse
dalle tradizionali forme stabili.
Per effetto di questi processi il governo
del territorio sembra configurarsi sempre
più come spazio pubblico interattivo da
rendere trasparente, che attende di
essere esplorato e ordinato non solo a
livello di riflessione teorica.
Anche sui processi di integrazione
serve una riflessione non superficiale.
Alla base del forte impulso fornito da parte
dell’Ue al principio dell’integrazione
stanno le tensioni derivanti dalla
complessità dei fenomeni sociali, economici
e tecnologici in atto in Europa, in rapporto
con le esigenze di competitività, ma anche
di coesione e sostenibilità, e con la
diffusa percezione che l’assenza di
politiche non integrate produca effetti
perversi6. Di qui una forte
sollecitazione, assunta pienamente dalla
“nuova programmazione” nel Mezzogiorno, a
porre a base dell’azione di governance
alcuni requisiti, in particolare una logica
di progetto e di risultato, guidata
dall’esigenza di attribuire ai progetti una
spiccata interdipendenza, sollecitando una
logica della competizione dipendente da
quella della coesione, un ricorso alla
disseminazione di buone pratiche più che a
norme.
E occorre riflettere sull’esigenza di
controllare meglio i processi di
territorializzazione dei fondi
strutturali. In generale, la
programmazione dei fondi strutturali nelle
regioni dell’obiettivo 1 rappresenta
un’esperienza di rilevantissimo interesse
per la pianificazione territoriale
regionale, che ha incontrato non poche
difficoltà, su cui è in corso un’importante
riflessione che occorre aiutare e
stabilizzare.
E, infine, si tratta di dare l’opportuno
rilievo al fatto che una spia importante del
mutamento intercorso negli ultimi anni è
rappresentato dalla diffusione anche in
Italia della pianificazione strategica.
Diffusione che non può essere ignorata anche
se mi sembra giusto che proceda con lo
sforzo contemporaneo di un rafforzamento
dell’identità di un riformismo attivo
ben distinto dalla deregulation fondata sul
cosiddetto ordine creativo7.
Indubbiamente pesa l’incertezza che grava
sul processo di riforma costituzionale dello
Stato, sull’eredità contrastata della
riforma del Titolo V della Costituzione.
Nella riforma del titolo V della
Costituzione, avvenuta nello scorcio della
passata legislatura, il governo del
territorio è una delle grandi materie che ha
registrato la sostanziale conferma, in
maniera estensiva, della tradizionale
attribuzione alla materia urbanistica,
mentre la materia della “tutela
dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni
culturali” è stata riservata alla competenza
esclusiva statale8.
L’introduzione in Costituzione9
della nuova materia governo del
territorio si accompagna alla
eliminazione dell’urbanistica. La
situazione che ne è derivata ha prodotto più
interpretazioni sul senso da attribuire alla
nozione di governo del territorio. Quella
cui si sta lavorando da parte della Regione
Campania tende ad individuare un ambito di
competenze riguardanti le funzioni
ordinatrici dell’assetto del territorio,
espresse sostanzialmente dagli strumenti di
pianificazione e di programmazione, escluse
quelle di controllo sull’uso e sulle
trasformazioni del suolo attribuite a
province e a comuni.
Vanno considerati come consolidati alcuni
principi innovativi: anzitutto i principi di
pari dignità e di sussidiarietà,
in base ai quali la politica regionale deve
riconoscere che non solo gli altri soggetti
della pianificazione non sono dipendenti
nell’assumere le proprie decisioni, ma che
essi hanno anche gli strumenti per tutelare
le proprie competenze dalle eventuali
ingerenze; e che poi il cittadino esplica
rapporti con l’ente che assicura
l’adeguatezza, ma che gli è più vicino e
che, per quanto concerne le trasformazioni
del territorio, questo ente è il comune.
E ancora il criterio dell’adeguatezza
e della differenziazione. Il primo
definisce per legge le determinate funzioni
di regione, provincia e comune, in modo che
nessun soggetto faccia le stesse cose degli
altri, eliminando quindi sovrapposizione e
gerarchia.
Com’è noto, l’attuazione di tale riforma si
trova ad essere, nell’attuale legislatura,
oggetto di resistenze e ostilità in rapporto
al tema della cosiddetta devolution.
In ogni caso il legislatore nazionale
dovrebbe provvedere alla definizione dei
principi fondamentali (in collaborazione con
le regioni), cosa che potrebbe intrecciarsi,
anche in modo divaricato, con l’approvazione
del Dl regionale di governo del territorio
in Consiglio regionale10.
Pesa indubbiamente l’incertezza della
legge quadro sui principi.
Nella proposta di legge Lupi (art. 4. della
Relazione di accompagnamento) la dimensione
regionale come spazio di pianificazione
d’area vasta sostanzialmente scompare. Il
riferimento è all’ambito ottimale di
pianificazione variabile, che diventa
il compito principale di attività della
regione insieme alla determinazione
dell’ente competente della pianificazione
territoriale. In merito, il compito per la
regione sembra ridotto alla determinazione
di direttive (unitamente a quelle nazionali)
per conferire al piano urbanistico della
cosiddetta dimensione ottimale la funzione
pianificatoria comprensiva di ogni “altra
previsione di contenuto territoriale”.
In generale nel quadro del nuovo ruolo
assunto recentemente dal territorio nelle
dinamiche economico-sociali, e segnatamente
nei processi programmati per lo sviluppo
economico, torna ad emergere con forza il
problema della dimensione intermedia di
pianificazione/programmazione.
Lo attestano soprattutto i due disegni di
legge11 Mantini ed altri e Lupi,
che nel testo unificato in cui i due atti
sono confluiti affermano: “Le regioni
individuano gli ambiti territoriali da
pianificare e l’ente competente alla
pianificazione, fissando regole di garanzia
e di partecipazione degli enti territoriali
ricompresi nell’ambito da pianificare” (art.
2, comma 4).
La formulazione citata propone un vastissimo
spazio per le scelte regionali in materia di
governo del territorio: secondo tale
principio sarebbe legittimo, assurdamente,
anche il comportamento di una regione che
individuasse solo una parte del proprio
territorio come ambito da pianificare
attribuendone a se stessa, poniamo, la
responsabilità12. Ma a parte una
possibilità limite come questa è evidente la
maggior libertà offerta alle regioni a
fronte dell’attuale ordinamento che non solo
prevede la copertura completa dell’intero
territorio con piani urbanistici e piani
territoriali di coordinamento, ma intesta
anche - salvo i casi eccezionali delle aree
metropolitane - gli uni ai comuni e gli
altri alle province13. Tale
maggior libertà cerca evidentemente la sua
giustificazione nella straordinaria varietà
di situazioni e problematiche oggi
riconoscibili nelle concrete vicende di
promozione dello sviluppo locale segnate
dalle specificità dei territori, sì da far
ritenere - in una prospettiva in cui si
privilegino in assoluto le ragioni
dell’economia - che sia opportuno ritagliare
ambiti, strumenti e soggetti di
pianificazione su misura delle specifiche
strategie di sviluppo e del partenariato che
le anima.
In Campania, il disegno di legge regionale
sul governo del territorio, attualmente
all’esame del Consiglio regionale, e
l’elaborazione (sulla base delle già
approvate Linee guida per il piano
territoriale regionale) del Documento di
inquadramento strategico per la
pianificazione territoriale regionale, base
per l’avvio delle conferenze di
pianificazione, considerano insieme le
ragioni dello sviluppo economico accanto e
in relazione a quelle della tutela
dell’ambiente, e quindi prevedono la
ordinaria corrispondenza fra strumenti di
pianificazione e livelli istituzionali, e
conseguentemente la copertura dell’intero
territorio da piani urbanistici e piani
territoriali14. Senza restare
chiusi però nei confronti delle esigenze di
iniziativa e flessibilità poste dalle
energie impegnate nelle strategie per lo
sviluppo locale.
All’avvio della esperienza campana si
offriva la variegata esperienza dei piani
territoriali regionali dell’ultima
generazione, che possiamo così sintetizzare15:
1. un tipo di piano territoriale inteso come
governo urbanistico del territorio,
in cui viene conservata come rilevante una
funzione regolatrice, con l’individuazione
di una serie di vincoli (che, al contrario,
sembrerebbe opportuno temperare in
ottemperanza al principio di sussidiarietà).
Questo modello ha avuto una molteplicità di
espressioni negli anni ottanta, in
riferimento ad una articolazione a due
livelli (un quadro di riferimento e di
indirizzi, un insieme di progetti
territoriali), ha mantenuto una sua
rilevanza negli anni novanta e oltre in
alcune situazioni, com’è il caso dell’Umbria16;
2. un tipo di piano come strumento
d’indirizzo territoriale. L’esempio più
rilevante è costituito dalla Toscana,
fortemente legata ad una “Legge di governo
del territorio” che metteva in essere il
portato dell’elaborazione Inu. Elementi
principali sono una descrizione del
territorio per grandi sistemi, suddivisa al
suo interno in aree omogenee d’intervento,
per le quali vengono indicate regole,
indirizzi e strumenti operativi. Intorno al
concetto innovativo di “statuto dei luoghi”
vengono individuati, in consonanza con
l’articolazione del piano urbanistico
comunale, i due livelli di pianificazione
strutturale e operativa.
Più recentemente con la Lr “Norme in materia
di programmazione territoriale” del 1999 è
stato introdotto lo strumento del programma
locale di sviluppo. Restano non molto
definite le implicazioni operative del
quadro territoriale soprattutto in
riferimento alla consistente autonomia
consentita alla programmazione economica;
3. un piano come documento prevalentemente a
carattere strategico17.
Quello delle Marche definisce - in una
situazione che presenta analogie con quella
attuale della Campania per quanto riguarda
l’assenza di una legge di governo del
territorio dell’ultima generazione - un
piano territoriale d’inquadramento
territoriale, inteso come strumento agile
capace di fornire una cornice condivisa di
alcuni mirati progetti di trasformazione
territoriale concernenti ambiti di interesse
strategico. Cornice definita a valle di
un’immagine condivisa del territorio
regionale e dei nuovi probabili scenari
futuri.
Significativo il superamento di una logica
vincolistica a favore di una strategia della
pianificazione sorretta dalla definizione di
precise azioni intersettoriali;
4. una sorta di piano latente che si
riferisce ad un modello di governo del
territorio aperto, sorretto da una
molteplicità di strategie settoriali
limitate e specifiche, rappresentato
dall’esperienza della Lombardia. Si tratta
di un laboratorio sperimentale controverso
nell’ambito della riflessione disciplinare
prevalente in Italia, il cui percorso merita
di non essere apoditticamente accantonato,
ma piuttosto approfondito come uno scenario
possibile - e ovviamente perfettibile -
anche in rapporto alla sintonia che esso ha
acquistato con l’orientamento del governo
nazionale. La pianificazione paesistica ha
svolto un ruolo significativo di tutela e
regolazione del territorio.
È possibile individuare un asse - che va da
una concezione prescrittivo-conformativa ad
una più negoziale-strategica -
caratterizzato dai rapporti che si
manifestano nei confronti della
pianificazione paesistico-ambientale e della
programmazione economica18. Ai
due estremi di questo asse si collocano un
modello conformativo-urbanistico, che
assume questi rapporti in maniera
prevalentemente gerarchica, ed un modello
strategico in cui questi rapporti vengono
ricercati attraverso una coerenza tra le
diverse scale determinata processualmente
nelle successive fasi della concertazione.
Tra questi due estremi sono le esperienze
della pianificazione strutturale con
gradi di maggiore o minore prescrittività.
In riferimento a questa cornice, il piano
territoriale regionale (Ptr) della
Campania si propone come un piano
d’inquadramento, d’indirizzo e di promozione
di azioni integrate; come riferimento per la
riduzione delle condizioni d’incertezza (di
conoscenza e interpretazione del territorio)
per le azioni dei diversi operatori
istituzionali e non, mediante l’elaborazione
di 5 quadri territoriali di riferimento (con
una sequenza che va dal cognitivo
all’operativo), in particolare come
attivatore di una pianificazione d’area
vasta concertata con le province e
soprintendenze, che definisce
contemporaneamente gli indirizzi di
pianificazione paesistica.
Rispetto, quindi, all’evoluzione
dell’esperienza di pianificazione
territoriale regionale in corso in Italia,
l’esperienza in corso in Campania tende a
dislocarsi verso l’estremo del piano
strategico. In sostanza l’intenzione è di
poggiare il successo della sua azione non
tanto sull’adeguamento conformativo degli
altri piani, ma sui meccanismi di
negoziazione e di consenso intorno alle
grandi materie dello sviluppo sostenibile e
delle grandi direttrici di interconnessione.
Non si ricerca, quindi, una diretta
interferenza con le previsioni d’uso del
suolo, che rimangono di competenza dei piani
regolatori e delle province. La sua
attuazione è piuttosto affidata alla
capacità di esercitare una guida attraverso
i meccanismi di concertazione (sostenuti da
adeguati protocolli e gestiti da apposite
conferenze di pianificazione).
Va, quindi, accuratamente soppesato lo
spazio da attribuire alle regole e alle
invarianti cogenti nei confronti dei piani
urbanistici locali e settoriali, per evitare
che questo venga assunto da altri piani
regionali di settore o da altri piani
urbanistico-conformativi regionali
(determinando un conflitto tra piani dello
stesso livello) o provinciali (con il
rischio di rinviare il problema della
determinazione delle regole ad un’altra
scala)19.
Il Ptr, pertanto, si qualifica anzitutto
come piano d’inquadramento nei confronti dei
soggetti istituzionali cui è affidata la
pianificazione d’area vasta. Lo fa con la
finalità di contribuire all’ecosviluppo,
secondo una visione che attribuisce al
territorio, inteso come grande materia che
propone esplicitamente specifiche forme
d’integrazione, il compito di mediare
cognitivamente ed operativamente tra la
materia della pianificazione
paesistico-ambientale e quella della
promozione e della programmazione dello
sviluppo.
Questa funzione principale è sorretta
principalmente da una funzione di
agevolazione dell’operatività degli attori
territoriali, definendo prospettive di
trasformazione da sostenere attraverso un
percorso di affinamento di regole
istituzionali convergenti da parte degli
enti sollecitati ad una più certa leale
collaborazione20.
In riferimento a questi obiettivi strategici
il Ptr vuole contribuire a superare o per lo
meno a ridurre l’indeterminatezza dei
contesti per gli attori istituzionali e
sociali, offrendo loro dei quadri di
riferimento (Qtr) come base utile alla
definizione delle diverse linee d’azione.
I Qtr territoriali che il Ptr struttura sono
cinque.
Il primo è quello delle reti - la
rete ecologica, la rete
dell’interconnessione (mobilità e logistica)
e la rete delle sorgenti di rischio - che
attraversano il territorio regionale.
Concettualmente i termini sono stati
definiti nelle Linee Guida della
pianificazione territoriale regionale
pubblicate nel Burc del 24.12.2002, con i
connessi indirizzi strategici introdotti dal
punto di vista tematico.
Dalla articolazione e sovrapposizione
spaziale di queste reti s’individuano, per i
Qtr successivi, dei punti critici sui quali
è opportuno concentrare l’attenzione e
mirare gli interventi.
Qui si colloca il contributo per la
“Verifica di compatibilità tra gli strumenti
di pianificazione paesistica e l’accordo
Stato-regioni del 19 aprile 2001”,
pubblicato nel Burc dell’8 agosto 2003 e gli
indirizzi concertati con le province e con
le competenti soprintendenze.
Il secondo è quello dei nove ambienti
insediativi, individuati in rapporto
alle caratteristiche morfologico-ambientali
e alla trama insediativa. Questi ambienti
vogliono suggerire, soprattutto alle
province, che hanno confini che ritagliano
il territorio secondo logiche diverse,
riferimenti e punti di connessione da
utilizzare per sostenere una
copianificazione che le province vanno
sviluppando, o devono sviluppare, insieme
alla regione e agli altri attori della
pianificazione.
Questi ambienti insediativi contengono i
tratti di lunga durata, gli elementi ai
quali si connettono i grandi investimenti.
Sono ambiti sub-regionali per i quali
vengono costruiti delle visioni cui
soprattutto i piani territoriali di
coordinamento provinciali, che agiscono
all’interno di ritagli territoriali
definiti secondo logiche di tipo
amministrativo, ritrovano utili elementi
di connessione.
Il terzo Qtr è costituito da 45 sistemi
territoriali di sviluppo (Sts).
Nelle linee guida per la
pianificazione territoriale i Sts sono stati
individuati seguendo la geografia dei
processi di autoriconoscimento delle
identità locali e di autorganizzazione nello
sviluppo, confrontando il mosaico dei patti
territoriali, dei contratti d’area, dei
distretti industriali, dei parchi naturali,
delle comunità montane, e privilegiando tale
geografia - in questa prima ricognizione -
rispetto ad una geografia costruita sulla
base di indicatori delle dinamiche di
sviluppo, classificati in una tipologia
composta da sei classi, funzione di
dominanti territoriali (naturalistica,
rurale-culturale, rurale-industriale,
urbana, urbano-industriale,
paesistico-culturale).
Questo procedimento è stato approfondito
nella fase successiva, attraverso una
verifica di coerenza con l’intervento in
corso del Por, con l’insieme dei Pit, dei
Prusst, dei Gal e delle indicazioni dei Ptcp.
Siamo pervenuti - attraverso piccoli
spostamenti - ad una interpretazione del
territorio regionale verificata nel
confronto con le province e i comuni, per la
condivisione di questa mappatura. Ciascuno
di questi Sls si colloca all’interno di una
matrice di indirizzi strategici specificata
all’interno della tipologia delle sei classi
suddette. A valle della adesione a questi
Sts potrebbe essere individuata una
premialità per un più forte sostegno dello
sviluppo.
Una prima sintonizzazione con alcuni di tali
Sts è già stata sperimentata. Sarà compito
della terza fase di costruzione del Ptr di
organizzare specifiche conferenze di
programmazione che, attraverso adeguati
protocolli, definiscano gli impegni, le
risorse e i tempi per la realizzazione dei
relativi progetti locali.
Il quarto Qtr è costituito dai campi
territoriali complessi.
Nel territorio regionale esistono campi
territoriali nei quali la
sovrapposizione-intersezione dei precedenti
Qtr mette in evidenza degli spazi di crisi,
dei veri punti caldi, dove si ritiene
la regione debba svolgere un’azione
prioritaria di promozione di interventi
particolarmente integrati. Essi possono
essere costituiti da infrastrutture di
interconnessione di particolare rilevanza
(come ad esempio l’aeroporto di Grazzanise),
oppure da aree di intensa concentrazione di
fattori di rischio.
Una anticipazione di particolare rilevanza è
costituita dal “Programma di azioni per la
mitigazione del rischio Vesuvio” composto da
una delibera-quadro e da 12 specifiche
azioni fortemente integrate (approvate nel
luglio 2003) oltre che da un protocollo
d’intesa con il Governo.
Un altro campo di particolare concentrazione
di fattori di rischio è costituito dal
quadrante compreso tra il confine
settentrionale della provincia napoletana e
l’area meridionale della Provincia di
Caserta, dove è molto rilevante la presenza
di siti potenzialmente contaminati; per esso
si ipotizzano azioni integrate tra quelle di
specifica bonifica e quelle legate all’uso e
riqualificazione dei siti.
Il quinto quadro territoriale di riferimento
riguarda le modalità di promozione della
cooperazione istituzionale tra i comuni
minori. Il Rapporto Censis 2003 segnala
l’avvio dopo il 1999 di un processo di
unione di comuni in tutta Italia (appena 8
nel 2000 e già 202 nel 2003) che in Campania
nel 2003 ha riguardato 5 unioni riferite a
27 comuni.
In tale direzione il Dl approvato dalla
Giunta regionale il 15.2.2001 individua un
percorso generale riferito alla
“Riorganizzazione sovracomunale di servizi e
di funzioni e per le forme di incentivazione
connesse”. Esso sembra debba essere
articolato soprattutto per i tre settori
territoriali già indicati del settore
settentrionale della Provincia di Benevento,
il settore orientale della Provincia di
Avellino e il Vallo di Diano nella Provincia
di Salerno, dove gruppi di comuni con
popolazione inferiore ai 5000 abitanti, tra
loro contigui, appartenenti allo stesso Sts
possono essere incentivati alla
collaborazione.
1
Dalla relazione Pianificazione
territoriale regionale e pianificazione
provinciale presentata in versione più
estesa al Seminario di studi “La
pianificazione territoriale provinciale in
Campania e nel Mezzogiorno. Questioni
metodologiche e forma del piano. Processi di
governo ed efficacia delle politiche
territoriali”, Napoli 5 e 6 marzo 2004.
2
Viesti G. (2003), Abolire il Mezzogiorno,
Laterza, p. 107.
3
Diamanti I., Una strana e ambigua voglia
di Stato, in “La Repubblica”, 29.2.2004.
4
Gaudin J. P. (1999), Gouverner par
contrat L’action publique en question,
Presse de sciences Po.
5
Bobbio L. (2000), Produzione di politiche
a mezzo di contratti nella pubblica
amministrazione italiana, in “Stato e
mercato”, n. 58.
6
Donolo C. (2002), Politiche integrate
come contesto dell’apprendimento
istituzionale, in Battistelli F. (a cura
di), “La cultura delle amministrazioni fra
retorica e innovazione”, FrancoAngeli.
7
Si veda Morisi M. e Magnier A. (2003),
Governo del territorio: il modello Toscana,
il Mulino.
8
Parte delle considerazioni che seguono fanno
riferimento alla bozza del Documento
d’inquadramento strategico della
pianificazione territoriale regionale della
Campania.
9
Si veda Traina D. M., Regioni e governo
del territorio. Dopo la riforma del titolo V
della Costituzione, in Morisi M. e
Magnier A., op. cit., pp.65-83.
10
Vandelli L. (2002), Devolution e altre
storie. Paradossi, ambiguità e rischi di un
progetto politico, il Mulino.
11
Non a caso si è potuto predisporre per i
lavori della competente Commissione della
Camera dei Deputati un testo unificato dei
due atti.
12
Riproducendo, mutatis mutandis (cioè,
soprattutto, con la regione al posto del
Ministero dei lavori pubblici), la logica
dell’art. 5 e segg. della legge 1150/1942.
13
Il disegno di legge dell’on. Sandri dà per
scontato tale scenario, esplicitamente
affermando inoltre che “ciascun livello
istituzionale esplica le proprie funzioni di
governo del territorio primariamente
attraverso gli strumenti di pianificazione
generale” (art. 5, comma 1), con ciò
prevedendo ordinariamente anche uno
strumento di pianificazione regionale.
14
Lo scenario utilizzato in Campania è in
sostanza assai vicino a quello del disegno
di legge dell’on. Sandri.
15
Si veda in particolare Palermo P. C. in
Prove d’innovazione, op. cit.
16
Piano urbanistico territoriale, Lr del
24.3.2000, n. 27, Regione Umbria, Bollettino
Ufficiale della Regione Umbria n. 31 del 31
maggio 2000 suppl. straordinario.
17
Quello dell’Emilia-Romagna - che appartiene
a una generazione precedente - esprime una
forte connessione con gli obiettivi e la
natura della programmazione economica e come
quadro territoriale delle grandi politiche
infrastrutturali che valorizza e
territorializza una rilevante strumentazione
di settore nell’ambito della mobilità e dei
trasporti; unitamente ad una forte e
innovativa applicazione dei programmi
integrati d’intervento a favore di una
diffusa politica di riqualificazione urbana.
Questa esperienza si è ridotta
nell’orientamento assunto negli ultimi anni,
in rapporto alla Lu del 2000, verso la
configurazione di un quadro di riferimento
unitario, una nuova disciplina di riforma
del regime dei suoli (in riferimento
soprattutto al principio di perequazione),
il rilancio della pianificazione d’area
vasta affidata alle province; la
valorizzazione del piano urbanistico come
carta unica del territorio; la
valorizzazione degli aspetti ecologici ed
ambientali. Centrale sembra l’obiettivo di
ribadire un metodo di pianificazione
agganciato ad un forte orientamento
programmatico, all’interno del quale le
province devono realizzare nei Ptcp una
trasformazione coerente del territorio e
attuare il piano paesistico regionale.
18
Fabbro S. (2003), I nuovi piani
territoriali regionali in Italia: approcci,
scenari, efficacia, in Urbanistica n.
121.
19
Fabbro S. (2003), op. cit.,in Urbanistica n.
121.
20
Fabbro S. (1998), Pianificazione
regionale tra locale e globale, Forum,
pp. 32-33. |