Origini e significato degli interventi di
bonifica
Anche se a prima vista può sembrare
abbastanza strano, è possibile riscontrare
più di una analogia tra quanto emerge da una
rilettura storica di quell’esperienza di
acquisizione di territorio agricolo e di
riassetto territoriale e insediativo che
prende il nome di bonifica dell’agro pontino1
e quanto si va oggi prospettando come una
necessità in tema di pianificazione
urbanistico-territoriale di area vasta. Ma
tutte le analogie ed i riferimenti di
dettaglio possono riassumersi nel principio
metodologico generale che, sia allora che
ancora oggi, trattandosi di pianificazione
urbanistico-territoriale, è indispensabile
adottare nel processo di piano un’ottica
metodologica integrata tra contenuti
specialistici e contenuti generali. Si
tratta cioè di una integrazione che tenta di
evitare i pericoli, ancora oggi dominanti,
dell’approccio di settore il quale, per lo
più, vive di vita autonoma trascurando buona
parte dei linkages costruttivi della
complessa realtà territoriale2.
In altri termini, al fine di ottenere un
utile contributo disciplinare alla
riflessione su quegli eventi storici,
vogliamo qui richiamare l’attenzione dei
cultori delle discipline che si rifanno alla
pianificazione urbanistico-territoriale su
quel particolare aspetto dell’esperienza di
bonifica, che prende il nome dalla pianura
pontina, che è relativo alla
infrastrutturazione urbana per la
colonizzazione dei territori sottratti alla
palude e alla malaria e recuperati.
Si tratta di quella creazione ex novo
di un reticolo insediativo alquanto
articolato, che vede al suo apice
addirittura la fondazione di alcune città, e
che formerà, nel suo complesso, una chiara
struttura insediativa per quell’area, tale
da essere ancora oggi percepibile, pur dopo
i numerosi traumi cui è stata sottoposta con
le trasformazioni introdotte nei decenni
della ricostruzione e dello sviluppo del
secondo dopoguerra.
Richiamando brevemente quell’esperienza, va
anzitutto ricordato come la bonifica
definitiva dell’agro pontino negli anni
’20-‘30 - vani tentativi vi erano stati sin
da alcuni secoli addietro - abbia avuto la
fortuna di essere stata realizzata sotto la
guida di un manipolo di tecnici, di notevole
valore intellettuale, provenienti da
variegate discipline, cioè competenti
nell’affrontare problematiche di natura
idrogeologica, economico-agraria, di
politica demografica, sanitaria ecc., ma
sicuramente non quelle di natura
urbanistico-territoriale.
È questo un dato che fa subito riflettere in
quanto saranno proprio questi tecnici non
urbanisti, i quali all’inizio operavano come
attori di settori separati, che, alla fine
degli anni ‘20, attraverso un naturale
processo di deduzione logica, giungeranno a
percepire la necessità di affrontare, come
intervento conclusivo del recupero,
anche i problemi della organizzazione fisica
dell’insediamento territoriale, dando così
senso compiuto anche al concetto di
bonifica integrale3.
Del resto, questo iter evolutivo spurio non
è una novità nella storia della
pianificazione urbanistico-territoriale.
Infatti, come è già noto, agli assunti
concettuali più fondativi dell’urbanistica
spesso non sono giunti i cultori o gli
esperti di tale disciplina bensì quelli di
discipline altre, partendo da diverse
angolature. Basti per tutti ricordare le
storiche origini della normativa e della
tecnica urbanistica moderna che, come da
tempo è stato ampiamente documentato
(Benevolo L., 1963), vanno rintracciate
negli interventi sanitari e nella relativa
legislazione tesa a combattere le epidemie
di colera nelle città industriali
dell’inizio dell’ottocento, più che in
quella coeva delle opere pubbliche,
certamente più affine al campo di interesse
della pianificazione
urbanistico-territoriale.
Tornando al problema bonifica e
all’evoluzione dei relativi criteri generali
di intervento, da quella esperienza emerge,
come seconda notazione di politica
pianificatoria, che le leggi post-unitarie
di regimentazione delle acque e di difesa
del suolo, stante il forte peso della
componente piemontese o nordica del
Parlamento italiano, hanno guardato, come
realtà di riferimento, alle problematiche
inerenti il governo delle acque del fiume Po
e dei fiumi della relativa estesa pianura,
proponendo e finanziando soluzioni tecniche
che, per ovvi motivi idrogeografici, si
limitarono soprattutto a opere di
arginatura, cioè di contenimento delle acque
fluviali nel loro percorso finale.
Viceversa, le condizioni idrografiche e
morfologiche di altre regioni, specie
meridionali, come la Calabria4,
risultano ben diverse. Infatti, in Calabria,
ad esempio, la vicinanza dell’Appennino alla
costa rende breve e ripido il tracciato dei
corsi d’acqua che, pertanto, difficilmente
prendono l’aspetto di veri fiumi, subendo
forti escursioni nelle portate e,
soprattutto, rispondendo con rapidi impulsi
alle precipitazioni causano frequenti
alluvioni, anche per effetto del
disboscamento selvaggio praticato nei secoli
precedenti. Il carattere torrentizio di tali
corsi d’acqua si traduce, dunque, in
rovinosi effetti sulle limitate pianure
meridionali, coprendole di ghiaioni e
facendo sì che in tali pianure le acque
mutino continuamente il loro percorso
lasciando qua e là stagni malarici.
Era evidente, allora, che tali realtà
problematiche, così peculiari dello stato
dei luoghi, non potevano trovare sollievo
dall’applicazione dei criteri di intervento
antialluvione proposti per le regioni della
pianura padana. Ecco allora che, spesso, con
le alluvioni e le esondazioni catastrofiche
venivano spazzati via i pochi o molti argini
fatti nelle pianure di ghiaia e ciottoli.
In altri termini, guardando a quella vicenda
storica per una concettualizzazione in
ambito pianificatorio, ne risulta un errore
di carattere metodologico e cioè: per
bonificare gli acquitrini e recuperare i
terreni in pianura, nel Mezzogiorno, bisogna
guardare non solo a valle ma anche a monte
dell’alluvione, vale a dire ad un intero e
più ampio bacino. Inoltre, occorre
affrontare questa realtà territoriale nella
molteplicità delle sue componenti:
idrogeologiche, agroforestali, sanitarie e,
ultima scoperta, di assetto insediativo, in
quanto elemento necessario per il presidio
del territorio. Ecco allora che, alla luce,
di questa semplice rilettura di quegli
eventi, in termini generali si può affermare
e ribadire quanto si è venuto consolidando
in questi anni e cioè che per una
legislazione che voglia affrontare in
termini tecnici i problemi del territorio e
dell’ambiente, inclusi quelli del recupero
del suolo, è d’obbligo, piuttosto che il
ricorso a norme standard di livello
nazionale, promuovere e facilitare la
formulazione di apposite leggi regionali e
locali quale approccio più vicino alla reale
soluzione del problema.
Solo con la legge Luzzatti, nel 1910,
aveva avuto inizio quella evoluzione
concettuale che avrebbe spostato
l’attenzione dello Stato dal settore
puramente forestale a tutto l’ambiente
montano, anche dal punto di vista economico
e sociale. Tale passaggio si attuò in pieno
in quel testo unico del 1923, di cui si
parlerà in seguito, chiamato anche legge
Serpieri, con il quale, occupandosi di
sistemazioni e valorizzazione di bacini
montani, lo Stato assume il ruolo di
propulsore e di guida per il miglioramento
di tutta l’economia di quei territori5.
Insomma, non vincoli ma impegno a fare: è
possibile assicurare la stabilità del
terreno e il buon regime delle acque e, allo
stesso tempo, favorire un’attività economica
adeguata. Lo squilibrio fisico e sociale in
zone depauperate o disboscate tendeva
fatalmente ad aggravarsi e a contagiare
anche i terreni sottostanti; la montagna
degrada e l’abbandono si traduce in danno
per la collettività6.
I consorzi e gli enti di bonifica, nati nel
frattempo, avevano il compito di studiare il
piano di bonifica con l’individuazione delle
opere, di competenza pubblica e privata, e
della loro relativa attuazione e
manutenzione. La politica del territorio,
tuttavia, non deve attuarsi attraverso
disposizioni operative di carattere
generale, bensì per zone aventi omogeneità
di problemi e di caratteri, i comprensori7,
e non deve avere per fine tanto la soluzione
di singoli problemi tecnici, quanto un
risanamento globale di tutto il regime
fondiario e socio-economico dei comprensori
su cui si attua. Tutte le opere, infine, in
vista della globalità degli obiettivi da
conseguire, devono essere coordinate nello
spazio e nel tempo, in un piano detto,
appunto, piano generale di bonifica.
Tra i principi innovatori della bonifica
integrale, su cui Serpieri impostò la
relativa legislazione, vi era quello di
sussidiarietà, secondo cui tutte le
opere che è possibile eseguire da parte dei
privati devono essere a loro affidate e
sussidiate. I privati, cioè, anziché passivi
spettatori, erano chiamati a svolgere un
ruolo attivo, per cui attraverso un piano di
interventi contraevano impegni a realizzare
e manutenere ciò che essi stessi avevano
concorso a proporre, in una logica di
incontro tra interessi pubblici e privati.
Alla luce di quanto sopra, ha senso
anzitutto affermare, in termini generali,
che per i problemi della difesa del suolo vi
è la necessità di rifiutare formule
normative standard e di favorire, invece,
approcci locali e, quindi, ricorrere anche a
specifiche leggi regionali in materia8.
Figura 1 - Distribuzione geografica
delle bonifiche idrauliche nel 1930 |
|
Fonte: Serpieri A., 1930 |
Ecco, allora, che la necessità della tutela
del territorio montano nella sua accezione
più larga si ripresenta attuale assieme
all’insegnamento di Serpieri secondo il
quale questa tutela deve avere una
componente socio-economica, tendente a
valorizzare vita ed economia dei luoghi che
si vuol difendere.
In particolare, poi, per quello che qui ci
interessa, “la primitiva finalità della sola
bonifica idraulica risultò ben presto troppo
ristretta, al lume delle teorie avanzate
dalla scienza medica sulla malaria e sulla
sua trasmissione, e si rese così manifesta
la necessità di associare e coordinare alla
bonifica idraulica la bonifica agraria, cioè
la trasformazione colturale dei terreni
prosciugati (…). Ma (…) tale miglioramento
agrario sarebbe stato un’utopia senza
l’esecuzione di molte altre opere (…)”
(Buongiorno A., 1948).
È naturale leggere nell’evoluzione
concettuale di cui sopra strette analogie
con quella che sarebbe stata la formulazione
dei principi alla base della pianificazione
di bacino idrografico di cui alla
legge 183/19899.
Ricordiamo ora brevemente alcuni dati sulle
esperienze di bonifica dell’agro pontino,
tanto per avere un’idea dell’entità
dell’impatto territoriale dell’intervento.
L’area vasta da bonificare è costituita da
75.000 ettari di dune e paludi poste tra i
monti ed il mare a circa 70 km a sud-est di
Roma. Il programma, che ebbe notevole eco
internazionale, è destinato ad aprire nuovi
territori allo sfruttamento agricolo ed
all’insediamento di nuova popolazione ma
finalizzata ad ottenere grandi risultati
anche sul fronte del controllo della
malaria, con l’eliminazione degli acquitrini
e, quindi, dei focolai di proliferazione
delle zanzare.
La particolare esperienza sulla quale,
tuttavia, si vuole qui richiamare
l’attenzione rappresenta l’ultimo anello
della catena di quell’ampio programma di
interventi che, come ricordato, furono
progettati da un gruppo di tecnici di varia
origine disciplinare che faceva capo al
Ministero dell’agricoltura. Si tratta cioè
di quel momento attivo più specificamente
orientato a realizzare un assetto
insediativo forte, composto di nuclei
accentrati e gerarchicamente distribuiti, in
grado di costruire un presidio antropico
nella consapevolezza che, senza questo, ogni
sforzo di recupero del territorio sarebbe
risultato vano.
Difatti, soprattutto nell’esperienza
dell’agro pontino, i tecnici della bonifica
si rendono conto che non basta il
prosciugamento dei terreni, la costruzione
della rete di canali e delle strade
interpoderali, ma occorre la creazione di un
sistema di nuclei di urbanizzazione che nel
caso in esame raggiungerà una solidità
altrove sconosciuta; si riteneva, cioè,
necessaria la creazione di un tessuto di
urbanizzazione e una struttura sociale
capace di non disgregarsi di fronte
all’alternativa dei modelli di vita urbana.
Per questo fu creato dal nulla un reticolo
gerarchizzato, quasi di tipo christalleriano10,
di elementi insediativi più o meno
accentrati, che interconnette il territorio
partendo dalle case sparse e arriva fino ai
borghi e al capoluogo. Si tratta di centri
articolati in rapporto alla crescente
esigenza di approvvigionamento di beni e
servizi rari fino a completare una vera e
propria armatura territoriale che,
nell’arco di dieci anni (1930-1940), avrebbe
portato, in pratica, alla costruzione,
fisica e funzionale, ex-novo di una intera
provincia, anche se istituzionalmente già
riconosciuta nel 1934.
A questo atto di volontà pianificatoria e
realizzativa si aggiunse poi un capitolo
della politica migratoria interna con il
trasferimento nell’agro pontino di interi
nuclei familiari, secondo un più ampio e
complesso disegno di politica demografica,
denominato ruralizzazione, che in
questa sede può essere solo ricordato.
Ebbene, questi brevi accenni ad una
abbastanza nota e discussa pagina di storia
del territorio del nostro paese che,
tuttavia, ha prodotto scarsa riflessione
nell’ambito disciplinare della
pianificazione del territorio, supportano e
ribadiscono, con la forza dell’esperienza
sul campo, il principio generale che, anche
per il raggiungimento degli obiettivi di
settore, occorre, come naturale conseguenza,
non fermarsi a valutare i singoli aspetti
settoriali idraulici e agrotecnici ma, con
un salto di qualità, è necessario ricondurre
il tutto entro un quadro di pianificazione
urbanistico-territoriale vera e propria.
In altri termini, pur non essendo urbanisti,
e forse proprio per questo, quel gruppo di
tecnici di varia estrazione disciplinare
attivi nel settore della bonifica, partiti
da obiettivi così particolari, giungono a
scoprire come verità incontestabile
che non avrebbero mai potuto raggiungere
quegli obiettivi se non fossero passati
attraverso una trasformazione di tipo
integrato e generale di area vasta.
La politica rurale e la redistribuzione
demografica
È, dunque, difficile far emergere, da questa
pur vasta e complessa esperienza dell’agro
pontino, una riflessione attualizzata dalle
tematiche proprie della pianificazione
urbanistico-territoriale se si continua a
considerarla e a valutarla solo come una
delle azioni del regime in direzione
dell’obiettivo dichiarato del ruralesimo.
Ciò nondimeno, accenniamo brevemente ai
provvedimenti legislativi in materia di
bonifiche11 e di politica della
ruralità con l’ottica, però, di far
risaltare le tematiche della pianificazione
urbanistico-territoriale e della
ristrutturazione fisica dell’assetto
insediativo del territorio piuttosto che con
quella, più usuale e più consolidata, di
giudicare le politiche: economica, della
migrazione interna o sociale del regime del
ventennio fascista.
Si osserva allora che, restando nell’ambito
tecnico disciplinare della pianificazione
fisica, risulta ancor oggi quantomeno
problematica, e non tutta necessariamente
negativa, una valutazione comparativa di
quella esperienza. Basti pensare a quanto
già osservato come prima considerazione e
cioè che nell’esperienza della bonifica
pontina si può leggere il consolidarsi del
principio pianificatorio, tuttora di
attualità, per cui, specie per i problemi
legati al dissesto idrogeologico12,
occorre affrontare il tema della
manutenzione del territorio e, con esso,
quello più generale legato alla necessità di
creare, in un territorio recuperato,
una struttura insediativa equilibrata quale
presidio antropico del territorio
stesso, precondizione per qualsiasi azione
tesa a limitarne il decadimento.
Non c è molto da aggiungere in termini
storici e politici complessivi a quanto
detto e scritto sul ventennio e
sull’esperienza pontina in particolare e,
del resto, sarebbe fuori della portata di
questo articolo ritornare su quegli aspetti
di politica generale. Basterà qui ricordare
che è piuttosto condivisibile il giudizio
secondo il quale è stata la politica del
partito fascista degli anni 1919-1921,
intrisa di problemi inerenti la
disoccupazione, il fabbisogno di prodotti
alimentari, i dissesti, ecc., che ha avuto
un effetto di trascinamento sulla successiva
politica del regime, il quale, infatti,
proprio su quella scia, ha continuato a
sostenere coloni, bonifiche e vita nei
campi.
Dunque non può meravigliare che la
bonifica integrale, varata
definitivamente13 il 14 dicembre
1928 con la legge Mussolini, aveva
per scopi dichiarati l’aumento della
produzione agricola, la trasformazione delle
zone paludose in aree coltivabili e una
redistribuzione della popolazione fra città
e campagna (Castronovo V., 1975).
La legge, comunque, rappresentava uno
strumento strategico operativo
polifunzionale, utilizzato per affrontare
più ampi problemi di ordine politico,
economico e sociale.
Figura 2 - La bonifica dell’agro
pontino: pianta delle bonifiche con
gli alloggiamenti operai |
|
Fonte: Riva P., 1983 |
I giudizi storici su quelle direttive
politico-economiche, dopo un primo
atteggiamento piuttosto negativo, sono
divenuti alquanto cauti; anche il positivo
intento della cosiddetta
sbracciantizzazione significò, almeno
inizialmente, una dilatazione delle piccole
proprietà - che, a detta di Serpieri, era
presidio delle native virtù della stirpe
- attraverso un’ulteriore polverizzazione
dei fondi e l’insediamento di nuovi nuclei
di coltivatori diretti sui terreni più
marginali, bonificati dal lavoro e dalle
spese sostenute direttamente dai contadini.
Poiché queste ultime venivano destinate ad
una produzione di semplice autoconsumo,
l’operazione portò ad altri esiti
contraddittori14.
Comunque sia, uscendo da valutazioni
generali, va registrato, come dato
significativo per la politica di riassetto
territoriale di area vasta, il fatto che,
per l’attuazione della sola legge di
bonifica, e senza includere le altre azioni
ad essa connesse, il contributo statale a
fondo perduto previsto copriva quasi l’80%
della spesa affrontata dai proprietari15.
Dal punto di vista più strettamente
urbanistico, va sottolineato che
l’intervento del 1930 nell’agro pontino
costituisce la definitiva soluzione del
problema bonifica e l’avvio del primo
completo programma per la costruzione di un
sistema di nuovi nuclei insediativi e nuove
città. Un’azione di politica territoriale
senza dubbio complessa, svolta alla macro
scala, che mette la parola fine alla lunga
serie di tentativi delle epoche precedenti.
Le consistenti ascendenze della problematica
inerente la bonifica, infatti, risalgono a
ben prima del fascismo. In passato era,
però, mancata una vera e propria politica di
piano o una strategia generale di
intervento; le sporadiche iniziative dei
privati e dello Stato nelle diverse regioni
erano state occasionali e condotte in modo
disorganico.
Per secoli, questa era stata una zona
malarica in gran parte inabitabile. Più
volte, in passato, anche per iniziativa dei
papi, e in particolare sotto il papato di
Sisto V, si era cercato di bonificare queste
paludi, analogamente a quanto tentato in
altre zone italiane di carattere simile, ma
senza riuscire a prosciugare la terra e a
renderla coltivabile.
Conclusione: le paludi erano rimaste e così
pure la malaria, l’altro termine di uno
storico inscindibile binomio.
L’avvento del governo unitario non sembra
risolutivo. Il primo intervento che lo Stato
italiano, ormai unificato, effettuerà per la
sistemazione delle zone agricole da
bonificare è sancito dalla legge Baccarini
del 22.6.1882, ma sia questo che altri
tentativi perseguiti, non daranno i
risultati auspicati. Per avere un’idea della
dimensione del problema, della violenza e
dello sforzo richiesto per affrontarlo,
basterà ricordare che, fra il 1868 e il
1921, il nuovo Stato italiano aveva
promulgato oltre cinquanta provvedimenti di
legge volti alla bonifica delle paludi, con
il triste risultato, però, che alla vigilia
della presa del potere da parte del fascismo
ancora ben poco era stato fatto in questo
settore.
Cosicchè, non è azzardato affermare che, per
vedere affrontare il problema con un salto
di qualità, sia nel metodo che nell’impegno
finanziario, si dovette aspettare la legge
Serpieri del 1923 e, soprattutto, la
successiva legislazione sulla bonifica
integrale con il testo unico 215/1933,
su cui si fonda l’intervento modello
del risanamento dell’area pontina,
che, in tal modo, vedeva definitivamente
concluso lo sforzo di debellare la malaria,
rendere stabilmente coltivabile quella
pianura e, conseguentemente, produttivo il
lavoro delle numerose famiglie che vi
saranno trapiantate.
Ricordiamo, solo di sfuggita, che al
successo della bonifica integrale dell‘agro
pontino erano collegate le diverse esigenze
di autoaffermazione del regime fascista, in
quanto, proprio nella bonifica e
colonizzazione di quest’area la propaganda
trova un suo eccezionale punto di
convergenza, sfruttabile nel più ampio
quadro della ricerca del consenso.
L’iniziativa legislativa che apre la
stagione della bonifica integrale, come
ricordato, reca la data del 14.12.1928 e
prende il nome di legge Mussolini;
essa stabilisce un piano finanziario per il
settore della durata di 14 anni, da mettere
in atto a partire dal 1930. A questo
provvedimento se ne aggiungono altri
destinati alla bonifica di ulteriori zone
malsane del paese16. Alla luce di
un quinquennio di sperimentazione della
legge, nel 1933 un ultimo decreto riordina
organicamente tutta la materia, riunendola
nel ricordato testo unico 215/1933. In esso,
le zone interessate alla bonifica
integrale vengono suddivise in
comprensori regionali per un complesso
di quasi 5 milioni di ettari17.
Ma la vera novità, che interessa qui
sottolineare, è che tale provvedimento
sanciva come prevalenti gli obiettivi di
assetto territoriale, di organizzazione
insediativa e di colonizzazione rispetto a
quelli igienici, idrogeologici e di messa in
valore della terra dai quali si era partiti
e ai quali, per lo più, in passato ci si era
limitati.
E questo cambio di priorità e, quindi, di
ottica metodologica del gruppo di tecnici
incaricati, risulta più che esplicito e già
avviato proprio nell’intervento modello
della bonifica delle paludi pontine, il
quale, appunto, viene fatto rientrare non
più tanto tra i provvedimenti igienici
quanto nel quadro di un’ampia previsione di
opere pubbliche suggerite oltre che dalla
generale utilità, anche dalla opportunità di
creare occasioni di lavoro e di investimenti
in un momento di particolare difficoltà per
l’economia nazionale che, a quell’epoca, è
ancora in prevalenza di tipo agricolo.
L’organismo scelto come responsabile per la
conclusione dell’imponente impresa fu l’opera
nazionale combattenti (Onc), un
organismo sorto negli ultimi anni della
Grande Guerra sotto l’egida del periodico
dall’emblematico titolo La conquista
della terra, allo scopo di assistere i
soldati che tornavano dal fronte rispondendo
alle loro più immediate richieste e di
creare per loro una qualche forma di
organizzazione18.
L’Onc si era dato da fare per quasi dieci
anni con modesti risultati pratici, finché
nel 1926, per iniziativa del governo
fascista, fu trasformata da associazione,
con semplici compiti assistenziali per i
reduci, a grande ente statale, col compito
di sovrintendere alle trasformazioni agrarie
intraprese dal regime.
E quale miglior banco di prova della palude
malarica dell’agro pontino poteva essere
trovato per valutare la capacità di rompere
processi economici e dinamiche ambientali
fino a quel momento giudicate negative ma
inarrestabili? E quale migliore cassa di
risonanza per amplificare il successo
politico, ma anche tecnico, di quella
complessa azione di recupero del vasto
comprensorio pontino che, da Giulio Cesare
fino allo stato pontificio, non era riuscita
a nessuno dei precedenti governi?
Ma a parte la struttura organizzativa messa
in piedi per l’attuazione, interessa qui
insistere sugli aspetti innovativi e di
qualità del metodo.
Sul piano del metodo, infatti, la novità
concettuale sta, a nostro avviso, proprio
nella presa di coscienza che le precedenti
iniziative per bonificare la regione erano
fallite, non tanto per la inadeguatezza
delle conoscenze idrauliche, quanto perché
non furono precedute e preparate da una
azione diffusa e costante di
infrastrutturazione insediativa e urbana
tesa a portare e tenere l’uomo sul
territorio bonificato, non solo per il
momento lavorativo legato all’agricoltura,
ma con un’attenzione a tutte le sue
variegate esigenze, culturali, di
comunicazione e di intermediazione sociale.
In altri termini, si prendeva atto e si
affermava che quello che veniva affrontato,
pur movendo da scopi più limitati, non era
altro che un problema di pianificazione
urbanistico-territoriale. E, pertanto, anche
per centrare quell’obiettivo non bastava
drenare le acque, cacciare la malaria e
fertilizzare i campi, ma occorreva creare
quelle condizioni insediative di qualità e,
quindi, un ambiente e un territorio
urbanisticamente equilibrato, in grado di
stimolare e agevolare la vita delle famiglie
e degli abitanti.
In questa nuova prospettiva, anche i
programmi dell’Onc si ravvisavano dunque non
soltanto quale opera di redenzione
terriera, bensì anche, se non
soprattutto, quale opera di assetto
urbanistico-territoriale in grado di
affrontare l’incertezza del futuro.
Ma, tutto ciò, naturalmente, avrebbe potuto
esercitare anche una valida azione intesa a
regolare e a disciplinare le correnti
immigratorie (Ghirardo D., Forster K.,
1975).
Nel 1933 i lavori di bonifica nel paese sono
già estesi a oltre 4 milioni di ettari,
anche se, in alcune di queste zone, si
tratta per lo più di mantenere o migliorare
di poco la situazione esistente. Nell’agro
pontino vengono fatti affluire un po’ da
tutte le regioni d’Italia, e soprattutto
dalle affollate province del nord-est,
migliaia di lavoratori, i quali diventano
peraltro i principali attori, non solo
nell’attuare la complessa opera di bonifica,
ma anche nel processo di riassetto
territoriale che si consoliderà in seguito.
Tale colonizzazione, programmata e
organizzata sin dal marzo 1926 sotto l’egida
di un comitato permanente per le migrazioni
interne, rientrava nel quadro di una
politica demografico-sociale ed economica di
grande portata. Quantunque gli obiettivi
dichiarati che dovevano guidare la
disciplina delle migrazioni interne
fossero la decongestione delle aree
più sovraffollate e la scelta volontaria
per lo spostamento di gruppi di coloni, i
reali processi non furono effettivamente
guidati da questi principi ispiratori in
quanto inquinati da una sistematica azione
di lotta agli oppositori del regime19.
Infatti, piuttosto che di gruppi volontari,
nella pianura pontina giungono singole
famiglie, per lo più provenienti dalle Tre
Venezie, dall’Emilia e dalla Lombardia,
regioni per le quali le statistiche
segnalavano il più alto numero di persone
accusate e condannate per attività
antifasciste e scelte con criteri che,
almeno all’apparenza, poco hanno a che fare
con l’obiettivo di dare sostegno ad una
azione di pianificazione integrale del
territorio. Non si può trascurare di citare
il fatto che, malgrado fosse stabilito che
dovevano essere i sindacati a reclutare i
coloni, nella realtà furono le segreterie
federali ad effettuare la selezione. E non è
un caso se queste scelsero calzolai, sarti,
pescatori, tipografi, ma pochi agricoltori;
per le segreterie, infatti, si trattava di
elementi socialmente indesiderabili o
politicamente sospetti.
Figura 3 - Onc, Ispettorato agro
pontino, Azienda di Pontinia: zona
ex Pietrosanti (planimetria scala
1:25.000 e 1:5.000) |
|
Fonte: Riva P., 1983 |
Comunque sia, l’inquinamento dell’intera
operazione attraverso questo tipo di lotta
politica di regime, ha immediati effetti sui
risultati economici attesi in campo agrario.
I raccolti del grano, infatti, sono scarsi e
di modesta qualità e, quantunque ogni
famiglia avesse ricevuto in dotazione
attorno alla propria casa terra sufficiente,
dopo il primo anno di attività, solo il 2-3%
delle 1.900 famiglie insediate a Littoria
avrebbe realizzato quell’orto che era stato
reputato essenziale per la loro stessa
sopravvivenza. Non mancano neppure alcuni
scioperi spontanei come quello indetto, e
rientrato all’ultimo momento, del 1936, che
sicuramente sarebbe stato di grandi
proporzioni, visto che avrebbe dovuto
coinvolgere circa 26.000 contadini. I
problemi economico-sociali divennero ben
presto tanto gravi che alla fine potevano
accedere all’area solo i visitatori muniti
di uno speciale permesso, e alcune famiglie
furono di nuovo deportate nelle
regioni di provenienza (Ghirardo D., Forster
K., 1975).
La scarsa esperienza in campo agricolo dei
prescelti lascia dunque perplessi sul
rispetto di criteri di competenza
lavorativa; questo, infatti, avrebbe
costituito chiaramente uno svantaggio per il
successo economico dell’intera
ristrutturazione del territorio, visto che
nei programmi era previsto che la
popolazione si guadagnasse da vivere
operando in agricoltura. Questa estraneità
al mondo agricolo può allora apparire un
elemento sicuramente involontario ma che,
alla fine, gioca senza dubbio a favore di un
obiettivo più ampio teso ad affermare un più
generale processo di ristrutturazione del
territorio.
Il programma di città nuove nella pianura
pontina
Richiamata per sommi capi la vicenda storica
complessiva ed il contesto economico e
sociale del suo sviluppo, torniamo a
riferirci allo specifico della creazione dal
nulla di un nuovo assetto insediativo
urbano-territoriale.
Il programma, enunciato nel 1926, era quello
di promuovere il sorgere di colonie agricole
e di nuovi centri abitati, chiamandovi
soprattutto agricoltori combattenti.
Un compito arduo e complesso, dalle molte
facce, nel quale, come si è già rilevato,
c’è un aspetto, sul quale si è meno
serenamente riflettuto, che assume
un’importanza di primo piano. Si tratta,
appunto, dell’assunto, a cui gli attori di
quel progetto alla fine pervengono e su cui
in precedenza si è già insistito, e cioè che
solo completando l’intera operazione del
recupero della terra, con la formazione
di un reticolo di nuovi centri e di una
struttura insediativa di qualità, sarebbe
stato possibile effettuare, specie nel
Mezzogiorno, l’alleggerimento di molti
centri abitati sovraccarichi di popolazione
e, allo stesso tempo, operare l’assegnazione
ai reduci di una casa salubre e di un lavoro
redditizio in un territorio completamente
riprogettato, dando così una risposta al
problema multiobiettivo del riequilibrio
demografico territoriale, della sicurezza
sanitaria e della giustizia sociale.
Figura 4 - L’appoderamento dell’agro
pontino e romano con il limite di
proprietà dell’Onc |
|
Fonte: Mariani R., 1976 |
In altri termini, visto sotto questa
specifica angolatura della pianificazione
territoriale, si può dire che questo
programma di bonifica e colonizzazione
dell’agro pontino, rappresenta per il
fascismo una delle sue più significative, se
non la più significativa, opera di
trasformazione territoriale effettuata sotto
controllo pubblico.
È l’Onc, in stretto collegamento con il
regime, che assume il ruolo di responsabile
tecnico-amministrativo dell’operazione nella
sua quasi totalità. Infatti, sono nelle sue
mani tutti i fattori del processo di
pianificazione territoriale: i lavori di
bonifica, l’appoderamento e la costruzione
dei borghi, la riconfigurazione
amministrativa provinciale e comunale, il
controllo dell’attività economica ed i
rapporti con i coloni. Le strutture
insediative definitive derivarono dalla
trasformazione delle strutture provvisorie
messe in atto per l’esecuzione dei lavori,
per cui i borghi sostituirono
progressivamente i cantieri di bonifica.
L’assetto urbanistico finale risultava, in
tal modo, per i borghi e i centri rurali
minori, stabilito fin dall’inizio in sede
tecnica specialistica. Le città, invece,
“sorsero in luoghi generalmente baricentrici
rispetto al sistema borghi-poderi, e cioè
all’incrocio delle direttrici principali di
comunicazione regionale e in prossimità
della ferrovia“ (Mioni A., 1976).
Il merito del nuovo inquadramento teorico,
programmatico e legislativo della materia,
tuttavia, va in gran parte allo specialista
Arrigo Serpieri che, nella sua qualità di
sottosegretario alla bonifica,
unitamente ad altri tecnici, si trova a
redigere il piano generale dei territori da
bonificare.
L’Onc individua i limiti territoriali
dell’intervento nell’agro pontino, in un
comprensorio che inizialmente comprendeva
oltre 60.000 ettari di terreno incolto e in
parte a bosco fra Cisterna e Terracina. Per
tali aree da valorizzare viene impostato un
piano tecnico di risanamento idraulico
preceduto da attenti studi idrogeologici e
sullo stato dei terreni.
Comunque sia, è immediata l’osservazione
che, dati i mezzi già allora a disposizione,
l’intera operazione non meraviglia per
l’eccezionalità del livello tecnico del
recupero agrario o per l’effettiva
centratura degli obiettivi, per altro
alquanto discutibile, quanto per la
complessità delle interrelazioni tra i
problemi affrontati ed il livello del
coordinamento richiesto.
I lavori di bonifica vera e propria iniziano
nel 1926, con il tracciamento dei canali e
le prime colmate; nel 1930 si procede
all’eliminazione della boscaglia, mentre si
va delineando la struttura della rete viaria
principale e secondaria.
Al termine dell’opera, le infrastrutture
complessivamente realizzate consistono in
2.000 km di canali e 900 Km di strade, oltre
alle borgate e ai centri. Per l’escavazione
dei canali vengono fatte brillare 800.000
mine, con una media di 4.000 al giorno. Si
realizzano 9.800 km di scoline agrarie,
1.960 km di strade e si costruiscono 2.173
case coloniche. In complesso, nell’agro
pontino, la bonifica restituisce
all’agricoltura 1.600.000 ettari di terreno
proprio dove per 2500 anni la vita era stata
impossibile a causa della malaria che minava
gli organismi umani.
I poderi hanno una dimensione compresa fra i
5 e i 30 ettari (con una dimensione media di
15 ettari, e con appezzamenti talvolta
inferiori ai 5 ettari per le zone irrigue);
le case coloniche, dotate dei fabbricati di
servizio, sono costruite lungo le strade
interpoderali in base a chiari criteri di
regolarità. Ogni gruppo di circa 100
famiglie fa capo ad un borgo,
concepito come centro aziendale e sistemato
all’incrocio della nuova rete stradale
secondaria, spesso sugli stessi luoghi ove
sorgeva il cantiere di bonifica (Sica P.,
1978).
Via via che i canali consentono lo scolo
delle acque, che le idrovore prosciugano i
terreni e che i trattori dissodano la terra,
le imprese di costruzione realizzano i
villaggi destinati ai contadini. Questi
villaggi sono battezzati con i nomi di
località o zone del Veneto sacre alla
memoria della Grande Guerra, come: Borgo
Carso, Borgo Pasubio, Borgo Bainsizza, Borgo
Monte Grappa, dove si installano per lo più
agricoltori emigrati appunto dal Veneto.
Non è difficile riconoscere che
l’articolazione alquanto variegata delle
tipologie di insediamento “riflette
l’intento di creare una stabile struttura
sociale e produttiva contadina, legata alla
terra dal contratto di conduzione mezzadrile
e all’apparato istituzionale da una serie di
luoghi collettivi tali nel loro complesso da
neutralizzare l’attrazione della grande
città attraverso un’offerta dimensionata di
servizi sociali strettamente compenetrati
con la rete organizzativa del partito
fascista; e questa articolazione si esprime,
nei suoi livelli crescenti di complessità,
nella triade gerarchica podere - borgo -
città” (Sica P., 1978).
Le città del sistema rispettano il principio
del limite dimensionale di howardiana
memoria e sono dimensionate per una
popolazione compresa tra i 3.000 e i 5.000
abitanti (salvo il caso del capoluogo di
provincia Littoria) e sorgono in
corrispondenza dei punti di massima
accessibilità della rete infrastrutturale.
La loro funzione preminente di centri
amministrativi, tecnici e rappresentativi, è
progettualmente definita attraverso un
elenco dettagliato delle attrezzature che vi
dovranno essere presenti e mediante una
serie di prescrizioni relative alla densità
abitativa e alle tipologie residenziali.
La nascita di Littoria costituisce l’evento
più spettacolare della bonifica integrale
ormai avviata a conclusione. Il 5.4.1932
Mussolini stesso indica il luogo in cui
vuole che sorga la città. Entro tre mesi
dalla decisione iniziano i lavori: il nucleo
centrale della città è stato realizzato a
tempo di record. “Latina - scrive Insolera -
è una vera città nuova, costruita fin
dall’inizio su un piano regolatore, un piano
che prevedeva una piazza rettangolare al
centro e che disponeva intorno a questa
piazza gli edifici pubblici: il municipio,
la banca, i negozi, l’opera nazionale
combattenti, la direzione agricola, e
tutto intorno le caserme dei carabinieri,
della Milizia e così via. Da questa piazza
partivano poi a raggera le strade, sei
strade che dividevano il territorio intorno
in vari lotti dentro cui sono state
costruite le case, quasi tutte di tipo
popolare, …” (in Petacco A., 1986).
Si tratta di uno schema urbanistico
radiocentrico poligonale, redatto
dall’architetto Frezzotti, che si presenta
come un modello piuttosto convenzionale ma
che, tuttavia, ha il merito di essere
sufficientemente adattivo rispetto alle
trasformazioni future e di rappresentare,
con una certa coerenza, l’obiettivo di
stabilire uno stretto rapporto con il
territorio circostante facendolo convergere
sulla città più rappresentativa tra quelle
di nuovo impianto. In conseguenza del nuovo
ruolo assunto da Littoria, lo stesso
Frezzotti, nel 1935, elaborerà un piano di
ampliamento che rinforza il sistema
radiocentrico - anulare iniziale, portando
le previsioni insediative fino a ben 50.000
abitanti.
Il programma di riassetto agricolo
insediativo, quindi, si incardina sugli
obiettivi politici e sociali della bonifica
e della colonizzazione; ma è nelle città e
nell’organizzazione territoriale del sistema
insediativo urbano che la politica di questi
anni troverà i risultati di maggior
soddisfazione e giungerà alla conclusione
che, nel riorganizzare un comprensorio o
fondare un nuovo sistema insediativo, è
comunque necessario che il centro delle
operazioni diventi la città.
Poiché tutte le città nuove20
sono ubicate ad una certa distanza dai
maggiori centri esistenti è necessario che
vi trovino sede organismi amministrativi
locali. Tuttavia, il governo non sembra
essere cosciente, almeno quanto il gruppo
dei tecnici della bonifica, della necessità
tecnica di perseguire gli stessi obiettivi
di assetto insediativo urbano rurale. Per il
governo, infatti, le città nuove rivestono
soprattutto un grande significato
propagandistico in quanto teso a dimostrare
di essere in grado di realizzare città
funzionanti piuttosto di attuare una
sperimentazione organica di tipo
anglosassone nel campo del riequilibrio
urbano-territoriale, senza contare
l’esigenza, più simbolica che di tecnica
pianificatoria, di voler rappresentare
proprio attraverso la visibilità delle
città, quindi in maniera molto appariscente,
il successo della bonifica.
Anche la creazione e l’amministrazione delle
città nuove dell’agro pontino ricaddero,
quindi, sotto l’egida dell’Onc. Né si può
trascurare l’intento tipico di un regime di
effettuare uno stretto controllo sulla terra
bonificata tramite un sistema di nuove città
con la sede dello stesso Onc, il Municipio,
le caserme dei Carabinieri, della Milizia
ecc.
Dopo poco più di un anno, il 5.8.1933 fu
fondata la seconda città dell’agro pontino,
Sabaudia, il cui nome era un omaggio alla
casa regnante. Anche qui si era proceduto
con grande rapidità: in meno di un anno fu
abbattuto un tratto della foresta del Circeo
e costruita la maggior parte della città,
inaugurata il 15.4.1934.
Il giudizio degli esperti su Sabaudia,
sempre molto limitato allo spazio interno
del progetto urbanistico21, è
generalmente più cauto di quello su
Littoria, ma a qualcuno non sfugge il
diverso ruolo economico recitato da questa
città a scala comprensoriale in quanto testa
di ponte per il settore turistico. Scrive
ancora Insolera: “Il bosco e tutto il
promontorio del Circeo furono trasformati in
parco nazionale nel 1934, press’a poco nello
stesso momento in cui fu fondata Sabaudia.
Il ruolo di Sabaudia nell’insieme delle
bonifiche pontine è effettivamente diverso.
Le altre quattro città - Pomezia, Aprilia,
Latina e Pontinia - sono tutte allineate al
centro della bonifica. Sabaudia invece è in
un angolo, al di là del parco nazionale,
lungo il lago e in una zona che avrà
notevole sviluppo turistico“ (in Petacco A.,
1986).
Di lì a poco la rete urbana crescerà, i
centri già costruiti si rafforzeranno e
verranno realizzate anche le altre città
nuove.
Il 17.12.1934 la città di Littoria viene
promossa di rango e proclamata solennemente
capoluogo della novantatreesima provincia
italiana. Una nuova provincia sorta, nel
quadro del riassetto operato dalla bonifica
delle aree paludose, unendo 26 comuni della
provincia di Roma (di cui 15 provenivano
dall’ex circondario di Gaeta, soppresso nel
1927, e 2, Ponza e Ventotene, da Napoli) per
un totale di 28 comuni, ai quali, in un
secondo tempo, si aggiungono Pontinia (1935)
ed Aprilia (1936). In seguito, nel 1947, ai
28 si uniranno gli altri tre Comuni di
Maenza, Roccasecca dei Volsci e Santi Cosma
e Damiano, ricostruiti proprio in quell’anno,
cosicché il totale della provincia giunge
agli attuali 33 comuni.
Nel 1935 venne realizzata la città
aeronautica di Guidonia, che prende il nome
dal generale del genio aeronautico
Alessandro Guidoni; il 25.4.1936 viene
fondata Aprilia, che è inaugurata il 28
ottobre dell’anno successivo; Pomezia è
fondata nell’aprile 1938 e inaugurata
nell’ottobre del 1939, successivamente
considerata l’area industriale di Roma;
Pontinia è inaugurata il 18.12.1939.
L’opera di riassetto dei fondi rustici,
iniziata nel 1931, fu ultimata, sempre dall’Onc,
sei anni dopo. Questo sembrerebbe l’unico
vero risultato efficace e duraturo ottenuto
dal quel grandioso programma di interventi.
Alla fine, infatti, nell’Italia agricola di
quegli anni risultano bonificati
complessivamente 137.000 ettari, 75.000 dei
quali nella piana dell’agro pontino e i
restanti nell’area dell’agro romano. Si
poteva, quindi, a buona ragione scrivere:
“Oggi Roma non è più circondata dal deserto.
… Ora, nel 1931, il deserto attorno alla
capitale è - come dire? - punteggiato e
animato e trasformato da 1.662 gruppi di
fabbricati, da 3.851 abitazioni per un
totale di 13.318 vani, più 581 ricoveri per
gli avventizi. … La popolazione rurale, che
era di 3.850 unità nel 1922, è salita a
19.300 nel 1931, più 29.000 avventizi”
(Dall’Almanacco fascista del Popolo
d’Italia, Milano, 1932, in Petacco A.,
1986).
È con questo soddisfatto compiacimento di
stampo quasi bucolico che la grandiosa opera
di bonifica integrale, proprio alla vigilia
della seconda guerra mondiale, può dirsi
conclusa.
Ma l’aspetto più importante, anche per l’eco
suscitata al di fuori dei confini nazionali,
era costituita dal fatto che “la fondazione
di dodici nuove città nello spazio di dodici
anni - anni, per di più, di depressione
economica su scala mondiale - costituiva la
vigorosa riprova di uno Stato italiano
fascista determinato e potente” (Ghirardo
D., Forster K., 1975).
La bonifica è conclusa, ma non si è
concluso, anzi è agli albori, il processo di
sviluppo così innescato; un processo che
conoscerà percorsi imprevisti e successive
ulteriori accelerazioni nei decenni
dell’ultimo dopoguerra favorito, in questo,
da quelle premesse di assetto
insediativo-territoriale poste proprio con
la bonifica di quegli anni.
Alcune riflessioni in una prospettiva di
ripensamento disciplinare
La bonifica, il più celebrato successo della
politica territoriale del fascismo, voleva
rappresentare, attraverso un intervento
pubblico di trasformazione territoriale di
dimensioni mai prima tentate in Italia, la
capacità del regime di pianificare
organicamente economia, società e
territorio. Le bonifiche, d’altro canto,
rappresentano senza dubbio un esempio
notevole che testimonia l’intreccio tra le
politiche economiche e la pianificazione
fisica del territorio.
E fu, come detto, proprio Serpieri a
rendersi conto della interdipendenza dei
vari aspetti produttivi e sociali ravvisando
la necessità di una politica dei territori
agricoli depressi che non fosse più intesa
in senso strettamente ingegneristico o
agronomico, ma che perseguisse obiettivi più
ampi e complessi.
Figura 5 - La bonifica dell’agro
pontino |
|
Fonte: Onc, XVI |
Il relativo giudizio è, tuttavia,
controverso.
Secondo De Felice “che la politica della
ruralizzazione fosse assurda e anacronistica
e, quindi, necessariamente destinata alla
lunga al fallimento è fuori dubbio, sia
oggettivamente, sia in relazione agli
strumenti politici di intervento di cui il
regime disponeva” (De Felice R., 1974).
È convinzione ancora diffusa che la bonifica
integrale sia stata, viceversa, un elemento
fortemente positivo della politica economica
fascista. Le opere di bonifica servirono ad
occupare migliaia di lavoratori che
altrimenti avrebbero dovuto essere sostenuti
con sussidi di disoccupazione22.
Recenti studi hanno contribuito tuttavia a
ridimensionare la portata effettiva dei
miglioramenti fondiari allora conseguiti e
anche l’ampiezza dei mutamenti sociali,
nella riorganizzazione della manodopera
agricola e nel regime fondiario, che i piani
di Mussolini e di Serpieri si ripromettevano
di secondare mediante la messa a coltura e
la ripartizione delle terre destinate a
bonifica23. Ma non furono tanto
gli effetti della crisi del 1929 sulla
finanza statale o il costoso intermezzo
dell’avventura coloniale in Abissinia del
1935-1936 a decretare il parziale insuccesso
della bonifica integrale. Gli ostacoli più
gravi all’allargamento delle opere di
trasformazione fondiaria vennero frapposti
piuttosto dai grossi proprietari terrieri, i
quali riuscirono spesso ad evadere l’obbligo
di pagare la quota di loro competenza in
favore dei consorzi di bonifica, oppure
preferirono, quando non ne poterono fare a
meno, dare in locazione i loro fondi
addossando così agli affittuari il carico
delle spese di miglioria.
Altro luogo comune da sfatare è quello
secondo cui l’opera di bonifica contribuì
comunque al riassetto fondiario di molte
plaghe depresse del Mezzogiorno, venendo
finalmente incontro ad un voto largamente
espresso dai meridionalisti illuminati della
seconda parte dell’Ottocento. Gli stessi
dati ufficiali confermano, viceversa, che
una larga parte degli investimenti pubblici
venne destinata alle regioni del nord e
dell’Italia centrale. D’altra parte la
battaglia del grano, più che a creare
rendite differenziali in favore
dell’economia agraria meridionale, contribuì
ad approfondire le disparità già esistenti
tra nord e sud (Castronovo V., 1975).
Negli esperimenti di colonizzazione degli
anni ’50 vi sarà, poi, una sorta di
continuità24, non solo di disegno
politico, ma anche di profilo sociologico e
urbanistico: i villaggi abbandonati della
riforma agraria vennero, infatti, dopo
trent’anni, riscoperti per un possibile
riuso giovanile.
Figura 6 - La bonifica dell’agro
pontino: infrastrutture,
insediamenti e impianti |
|
Fonte: Onc, XVIII |
La bonifica dell’agro pontino, oltre ad aver
storicamente costituito la prima esperienza
di pianificazione territoriale di area vasta
per il nostro paese, ha rappresentato anche
quella che, in qualche modo, per prima ha
posto al centro della propria attenzione la
questione ambientale, intesa nella sua
accezione più ampia e complessa, in cui
rientra la problematica della sicurezza del
territorio rispetto ai rischi, piuttosto che
quella, più scontata, concernente la tutela
naturalistica25.
Nel caso della bonifica pontina, l’apparente
contraddittorietà tra questa presunta
centralità della questione ambientale e la
cancellazione di una estesa e ricca zona
umida viene chiarita dall’esplicito
obiettivo del raggiungimento di una
sicurezza insediativa tramite il
debellamento della malaria, il cui livello
di emergenza, oggi scomparso, è da
rapportare con il grado di conoscenze
medico-scientifiche dell’epoca.
D’altro canto, di lì a poco la legge
urbanistica 1150/1942 avrebbe sancito, a
livello istituzionale, ciò che da tempo era
maturato e acquisito a livello scientifico
circa la necessità di una pianificazione
alla grande scala mediante il piano
territoriale di coordinamento.
Prevalentemente negative sono, poi, le
valutazioni circa i risultati urbanistici di
quell’esperienza.
Alberto Mioni, ad esempio, ritiene che “lo
schematismo del sistema originale si è
rivelato un grave ostacolo per il suo
adattamento a situazioni diverse, e la
mancanza di flessibilità interna ha portato
a contraddizioni molto vistose”. Lo schema
organizzativo realizzato dall’Onc nell’agro
pontino, si contraddistingueva per il suo
carattere di staticità “determinata da una
rigida pianificazione iniziale”. Una
pianificazione, tra l’altro, che, al di là
di importanti realizzazioni tecniche,
proprio allora cominciava ad essere pratica
diffusa, accompagnata dalla concreta
sperimentazione di alcune teorie (zoning,
standards, selezione del traffico).
Il primo esempio di pianificazione
territoriale italiana, dunque, sarebbe stato
caratterizzato da una eccessiva rigidezza
dei suoi legami, il che non avrebbe
consentito al sistema territoriale, centrato
sulla capacità del podere di
assorbire l’evoluzione demografica, di
introdurre, all’occorrenza, le opportune
modificazioni adattive endogene, in quanto
il sistema stesso, dal suo interno, si
sarebbe rivelato incapace di tener dietro
alle modificazioni del contesto (i
fattori esterni), alla luce delle
esigenze nuove ed originariamente
imprevedibili.
La caduta del fascismo aveva determinato la
rottura del sistema di riferimento generale
in cui la bonifica integrale era collocata,
mettendo in crisi l’intero sistema
pianificato e le conseguenti azioni. La
trasformazione industriale degli anni ’60 ha
poi comportato la diversa articolazione
della gerarchia funzionale e della struttura
demografica di buona parte di quel
territorio, soprattutto a seguito di
“sviluppi edilizi ed urbanistici non
previsti”. I fattori esterni, cui si
faceva riferimento, non sono altro che
quelli generali connessi alla crescita
complessiva del paese, quali il processo di
terziarizzazione e il conseguente aumento
del reddito e nuovi modelli di consumo e di
mobilità; questo avrebbe “generato una
proliferazione di edifici e un insieme di
urbanizzazioni che non erano previste, né
erano compatibili con i piani iniziali della
colonizzazione rurale e con la loro logica
ristretta, e li hanno fatti saltare” (Mioni
A., 1976).
Per queste ragioni sarebbero venute meno
tutte le previsioni quantitative fatte
inizialmente, per cui nessuno dei cinque
piani urbanistici elaborati per le
principali città nuove poté essere
concretamente attuato.
Ma in quale parte d’Italia, pianificata o
no, non vi è stata proliferazione di
urbanizzazioni non previste o non
compatibili?
Cosa rimproverare, quindi, alla
pianificazione pontina, allorquando la
celebrata politica delle new towns di
prima generazione, attuata ben dopo il
periodo in esame, progettava strutture a
nuclei relativamente autosufficienti, i
neighbourhoods units, organizzati
rigidamente a grappolo, tanto che con la
successiva seconda generazione di new towns
si tenterà di porre rimedio ai suoi
riconosciuti limiti tecnico-funzionali?
Ci convince, piuttosto, il fatto che sia
stata la perdita di potere dell’Onc a
determinare la rottura del modello, cioè la
mancanza di un governo unitario dei
processi. L’impostazione originaria di un
intervento complessivo a livello
comprensoriale veniva a mancare e, quindi,
veniva meno la gerarchia istituzionale che
lo governava e si affermava in pieno
l’autonomia del singolo comune. Il
comprensorio, insomma, in qualche modo
rappresentava l’origine, ma il comprensorio
(e, quindi, l’Onc) non c’era più.
Fu innanzitutto la realizzazione di impianti
industriali, all’epoca di notevoli
dimensioni, a determinare scelte
localizzative sicuramente incompatibili con
il telaio insediativo sottostante; ma fu
soprattutto la frammentazione della
proprietà a complicare l’uso degli strumenti
di coordinamento e di pianificazione
economica e urbanistica dell’area in
oggetto.
Possiamo, invece, concordare con quanti
hanno affermato che a “una grande esperienza
di bonifica integrale e di colonizzazione si
è accompagnato (…) il sostanziale fallimento
dei disegni urbanistici, come ci si doveva
aspettare dato il diverso approfondimento
scientifico portato nei due settori” (Mioni
A., 1976). Siamo, cioè, concordi nel
sottolineare lo squilibrio fra il notevole
approfondimento tecnico e scientifico
relativo alla bonifica dal punto di vista
idraulico ed agrario e, viceversa, lo scarso
approfondimento degli aspetti più
propriamente legati alla pianificazione
territoriale e urbanistica, pur consapevoli
che il fallimento non è derivato dalla
rigidezza dello schema pianificatorio
iniziale, ma dal più generale e complesso
problema dell’efficacia della pianificazione
urbanistica in quanto tale e nella
contraddizione consistente nella capacità di
creare modelli operativi più o meno validi e
l’incapacità di tradurre quei modelli in
configurazioni reali conseguenti26.
Lo schema rigido, tuttavia, deve essere
considerato come un approccio tipico
dell’epoca in cui questa esperienza si è
svolta. Guasti ben più gravi della rigidezza
di uno schema insediativo li ha sicuramente
prodotti, invece, a partire dal 1957,
l’intervento straordinario nel Mezzogiorno,
con l’innesco di processi insediativi
convulsi ed incontrollati cui sono da
ascrivere molte delle brutture ambientali
attuali e la stessa “compromissione quasi
definitiva di un ampio territorio di buona
parte del quale oggi si rimpiange lo
snaturamento”. È questo l’esempio di una
programmazione e di una pianificazione
territoriale che non comunicano tra loro:
far passare la linea di demarcazione
dell’egida della Cassa per il Mezzogiorno,
con tutti i suoi incentivi, appena a sud di
Roma ha fatto sì che Pomezia, al di sotto di
tale linea ma troppo a ridosso di Roma, per
la sua notevole appetibilità, fosse
aggredita da un forte processo insediativo
industriale che ne avrebbe stravolto
l’originaria connotazione.
Il luogo stesso in cui fu costruita Sabaudia
è di alto pregio paesaggistico.
Dal bando di concorso per la progettazione
di Sabaudia (del 21.4.1933 - XI) si legge
che è “lasciata ai concorrenti ampia libertà
d’iniziativa, purchè il piano regolatore
corrisponda alle esigenze pratiche di un
centro eminentemente rurale (…). In detto
piano regolatore dovranno essere previsti
tutti i servizi pubblici necessari al
funzionamento del nuovo centro agricolo,
(…)”. Ma “il luogo indicato nella
cartografia del bando è splendido:
completamente disabitato, il monte Circeo
vicinissimo, il lago di Paola separato dal
mare da una sottile striscia di dune. È
questa eccezionalità del paesaggio che
lascia intravedere altre utilizzazioni oltre
quella di centro eminentemente rurale”
(Mariani R., 1976).
Sabaudia, difatti, vedrà negli anni
successivi assumere quale attività
prevalente quella turistica saldandosi al
turismo del vicino Circeo trasformato
proprio in quel periodo (il 25.1.1934) in
parco nazionale.
E proprio circa l’accennato rapporto tra
urbanistica ed economia Piccinato, nel 1977,
chiariva che “la soluzione del problema va
vista decisamente in un coerente processo di
collaborazione tra programmazione economica
e pianificazione urbanistica. I due termini
non si possono distaccare. Allo svolgersi
della programmazione non può non essere
posto il continuo controllo della verifica
urbanistica intesa questa nel suo più vasto
significato teorico, dimensionale,
culturale. (…) Le decisioni programmatiche,
quando sono prese al di fuori di una visione
di pianificazione urbanistica (…) portano
(…) pericolosi scompensi”. Pertanto “una
programmazione economica (…) comporta una
preventiva verifica attraverso una sua
traduzione progettuale urbanistica, verifica
che sappia tener conto di tutti gli effetti
indotti conseguenti alle scelte di
localizzazione, anche generiche, sul
territorio. E questa verifica preliminare
può addirittura portare a dover cambiare il
programma economico. Occorre, insomma, fare
in modo che le due azioni si svolgano, per
quanto è possibile, contestualmente” (Piccinato
L., 1977).
Un ulteriore breve raffronto può essere
fatto con le esperienze anglosassoni.
L’esperienza teorico-culturale del green
movement, che ha conosciuto
l’espressione più apprezzata in Inghilterra
nella lunga catena di pratiche attuazioni
che va dalla garden city howardiana
alla politica delle new towns, trova
in Italia un analogo livello elaborativo non
tanto nelle proposte degli urbanisti,
sfociate per lo più negli epigoni riduttivi
delle nostrane garden suburb (Milanino
a Milano, la Città giardino di Aniene al
Monte Sacro a Roma di G. Giovannoni) quanto,
guarda caso, proprio nell’esperienza
interdisciplinare della bonifica integrale:
in questa, infatti, hanno operato tecnici
agrari, idraulici, economisti, nel delineare
l’assetto complessivo di un vasto territorio
e dove gli urbanisti sono intervenuti
esclusivamente nel segmento finale del
processo pianificatorio con la definizione,
in buona sostanza, solo di ben delimitati
spazi sede dei centri urbani.
Insomma, in Italia l’elaborazione teorica
degli urbanisti dà luogo a sottoprodotti
dell’impostazione howardiana. Una vera e
propria politica di controllo della crescita
urbana nasce, invece, dall’elaborazione dei
tecnici attivi nel campo della bonifica.
Sembrerebbe, così, trovare conferma
l’ipotesi che solo il fertile terreno dell’interdisciplinarietà
ha consentito alla cultura pianificatoria di
incrociarsi con le idee più strutturali del
mondo anglosassone degli anni ’30 circa la
risposta da dare all’endemico problema della
crescita urbana e alla conseguente necessità
di definirne i limiti, anche progettuali (green
belt), e prevederne l’eventuale
ulteriore sviluppo in una prospettiva di
localizzazione o rilocalizzazione in nuovi
nuclei insediativi. Dunque, a nostro avviso,
un bilancio complessivo di quella azione
pianificatoria, fatto nello stretto ambito
disciplinare, è più complesso. Infatti, al
risultato voluto in campo agricolo,
ricordato per sommi capi, va aggiunto il
risultato, forse di maggior rilievo, di tipo
urbanistico territoriale, perseguito da
parte del gruppo tecnico-operativo
interdisciplinare di progettazione con
notevoli capacità e livello culturale, ma
con una certa confusione di intenti da parte
del regime. Ebbene, questo risultato, sarà
messo in luce più che dagli argomenti
tecnici e dai principi ideologici
dichiarati, dagli eventi successivi. È un
risultato esprimibile tramite gli effetti
positivi che scaturiscono, ed ancor più
scaturiranno nel dopoguerra, dalla
costruzione ex novo di una armatura
territoriale ben equilibrata, cioè di un
sistema insediativo articolato che, se da un
lato garantì il consolidarsi della bonifica,
dall’altro contribuì ad un processo di
sviluppo dell’area per molti decenni a
venire, confermando la sua validità con il
superamento delle successive dure prove. In
altri termini, l’assetto insediativo della
pianura pontina, con la sua rete di nuclei,
borghi e città, ha gettato le premesse per
consentire, nel dopoguerra, di trasformare
un territorio, pensato e programmato per
diventare un’area produttiva agricola, e
quindi monosettoriale, in un’area ad
economia plurima, ove, cioè, all’agricoltura
si sono affiancate - sia pure con effetti a
volte drammatici per la mancanza di una
pianificazione sostenibile alla grande scala
- la produzione industriale e le
infrastrutture turistiche di accoglienza per
i flussi provenienti dalla capitale. Tale
sistema insediativo, infatti, ha dimostrato
di essere in grado, non solo di sopportare
ed assorbire le forti tensioni ed i diversi
indirizzi di politica economica, non sempre
saggi e coerenti - si pensi alla politica di
incentivi per la localizzazione industriale
portata avanti della Cassa per il
Mezzogiorno che traccia il suo limite di
azione nei pressi di Pomezia o al boom
edilizio del turismo delle seconde case
lasciato dilagare intorno al Circeo e lungo
le coste - ma anche di sostenere i
successivi processi di sviluppo locale.
Figura 7 - Planimetria generale di
Sabaudia secondo il progetto del
gruppo vincitore del concorso
bandito dall’Onc |
|
|
1
“L’agro pontino è il territorio compreso tra
i monti Lepini e il mare, che oggi
costituisce una gran parte della Provincia
di Latina. La sua superficie è di circa 200
km. La regione, dal punto di vista
geografico, si divide in tre parti: una zona
costiera di dune, separata dal litorale
rettilineo da una catena di laghi e lagune
allungata e parallela alla costa; una
pianura ondulata all’interno; una zona
depressa, al di sotto del livello del mare,
ai piedi delle montagne. L’ostacolo offerto
dalla dune costiere e dalle ondulazioni
della zona centrale allo scorrere delle
acque dai monti aveva mantenuto per secoli
la regione in condizioni di acquitrino, con
vastissime aree inabitabili e incolte e
grandi foreste di querce all’interno, di
pini sul litorale” (Mioni A., 1976).
2
Pianificazioni separate e governo
integrato del territorio è stato il
titolo del convegno nazionale dell’Istituto
nazionale di urbanistica (Inu) tenutosi a
Firenze i giorni 13 e 14 dicembre 2001, ai
cui atti si rimanda per gli interessanti
approfondimenti.
3
Di bonifica integrale si parlò per la
prima volta in Italia nel 1911, nella
relazione del Ministro dell’agricoltura
Sacchi al Congresso dell’Associazione
nazionale delle bonifiche. L’aggiunta
dell’aggettivo integrale recuperava
alla bonifica quel significato che aveva in
origine, e cioè di intervento di carattere
globale in cui l’opera di prosciugamento
delle aree paludose, con relativi drenaggi e
colmate, non era che un primo passo verso la
complessiva sistemazione di un intero
comprensorio, il che comportava anche il
riassetto del suo bacino idrogeologico e del
suo sistema forestale a monte, con la
relativa costruzione delle necessarie
infrastrutture, quali canali di scolo e
irrigazione, argini, strade e, soprattutto,
l’appoderamento, la colonizzazione e l’infrastrutturazione
(con strade, edifici rurali, stalle, silos,
scuole, attrezzature e servizi) dei terreni
bonificati. Tale concetto fu formalizzato
con il Rdl 215/1933, cioè la legge sulla
bonifica integrale, la quale, tra
l’altro, rendeva obbligatoria l’esecuzione
delle suddette infrastrutture, prevedendo,
in caso di inadempienza, che lo Stato
intervenga a espropriare le aree e a
completare i lavori (Mioni A., 1976).
4
Anche in Calabria, come in molte zone del
meridione, la malaria ha operato “come un
tipico fattore cumulativo di sottosviluppo”.
Infatti, fino all’ultima guerra ogni nuova e
ancor più ampia diffusione del morbo
spingeva sempre più le popolazioni a
rifugiarsi nelle zone salubri, collinari e
montane; di qui la condanna di tali zone al
“supersfruttamento e al disboscamento più
irrazionale. Il conseguente aggravamento del
regime delle acque e la fuga delle
popolazioni, determinavano al piano un
ulteriore estendersi della palude e anche
della malaria. Si instaurò così, nel corso
dei secoli, un circolo vizioso il cui
risultato provocò un sempre maggior
squilibrio tra risorse umane e risorse
disponibili nelle zone salubri e in quelle
malariche”. La politica delle opere
pubbliche statali di bonifica aveva, poi,
privilegiato la realizzazione di quelle
opere governative che non erano quelle più
organiche ad un progetto programmato di
bonifica del territorio, bensì tra quelle di
più immediata attuazione, anche se autonome.
Una strada questa che contribuirà non poco a
lasciare, in certe aree del paesaggio
calabro dell’immediato dopoguerra quell’aspetto
di abbandono definito in modo immaginifico
dal Pedrocchi come un “cimitero di opere
pubbliche” (Jacobelli P., 1986).
5
L’evoluzione concettuale sfocerà nella
cosiddetta legge sulla montagna,
legge del 25.7.1952, n. 991, con cui
l’ambiente montano viene considerato in
tutta la sua realtà economica, fisica e
sociale.
6
Ci viene in mente il terrazzamento di
Magnaghi A. ne Il progetto locale,
Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
7
Il Rdl 2464/1925 introduceva il concetto di
comprensorio di bonifica fondiaria facendolo
coincidere con l’area di intervento
idraulico.
8
La moderna concezione di difesa del suolo
risulta dalla sintesi ed integrazione, in
visione coordinata ed unitaria, delle due
direttrici di azione che hanno ispirato in
passato la nostra legislazione in materia:
la direttrice, consacrata già nella legge
del 1865 e in quelle successive sino al
testo unico n. 523 del 1904, della difesa
contro le inondazioni provocate dai corsi
d’acqua veri e propri, e la direttrice,
emersa con la legge sui bacini montani del
1911 e consolidata nelle leggi di bonifica e
forestali del 1923, 1928, 1933 e 1952,
secondo la quale veniva coordinatamente
considerato “l’intero sistema di interventi
di consolidamento delle pendici, di
sistemazione idraulico-forestali, di
regolazione idraulico agraria dei flussi
sottosuperficiali, di permeabilità e scolo
dei terreni, eccetera”. Nel 1919, uno dei
prototipi di enti speciali agricoli e di
irrigazione, l’Acquedotto pugliese,
istituito come consorzio con legge del
26.6.1902, n. 245, diventa ente autonomo (Rdl
del 19.10.1919, n. 2060) con compiti di
rimboschimento, irrigazione, costruzione di
case popolari e coloniche (il successivo
regolamento, Rd del 16.1.1921, n. 195, li
estenderà alle borgate operaie e al
risanamento di quartieri e abitati
insalubri). Nel 1922, sempre prima del
fascismo, nascono l’ente autonomo di
bonifica per il basso Volturno a Bagnoli,
accanto all’ente autonomo Volturno del 1904
con sede in Napoli e l’Ente di bonifica per
la Provincia di Caserta. Il Rd del
30.12.1923, n. 3256, raccoglie in testo
unico le leggi sulle bonifiche, e il Rd
3267, stessa data, riforma le norme sui
terreni montani e introduce il vincolo
idrogeologico. Le opere di bonifica hanno
così un ampio retroterra legislativo, cui si
aggiunge il Rdl del 18.5.1924, n. 753, detta
legge Serpieri, sulle trasformazioni
fondiarie di pubblico interesse.
9
La legge del 27.7.1967, n. 632, emanata in
condizioni di straordinarietà per far fronte
alle alluvioni del 1966, da addebitare, come
sempre, ad un approccio non unitario ed
organico alla problematica, istituiva la
Commissione interministeriale per lo studio
della sistemazione idraulica e della difesa
del suolo, detta anche Commissione De
Marchi, con il compito di “esaminare i
problemi tecnici, economici, amministrativi
e legislativi interessanti al fine di
proseguire ed intensificare gli interventi
necessari per la generale sistemazione
idraulica e di difesa del suolo, sulla base
di una completa ed aggiornata
programmazione” che avrebbe portato, dopo 22
anni, alla legge 183/1989, e cioè alla
pianificazione di bacino.
10
Con la sua teoria dei central-places,
W. Christaller, nel 1933, verificò che
esistevano delle leggi di regolarità
economico-geografiche che riuscivano a
spiegare la distribuzione e la
localizzazione dei diversi tipi di città sul
territorio. Il modello conseguente definiva
una gerarchia di sette livelli di località
centrali (centri urbani) in rapporto al
rango (rarità) del bene o del servizio in
esse prodotto.
11
Quello delle bonifiche e degli interventi di
colonizzazione delle campagne italiane fu un
tema ricorrente nella propaganda del regime
circa la sua azione in campo sociale,
economico e territoriale. La questione è
stata esaminata a livello generale da Cohen
J. S. (1973), Un esame statistico delle
opere di bonifica intraprese durante il
regime fascista, in Toniolo G. (a cura)
“Lo sviluppo economico italiano 1860-1940”,
Laterza, Bari. Si tratta di un’analisi
quantitativa piuttosto scarna e priva di
riferimenti al contesto socio-politico. Il
contesto socio-politico è, invece, al centro
di alcune note sull’argomento contenute in
un saggio di Villari L. (1975), Lo stato
fascista e il capitalismo agrario: la
bonifica integrale, in “Il capitalismo
italiano del Novecento”, Laterza, Bari.
Accenni più o meno espliciti agli aspetti
territoriali, se non urbanistici, sono
contenuti in lavori di carattere più
generale sulla politica agraria in questo
periodo:
- Preti D. (1973), La politica agraria
del fascismo: note introduttive, in
“Studi storici”, n. 4;
- Fano Damascelli E. (1975), Problemi e
vicende dell’agricoltura italiana durante il
fascismo, in “Quaderni storici”, n.
29-30;
- Castronovo V. (1976), La politica
economica del fascismo e il Mezzogiorno,
in “Studi storici”, n. 3.
Per maggiori dettagli sugli aspetti
urbanistici delle bonifiche e della
colonizzazione bisogna dunque rifarsi a
studi su casi particolari. Il più sviluppato
nella letteratura è senz’altro quello
dell’agro pontino.
12
Il termine idrogeologico fu
introdotto nel 1923 proprio da Arrigo
Serpieri per definire l’instabilità dei
versanti, soggetti a frane e smottamenti, e
allo stesso tempo la possibilità di
formazione di piene con alluvioni
catastrofiche. Il Rdl del 30.12.1923, n.
3267, introducendo il vincolo
idrogeologico e il vincolo boschivo,
rappresenta la prima normativa organica che
stabilisce le modalità di utilizzazione e
lavorazione dei suoli al fine di difenderli
dall’erosione e dalle frane.
13
Dopo i primi provvedimenti di Serpieri del
1924-1925, volti piuttosto all’inserimento
nel mercato di alcune proprietà fondiarie
improduttive attraverso l’espropriazione e
la concessione dei comprensori di bonifica a
società finanziarie private, ma presto
bloccati per l’opposizione degli agrari
meridionali.
14
Stando ai successivi censimenti statistici,
pur inclini a peccare in eccesso per quanto
riguarda soprattutto l’entità numerica dei
piccoli proprietari, furono comunque le
categorie intermedie degli affittuari, dei
mezzadri o dei coloni parziari a vario
titolo a concorrere più decisamente alla
diminuzione, fra il 1921 e il 1936, della
quota dei lavoratori senza terra, scesa in
complesso dal 44 al 28%: i primi, passando
dal 7 al 18% degli addetti all’agricoltura,
i secondi salendo dal 15 al 19%.
15
Tale contributo era di oltre 4,3 miliardi di
lire mentre i proprietari terrieri avrebbero
dovuto partecipare ai singoli piani di
risanamento per un importo complessivo di
quasi 2,7 miliardi.
16
Le zone interessate, oltre all’agro pontino,
sono in Provincia di Cremona, nella zona
Parmigiana-Moglia, in quella di Bassano, in
quella di Ravenna, a Coltano nei pressi di
Pisa, a Siguri, a Lentini, a Torralba e nel
Tirso in Sardegna. Altre città sono fondate
nei comprensori di bonifica della Sardegna,
nella Nurra e nel Campidano: Fertilia,
Mussolinia e Carbonia. Nel Campidano, in
Provincia di Cagliari, vengono bonificati
18.000 ettari di terreno. Al centro di
questa zona, il 28.10.1928, nasce Mussolinia:
si tratta del primo esperimento di
colonizzazione interna e la città viene
popolata con l’immissione di quaranta
famiglie polesane. Fertilia nasce il
7.10.1932 e i suoi nuovi abitanti vengono
trasferiti qui dalla campagna ferrarese e
dalla Venezia Giulia. La più significativa
tra le nuove città sarde è Carbonia, che
ha nel suo nome la sua origine,
inaugurata l’1.12.1938. Il 7.8.1936 viene
fondata anche Arsia, una città mineraria
costruita in Provincia di Pola, in
territorio che successivamente tornò sotto
sovranità jugoslava, ricco di miniere di
carbone.
17
La legge distingue i comprensori di
bonifica in due categorie: quelle di
prima categoria, da classificare per legge,
presentando vantaggi igienici o economici di
prevalente interesse sociale hanno una
eccezionale importanza ai fini della
colonizzazione; i secondi, da individuare
per decreto reale, sono tutti gli altri.
18
Fin dal 1906-1908 vi sono interessanti
provvedimenti di agevolazioni e piani per
l’immigrazione di famiglie di coloni in
province meridionali e insulari. L’Onc venne
istituita con decreto luogotenenziale
dell’11.12.1917, n. 1970. Con il decreto
luogotenenziale 16 gennaio 1919, n. 55, si
approva il regolamento di organizzazione e
funzionamento dell’Onc, nata per
assistenza alla truppa e con lo scopo di
aumentare la produttività della forza lavoro
della nazione. Tali dispositivi e le
successive leggi 20 agosto 1921, n. 1177,
contro la disoccupazione, che prevedeva la
costituzione di enti di bonifica, e Rd del
15.12.1921, n. 2047, testo unico per la
concessione di terre, si tentava di
rimediare in parte ai problemi della
disoccupazione del dopoguerra. Nel 1926, con
Rdl del 16 settembre, n. 1606, si riforma
l’ordinamento dell’Onc, abrogando il
regolamento del 1919 e dando all’Onc la
funzione di trasformazione fondiaria e di
favorire l’esistenza stabile sui luoghi di
una più densa popolazione agricola.
19
Il regio decreto del 4.3.1926, n. 440,
istituisce il Comitato permanente per le
migrazioni interne che poi, secondo il Rd
del 28.11.1928, n. 2874, dovrà servire ad
agevolare le intraprese di colonizzazione e
il flusso migratorio verso le province meno
abitate e dove vi è difetto di manodopera
(il Comitato, divenuto Commissariato,
passerà nel 1930 alle dirette dipendenze del
capo del governo). Con legge del 24.12.1928,
n. 2961, veniva data ai prefetti facoltà di
emanare ordinanze obbligatorie allo scopo di
limitare l’eccessivo aumento della
popolazione residente nelle città. Tra il
1928 e il 1931 si perfeziona il meccanismo
amministrativo di controllo dei movimenti di
popolazione, coatti in alcuni casi
(trasferimenti di lavoratori e famiglie per
colonizzazioni ed altri impieghi), vietati
in altri (afflussi nelle città). Sempre nel
1928 si giunge con legge 24 dicembre, n.
3134, detta legge Mussolini, ai
provvedimenti per la bonifica integrale.
Per il tema delle bonifiche segnate dai
trasferimenti coatti degli anni successivi,
assumono rilievo le norme della legge del
9.4.1931, n. 358, “Disciplina e sviluppo
delle migrazioni e della colonizzazione
interna”, che riguarda anche operai per
lavori pubblici e trasferimenti all’estero e
nelle colonie, provvedendosi da parte del
Commissariato “all’accertamento e alla
razionale distribuzione della manodopera
disponibile al fine di ottenere il più
conveniente impiego in tutto il Regno e
nelle colonie” (art. 2). Nel 1933 si dispone
il trasferimento coatto di famiglie
ferraresi in zone di scarso indice
demografico che diano sicura possibilità di
vita e si costituisce, per la
colonizzazione di estese zone della
Sardegna, l’Ente ferrarese di
colonizzazione.
20
Le dodici città nuove realizzate in Italia
tra il 1928 e il 1940, in ordine di
completamento, sono: Mussolinia (1928);
Littoria (1932); Sabaudia (1934); Pontinia
(1935); Guidonia (1935); Fertilia (1936);
Aprilia (1936); Arsia (1937); Carbonia
(1938); Torviscosa (1938); Pomezia (1938);
Pozzo Littorio (1940). Oltre a queste città
nuove, il fascismo edificò anche numerosi
borghi in Sicilia, e fondò nuovi
insediamenti nelle colonie africane.
Probabilmente la più famosa tra le avventure
di colonizzazione in Africa fu quella
guidata da Italo Balbo nel 1938, che portò
circa 1800 famiglie italiane ad insediarsi
in nuovi villaggi della Libia.
21
Il progetto della città fu opera del gruppo
dei giovani architetti Cancellotti, Montuori,
Piccinato, Scarpelli, giudicato dalla
commissione giudicatrice presieduta da G.
Giovannoni vincitore del concorso bandito
dall’Onc il 21.4.1933. Al gruppo, oltre che
la redazione del piano, viene affidata la
progettazione di tutti gli edifici pubblici
e privati del centro.
22
Secondo una statistica ufficiale,
all’1.9.1933 erano impiegati nei lavori di
bonifica 77.776 operai.
23
Si calcola, infatti, che solo il 58% dei
lavori di bonifica iniziati furono portati a
compimento e che non più del 32% dei
progetti di irrigazione vennero completati.
24
Continuità col successivo periodo
repubblicano ve ne sono in abbondanza: si
pensi alle norme sulle bonifiche e sui
comprensori irrigui, rimaste in vigore fino
all’attuazione delle regioni e delle
comunità montane negli anni ’70; ma anche
alla sopravvivenza dei vari enti che poi,
insieme a quelli creati negli anni ’50 con
la riforma agraria, si trasformeranno da
enti di bonifica ad enti di riforma e poi in
enti di sviluppo per diventare, nel periodo
1967-1977, enti regionali di sviluppo
agricolo. Solo nell’estate del 1977, infine,
l’Onc viene inserita negli elenchi degli
enti che, dopo altre verifiche, potranno
forse essere estinti.
25
Ai progetti di bonifica, e alle relative
opere ed infrastrutture, è attribuita la
distruzione di ambienti naturali di pregio,
in quanto l’idea di bonifica è stata
applicata, in modo disinvolto e
indifferenziato, sia ad aree realmente
dissestate che a zone ove, invece, si sono
sviluppati e consolidati spontanei
ecosistemi meritevoli di protezione.
26
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