Numero 6/7 - 2003

 

la riqualificazione ambientale  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Agro pontino tra bonifica e pianificazione integrata


Paolo Jacobelli

Isidoro Fasolino


 

Da una rilettura storica dell’esperienza di bonifica dell’agro pontino, avvenuta negli anni ‘20-’30, è possibile ritrovare significative analogie con quanto si va oggi prospettando in tema di pianificazione urbanistico-territoriale di area vasta. Paolo Jacobelli e Isidoro Fasolino, riscontrano in tali analogie il principio metodologico generale secondo cui è indispensabile adottare, nel processo di piano, l’integrazione tra contenuti specialistici e contenuti generali

 

 

 

 

Origini e significato degli interventi di bonifica

 

Anche se a prima vista può sembrare abbastanza strano, è possibile riscontrare più di una analogia tra quanto emerge da una rilettura storica di quell’esperienza di acquisizione di territorio agricolo e di riassetto territoriale e insediativo che prende il nome di bonifica dell’agro pontino1 e quanto si va oggi prospettando come una necessità in tema di pianificazione urbanistico-territoriale di area vasta. Ma tutte le analogie ed i riferimenti di dettaglio possono riassumersi nel principio metodologico generale che, sia allora che ancora oggi, trattandosi di pianificazione urbanistico-territoriale, è indispensabile adottare nel processo di piano un’ottica metodologica integrata tra contenuti specialistici e contenuti generali. Si tratta cioè di una integrazione che tenta di evitare i pericoli, ancora oggi dominanti, dell’approccio di settore il quale, per lo più, vive di vita autonoma trascurando buona parte dei linkages costruttivi della complessa realtà territoriale2.

In altri termini, al fine di ottenere un utile contributo disciplinare alla riflessione su quegli eventi storici, vogliamo qui richiamare l’attenzione dei cultori delle discipline che si rifanno alla pianificazione urbanistico-territoriale su quel particolare aspetto dell’esperienza di bonifica, che prende il nome dalla pianura pontina, che è relativo alla infrastrutturazione urbana per la colonizzazione dei territori sottratti alla palude e alla malaria e recuperati. Si tratta di quella creazione ex novo di un reticolo insediativo alquanto articolato, che vede al suo apice addirittura la fondazione di alcune città, e che formerà, nel suo complesso, una chiara struttura insediativa per quell’area, tale da essere ancora oggi percepibile, pur dopo i numerosi traumi cui è stata sottoposta con le trasformazioni introdotte nei decenni della ricostruzione e dello sviluppo del secondo dopoguerra.

Richiamando brevemente quell’esperienza, va anzitutto ricordato come la bonifica definitiva dell’agro pontino negli anni ’20-‘30 - vani tentativi vi erano stati sin da alcuni secoli addietro - abbia avuto la fortuna di essere stata realizzata sotto la guida di un manipolo di tecnici, di notevole valore intellettuale, provenienti da variegate discipline, cioè competenti nell’affrontare problematiche di natura idrogeologica, economico-agraria, di politica demografica, sanitaria ecc., ma sicuramente non quelle di natura urbanistico-territoriale.

È questo un dato che fa subito riflettere in quanto saranno proprio questi tecnici non urbanisti, i quali all’inizio operavano come attori di settori separati, che, alla fine degli anni ‘20, attraverso un naturale processo di deduzione logica, giungeranno a percepire la necessità di affrontare, come intervento conclusivo del recupero, anche i problemi della organizzazione fisica dell’insediamento territoriale, dando così senso compiuto anche al concetto di bonifica integrale3.

Del resto, questo iter evolutivo spurio non è una novità nella storia della pianificazione urbanistico-territoriale. Infatti, come è già noto, agli assunti concettuali più fondativi dell’urbanistica spesso non sono giunti i cultori o gli esperti di tale disciplina bensì quelli di discipline altre, partendo da diverse angolature. Basti per tutti ricordare le storiche origini della normativa e della tecnica urbanistica moderna che, come da tempo è stato ampiamente documentato (Benevolo L., 1963), vanno rintracciate negli interventi sanitari e nella relativa legislazione tesa a combattere le epidemie di colera nelle città industriali dell’inizio dell’ottocento, più che in quella coeva delle opere pubbliche, certamente più affine al campo di interesse della pianificazione urbanistico-territoriale.

Tornando al problema bonifica e all’evoluzione dei relativi criteri generali di intervento, da quella esperienza emerge, come seconda notazione di politica pianificatoria, che le leggi post-unitarie di regimentazione delle acque e di difesa del suolo, stante il forte peso della componente piemontese o nordica del Parlamento italiano, hanno guardato, come realtà di riferimento, alle problematiche inerenti il governo delle acque del fiume Po e dei fiumi della relativa estesa pianura, proponendo e finanziando soluzioni tecniche che, per ovvi motivi idrogeografici, si limitarono soprattutto a opere di arginatura, cioè di contenimento delle acque fluviali nel loro percorso finale.

Viceversa, le condizioni idrografiche e morfologiche di altre regioni, specie meridionali, come la Calabria4, risultano ben diverse. Infatti, in Calabria, ad esempio, la vicinanza dell’Appennino alla costa rende breve e ripido il tracciato dei corsi d’acqua che, pertanto, difficilmente prendono l’aspetto di veri fiumi, subendo forti escursioni nelle portate e, soprattutto, rispondendo con rapidi impulsi alle precipitazioni causano frequenti alluvioni, anche per effetto del disboscamento selvaggio praticato nei secoli precedenti. Il carattere torrentizio di tali corsi d’acqua si traduce, dunque, in rovinosi effetti sulle limitate pianure meridionali, coprendole di ghiaioni e facendo sì che in tali pianure le acque mutino continuamente il loro percorso lasciando qua e là stagni malarici.

Era evidente, allora, che tali realtà problematiche, così peculiari dello stato dei luoghi, non potevano trovare sollievo dall’applicazione dei criteri di intervento antialluvione proposti per le regioni della pianura padana. Ecco allora che, spesso, con le alluvioni e le esondazioni catastrofiche venivano spazzati via i pochi o molti argini fatti nelle pianure di ghiaia e ciottoli.

In altri termini, guardando a quella vicenda storica per una concettualizzazione in ambito pianificatorio, ne risulta un errore di carattere metodologico e cioè: per bonificare gli acquitrini e recuperare i terreni in pianura, nel Mezzogiorno, bisogna guardare non solo a valle ma anche a monte dell’alluvione, vale a dire ad un intero e più ampio bacino. Inoltre, occorre affrontare questa realtà territoriale nella molteplicità delle sue componenti: idrogeologiche, agroforestali, sanitarie e, ultima scoperta, di assetto insediativo, in quanto elemento necessario per il presidio del territorio. Ecco allora che, alla luce, di questa semplice rilettura di quegli eventi, in termini generali si può affermare e ribadire quanto si è venuto consolidando in questi anni e cioè che per una legislazione che voglia affrontare in termini tecnici i problemi del territorio e dell’ambiente, inclusi quelli del recupero del suolo, è d’obbligo, piuttosto che il ricorso a norme standard di livello nazionale, promuovere e facilitare la formulazione di apposite leggi regionali e locali quale approccio più vicino alla reale soluzione del problema.

Solo con la legge Luzzatti, nel 1910, aveva avuto inizio quella evoluzione concettuale che avrebbe spostato l’attenzione dello Stato dal settore puramente forestale a tutto l’ambiente montano, anche dal punto di vista economico e sociale. Tale passaggio si attuò in pieno in quel testo unico del 1923, di cui si parlerà in seguito, chiamato anche legge Serpieri, con il quale, occupandosi di sistemazioni e valorizzazione di bacini montani, lo Stato assume il ruolo di propulsore e di guida per il miglioramento di tutta l’economia di quei territori5. Insomma, non vincoli ma impegno a fare: è possibile assicurare la stabilità del terreno e il buon regime delle acque e, allo stesso tempo, favorire un’attività economica adeguata. Lo squilibrio fisico e sociale in zone depauperate o disboscate tendeva fatalmente ad aggravarsi e a contagiare anche i terreni sottostanti; la montagna degrada e l’abbandono si traduce in danno per la collettività6.

I consorzi e gli enti di bonifica, nati nel frattempo, avevano il compito di studiare il piano di bonifica con l’individuazione delle opere, di competenza pubblica e privata, e della loro relativa attuazione e manutenzione. La politica del territorio, tuttavia, non deve attuarsi attraverso disposizioni operative di carattere generale, bensì per zone aventi omogeneità di problemi e di caratteri, i comprensori7, e non deve avere per fine tanto la soluzione di singoli problemi tecnici, quanto un risanamento globale di tutto il regime fondiario e socio-economico dei comprensori su cui si attua. Tutte le opere, infine, in vista della globalità degli obiettivi da conseguire, devono essere coordinate nello spazio e nel tempo, in un piano detto, appunto, piano generale di bonifica.

Tra i principi innovatori della bonifica integrale, su cui Serpieri impostò la relativa legislazione, vi era quello di sussidiarietà, secondo cui tutte le opere che è possibile eseguire da parte dei privati devono essere a loro affidate e sussidiate. I privati, cioè, anziché passivi spettatori, erano chiamati a svolgere un ruolo attivo, per cui attraverso un piano di interventi contraevano impegni a realizzare e manutenere ciò che essi stessi avevano concorso a proporre, in una logica di incontro tra interessi pubblici e privati.

Alla luce di quanto sopra, ha senso anzitutto affermare, in termini generali, che per i problemi della difesa del suolo vi è la necessità di rifiutare formule normative standard e di favorire, invece, approcci locali e, quindi, ricorrere anche a specifiche leggi regionali in materia8.

Figura 1 - Distribuzione geografica delle bonifiche idrauliche nel 1930

Fonte: Serpieri A., 1930

 

Ecco, allora, che la necessità della tutela del territorio montano nella sua accezione più larga si ripresenta attuale assieme all’insegnamento di Serpieri secondo il quale questa tutela deve avere una componente socio-economica, tendente a valorizzare vita ed economia dei luoghi che si vuol difendere.

In particolare, poi, per quello che qui ci interessa, “la primitiva finalità della sola bonifica idraulica risultò ben presto troppo ristretta, al lume delle teorie avanzate dalla scienza medica sulla malaria e sulla sua trasmissione, e si rese così manifesta la necessità di associare e coordinare alla bonifica idraulica la bonifica agraria, cioè la trasformazione colturale dei terreni prosciugati (…). Ma (…) tale miglioramento agrario sarebbe stato un’utopia senza l’esecuzione di molte altre opere (…)” (Buongiorno A., 1948).

È naturale leggere nell’evoluzione concettuale di cui sopra strette analogie con quella che sarebbe stata la formulazione dei principi alla base della pianificazione di bacino idrografico di cui alla legge 183/19899.

Ricordiamo ora brevemente alcuni dati sulle esperienze di bonifica dell’agro pontino, tanto per avere un’idea dell’entità dell’impatto territoriale dell’intervento.

L’area vasta da bonificare è costituita da 75.000 ettari di dune e paludi poste tra i monti ed il mare a circa 70 km a sud-est di Roma. Il programma, che ebbe notevole eco internazionale, è destinato ad aprire nuovi territori allo sfruttamento agricolo ed all’insediamento di nuova popolazione ma finalizzata ad ottenere grandi risultati anche sul fronte del controllo della malaria, con l’eliminazione degli acquitrini e, quindi, dei focolai di proliferazione delle zanzare.

La particolare esperienza sulla quale, tuttavia, si vuole qui richiamare l’attenzione rappresenta l’ultimo anello della catena di quell’ampio programma di interventi che, come ricordato, furono progettati da un gruppo di tecnici di varia origine disciplinare che faceva capo al Ministero dell’agricoltura. Si tratta cioè di quel momento attivo più specificamente orientato a realizzare un assetto insediativo forte, composto di nuclei accentrati e gerarchicamente distribuiti, in grado di costruire un presidio antropico nella consapevolezza che, senza questo, ogni sforzo di recupero del territorio sarebbe risultato vano.

Difatti, soprattutto nell’esperienza dell’agro pontino, i tecnici della bonifica si rendono conto che non basta il prosciugamento dei terreni, la costruzione della rete di canali e delle strade interpoderali, ma occorre la creazione di un sistema di nuclei di urbanizzazione che nel caso in esame raggiungerà una solidità altrove sconosciuta; si riteneva, cioè, necessaria la creazione di un tessuto di urbanizzazione e una struttura sociale capace di non disgregarsi di fronte all’alternativa dei modelli di vita urbana.

Per questo fu creato dal nulla un reticolo gerarchizzato, quasi di tipo christalleriano10, di elementi insediativi più o meno accentrati, che interconnette il territorio partendo dalle case sparse e arriva fino ai borghi e al capoluogo. Si tratta di centri articolati in rapporto alla crescente esigenza di approvvigionamento di beni e servizi rari fino a completare una vera e propria armatura territoriale che, nell’arco di dieci anni (1930-1940), avrebbe portato, in pratica, alla costruzione, fisica e funzionale, ex-novo di una intera provincia, anche se istituzionalmente già riconosciuta nel 1934.

A questo atto di volontà pianificatoria e realizzativa si aggiunse poi un capitolo della politica migratoria interna con il trasferimento nell’agro pontino di interi nuclei familiari, secondo un più ampio e complesso disegno di politica demografica, denominato ruralizzazione, che in questa sede può essere solo ricordato.

Ebbene, questi brevi accenni ad una abbastanza nota e discussa pagina di storia del territorio del nostro paese che, tuttavia, ha prodotto scarsa riflessione nell’ambito disciplinare della pianificazione del territorio, supportano e ribadiscono, con la forza dell’esperienza sul campo, il principio generale che, anche per il raggiungimento degli obiettivi di settore, occorre, come naturale conseguenza, non fermarsi a valutare i singoli aspetti settoriali idraulici e agrotecnici ma, con un salto di qualità, è necessario ricondurre il tutto entro un quadro di pianificazione urbanistico-territoriale vera e propria.

In altri termini, pur non essendo urbanisti, e forse proprio per questo, quel gruppo di tecnici di varia estrazione disciplinare attivi nel settore della bonifica, partiti da obiettivi così particolari, giungono a scoprire come verità incontestabile che non avrebbero mai potuto raggiungere quegli obiettivi se non fossero passati attraverso una trasformazione di tipo integrato e generale di area vasta.

 

 

La politica rurale e la redistribuzione demografica

 

È, dunque, difficile far emergere, da questa pur vasta e complessa esperienza dell’agro pontino, una riflessione attualizzata dalle tematiche proprie della pianificazione urbanistico-territoriale se si continua a considerarla e a valutarla solo come una delle azioni del regime in direzione dell’obiettivo dichiarato del ruralesimo.

Ciò nondimeno, accenniamo brevemente ai provvedimenti legislativi in materia di bonifiche11 e di politica della ruralità con l’ottica, però, di far risaltare le tematiche della pianificazione urbanistico-territoriale e della ristrutturazione fisica dell’assetto insediativo del territorio piuttosto che con quella, più usuale e più consolidata, di giudicare le politiche: economica, della migrazione interna o sociale del regime del ventennio fascista.

Si osserva allora che, restando nell’ambito tecnico disciplinare della pianificazione fisica, risulta ancor oggi quantomeno problematica, e non tutta necessariamente negativa, una valutazione comparativa di quella esperienza. Basti pensare a quanto già osservato come prima considerazione e cioè che nell’esperienza della bonifica pontina si può leggere il consolidarsi del principio pianificatorio, tuttora di attualità, per cui, specie per i problemi legati al dissesto idrogeologico12, occorre affrontare il tema della manutenzione del territorio e, con esso, quello più generale legato alla necessità di creare, in un territorio recuperato, una struttura insediativa equilibrata quale presidio antropico del territorio stesso, precondizione per qualsiasi azione tesa a limitarne il decadimento.

Non c è molto da aggiungere in termini storici e politici complessivi a quanto detto e scritto sul ventennio e sull’esperienza pontina in particolare e, del resto, sarebbe fuori della portata di questo articolo ritornare su quegli aspetti di politica generale. Basterà qui ricordare che è piuttosto condivisibile il giudizio secondo il quale è stata la politica del partito fascista degli anni 1919-1921, intrisa di problemi inerenti la disoccupazione, il fabbisogno di prodotti alimentari, i dissesti, ecc., che ha avuto un effetto di trascinamento sulla successiva politica del regime, il quale, infatti, proprio su quella scia, ha continuato a sostenere coloni, bonifiche e vita nei campi.

Dunque non può meravigliare che la bonifica integrale, varata definitivamente13 il 14 dicembre 1928 con la legge Mussolini, aveva per scopi dichiarati l’aumento della produzione agricola, la trasformazione delle zone paludose in aree coltivabili e una redistribuzione della popolazione fra città e campagna (Castronovo V., 1975).

La legge, comunque, rappresentava uno strumento strategico operativo polifunzionale, utilizzato per affrontare più ampi problemi di ordine politico, economico e sociale.

Figura 2 - La bonifica dell’agro pontino: pianta delle bonifiche con gli alloggiamenti operai

Fonte: Riva P., 1983

 

I giudizi storici su quelle direttive politico-economiche, dopo un primo atteggiamento piuttosto negativo, sono divenuti alquanto cauti; anche il positivo intento della cosiddetta sbracciantizzazione significò, almeno inizialmente, una dilatazione delle piccole proprietà - che, a detta di Serpieri, era presidio delle native virtù della stirpe - attraverso un’ulteriore polverizzazione dei fondi e l’insediamento di nuovi nuclei di coltivatori diretti sui terreni più marginali, bonificati dal lavoro e dalle spese sostenute direttamente dai contadini. Poiché queste ultime venivano destinate ad una produzione di semplice autoconsumo, l’operazione portò ad altri esiti contraddittori14.

Comunque sia, uscendo da valutazioni generali, va registrato, come dato significativo per la politica di riassetto territoriale di area vasta, il fatto che, per l’attuazione della sola legge di bonifica, e senza includere le altre azioni ad essa connesse, il contributo statale a fondo perduto previsto copriva quasi l’80% della spesa affrontata dai proprietari15.

Dal punto di vista più strettamente urbanistico, va sottolineato che l’intervento del 1930 nell’agro pontino costituisce la definitiva soluzione del problema bonifica e l’avvio del primo completo programma per la costruzione di un sistema di nuovi nuclei insediativi e nuove città. Un’azione di politica territoriale senza dubbio complessa, svolta alla macro scala, che mette la parola fine alla lunga serie di tentativi delle epoche precedenti.

Le consistenti ascendenze della problematica inerente la bonifica, infatti, risalgono a ben prima del fascismo. In passato era, però, mancata una vera e propria politica di piano o una strategia generale di intervento; le sporadiche iniziative dei privati e dello Stato nelle diverse regioni erano state occasionali e condotte in modo disorganico.

Per secoli, questa era stata una zona malarica in gran parte inabitabile. Più volte, in passato, anche per iniziativa dei papi, e in particolare sotto il papato di Sisto V, si era cercato di bonificare queste paludi, analogamente a quanto tentato in altre zone italiane di carattere simile, ma senza riuscire a prosciugare la terra e a renderla coltivabile.

Conclusione: le paludi erano rimaste e così pure la malaria, l’altro termine di uno storico inscindibile binomio.

L’avvento del governo unitario non sembra risolutivo. Il primo intervento che lo Stato italiano, ormai unificato, effettuerà per la sistemazione delle zone agricole da bonificare è sancito dalla legge Baccarini del 22.6.1882, ma sia questo che altri tentativi perseguiti, non daranno i risultati auspicati. Per avere un’idea della dimensione del problema, della violenza e dello sforzo richiesto per affrontarlo, basterà ricordare che, fra il 1868 e il 1921, il nuovo Stato italiano aveva promulgato oltre cinquanta provvedimenti di legge volti alla bonifica delle paludi, con il triste risultato, però, che alla vigilia della presa del potere da parte del fascismo ancora ben poco era stato fatto in questo settore.

Cosicchè, non è azzardato affermare che, per vedere affrontare il problema con un salto di qualità, sia nel metodo che nell’impegno finanziario, si dovette aspettare la legge Serpieri del 1923 e, soprattutto, la successiva legislazione sulla bonifica integrale con il testo unico 215/1933, su cui si fonda l’intervento modello del risanamento dell’area pontina, che, in tal modo, vedeva definitivamente concluso lo sforzo di debellare la malaria, rendere stabilmente coltivabile quella pianura e, conseguentemente, produttivo il lavoro delle numerose famiglie che vi saranno trapiantate.

Ricordiamo, solo di sfuggita, che al successo della bonifica integrale dell‘agro pontino erano collegate le diverse esigenze di autoaffermazione del regime fascista, in quanto, proprio nella bonifica e colonizzazione di quest’area la propaganda trova un suo eccezionale punto di convergenza, sfruttabile nel più ampio quadro della ricerca del consenso.

L’iniziativa legislativa che apre la stagione della bonifica integrale, come ricordato, reca la data del 14.12.1928 e prende il nome di legge Mussolini; essa stabilisce un piano finanziario per il settore della durata di 14 anni, da mettere in atto a partire dal 1930. A questo provvedimento se ne aggiungono altri destinati alla bonifica di ulteriori zone malsane del paese16. Alla luce di un quinquennio di sperimentazione della legge, nel 1933 un ultimo decreto riordina organicamente tutta la materia, riunendola nel ricordato testo unico 215/1933. In esso, le zone interessate alla bonifica integrale vengono suddivise in comprensori regionali per un complesso di quasi 5 milioni di ettari17. Ma la vera novità, che interessa qui sottolineare, è che tale provvedimento sanciva come prevalenti gli obiettivi di assetto territoriale, di organizzazione insediativa e di colonizzazione rispetto a quelli igienici, idrogeologici e di messa in valore della terra dai quali si era partiti e ai quali, per lo più, in passato ci si era limitati.

E questo cambio di priorità e, quindi, di ottica metodologica del gruppo di tecnici incaricati, risulta più che esplicito e già avviato proprio nell’intervento modello della bonifica delle paludi pontine, il quale, appunto, viene fatto rientrare non più tanto tra i provvedimenti igienici quanto nel quadro di un’ampia previsione di opere pubbliche suggerite oltre che dalla generale utilità, anche dalla opportunità di creare occasioni di lavoro e di investimenti in un momento di particolare difficoltà per l’economia nazionale che, a quell’epoca, è ancora in prevalenza di tipo agricolo.

L’organismo scelto come responsabile per la conclusione dell’imponente impresa fu l’opera nazionale combattenti (Onc), un organismo sorto negli ultimi anni della Grande Guerra sotto l’egida del periodico dall’emblematico titolo La conquista della terra, allo scopo di assistere i soldati che tornavano dal fronte rispondendo alle loro più immediate richieste e di creare per loro una qualche forma di organizzazione18.

L’Onc si era dato da fare per quasi dieci anni con modesti risultati pratici, finché nel 1926, per iniziativa del governo fascista, fu trasformata da associazione, con semplici compiti assistenziali per i reduci, a grande ente statale, col compito di sovrintendere alle trasformazioni agrarie intraprese dal regime.

E quale miglior banco di prova della palude malarica dell’agro pontino poteva essere trovato per valutare la capacità di rompere processi economici e dinamiche ambientali fino a quel momento giudicate negative ma inarrestabili? E quale migliore cassa di risonanza per amplificare il successo politico, ma anche tecnico, di quella complessa azione di recupero del vasto comprensorio pontino che, da Giulio Cesare fino allo stato pontificio, non era riuscita a nessuno dei precedenti governi?

Ma a parte la struttura organizzativa messa in piedi per l’attuazione, interessa qui insistere sugli aspetti innovativi e di qualità del metodo.

Sul piano del metodo, infatti, la novità concettuale sta, a nostro avviso, proprio nella presa di coscienza che le precedenti iniziative per bonificare la regione erano fallite, non tanto per la inadeguatezza delle conoscenze idrauliche, quanto perché non furono precedute e preparate da una azione diffusa e costante di infrastrutturazione insediativa e urbana tesa a portare e tenere l’uomo sul territorio bonificato, non solo per il momento lavorativo legato all’agricoltura, ma con un’attenzione a tutte le sue variegate esigenze, culturali, di comunicazione e di intermediazione sociale.

In altri termini, si prendeva atto e si affermava che quello che veniva affrontato, pur movendo da scopi più limitati, non era altro che un problema di pianificazione urbanistico-territoriale. E, pertanto, anche per centrare quell’obiettivo non bastava drenare le acque, cacciare la malaria e fertilizzare i campi, ma occorreva creare quelle condizioni insediative di qualità e, quindi, un ambiente e un territorio urbanisticamente equilibrato, in grado di stimolare e agevolare la vita delle famiglie e degli abitanti.

In questa nuova prospettiva, anche i programmi dell’Onc si ravvisavano dunque non soltanto quale opera di redenzione terriera, bensì anche, se non soprattutto, quale opera di assetto urbanistico-territoriale in grado di affrontare l’incertezza del futuro.

Ma, tutto ciò, naturalmente, avrebbe potuto esercitare anche una valida azione intesa a regolare e a disciplinare le correnti immigratorie (Ghirardo D., Forster K., 1975).

Nel 1933 i lavori di bonifica nel paese sono già estesi a oltre 4 milioni di ettari, anche se, in alcune di queste zone, si tratta per lo più di mantenere o migliorare di poco la situazione esistente. Nell’agro pontino vengono fatti affluire un po’ da tutte le regioni d’Italia, e soprattutto dalle affollate province del nord-est, migliaia di lavoratori, i quali diventano peraltro i principali attori, non solo nell’attuare la complessa opera di bonifica, ma anche nel processo di riassetto territoriale che si consoliderà in seguito.

Tale colonizzazione, programmata e organizzata sin dal marzo 1926 sotto l’egida di un comitato permanente per le migrazioni interne, rientrava nel quadro di una politica demografico-sociale ed economica di grande portata. Quantunque gli obiettivi dichiarati che dovevano guidare la disciplina delle migrazioni interne fossero la decongestione delle aree più sovraffollate e la scelta volontaria per lo spostamento di gruppi di coloni, i reali processi non furono effettivamente guidati da questi principi ispiratori in quanto inquinati da una sistematica azione di lotta agli oppositori del regime19. Infatti, piuttosto che di gruppi volontari, nella pianura pontina giungono singole famiglie, per lo più provenienti dalle Tre Venezie, dall’Emilia e dalla Lombardia, regioni per le quali le statistiche segnalavano il più alto numero di persone accusate e condannate per attività antifasciste e scelte con criteri che, almeno all’apparenza, poco hanno a che fare con l’obiettivo di dare sostegno ad una azione di pianificazione integrale del territorio. Non si può trascurare di citare il fatto che, malgrado fosse stabilito che dovevano essere i sindacati a reclutare i coloni, nella realtà furono le segreterie federali ad effettuare la selezione. E non è un caso se queste scelsero calzolai, sarti, pescatori, tipografi, ma pochi agricoltori; per le segreterie, infatti, si trattava di elementi socialmente indesiderabili o politicamente sospetti.

Figura 3 - Onc, Ispettorato agro pontino, Azienda di Pontinia: zona ex Pietrosanti (planimetria scala 1:25.000 e 1:5.000)

Fonte: Riva P., 1983

 

Comunque sia, l’inquinamento dell’intera operazione attraverso questo tipo di lotta politica di regime, ha immediati effetti sui risultati economici attesi in campo agrario. I raccolti del grano, infatti, sono scarsi e di modesta qualità e, quantunque ogni famiglia avesse ricevuto in dotazione attorno alla propria casa terra sufficiente, dopo il primo anno di attività, solo il 2-3% delle 1.900 famiglie insediate a Littoria avrebbe realizzato quell’orto che era stato reputato essenziale per la loro stessa sopravvivenza. Non mancano neppure alcuni scioperi spontanei come quello indetto, e rientrato all’ultimo momento, del 1936, che sicuramente sarebbe stato di grandi proporzioni, visto che avrebbe dovuto coinvolgere circa 26.000 contadini. I problemi economico-sociali divennero ben presto tanto gravi che alla fine potevano accedere all’area solo i visitatori muniti di uno speciale permesso, e alcune famiglie furono di nuovo deportate nelle regioni di provenienza (Ghirardo D., Forster K., 1975).

La scarsa esperienza in campo agricolo dei prescelti lascia dunque perplessi sul rispetto di criteri di competenza lavorativa; questo, infatti, avrebbe costituito chiaramente uno svantaggio per il successo economico dell’intera ristrutturazione del territorio, visto che nei programmi era previsto che la popolazione si guadagnasse da vivere operando in agricoltura. Questa estraneità al mondo agricolo può allora apparire un elemento sicuramente involontario ma che, alla fine, gioca senza dubbio a favore di un obiettivo più ampio teso ad affermare un più generale processo di ristrutturazione del territorio.

 

 

Il programma di città nuove nella pianura pontina

 

Richiamata per sommi capi la vicenda storica complessiva ed il contesto economico e sociale del suo sviluppo, torniamo a riferirci allo specifico della creazione dal nulla di un nuovo assetto insediativo urbano-territoriale.

Il programma, enunciato nel 1926, era quello di promuovere il sorgere di colonie agricole e di nuovi centri abitati, chiamandovi soprattutto agricoltori combattenti.

Un compito arduo e complesso, dalle molte facce, nel quale, come si è già rilevato, c’è un aspetto, sul quale si è meno serenamente riflettuto, che assume un’importanza di primo piano. Si tratta, appunto, dell’assunto, a cui gli attori di quel progetto alla fine pervengono e su cui in precedenza si è già insistito, e cioè che solo completando l’intera operazione del recupero della terra, con la formazione di un reticolo di nuovi centri e di una struttura insediativa di qualità, sarebbe stato possibile effettuare, specie nel Mezzogiorno, l’alleggerimento di molti centri abitati sovraccarichi di popolazione e, allo stesso tempo, operare l’assegnazione ai reduci di una casa salubre e di un lavoro redditizio in un territorio completamente riprogettato, dando così una risposta al problema multiobiettivo del riequilibrio demografico territoriale, della sicurezza sanitaria e della giustizia sociale.

Figura 4 - L’appoderamento dell’agro pontino e romano con il limite di proprietà dell’Onc

Fonte: Mariani R., 1976

 

In altri termini, visto sotto questa specifica angolatura della pianificazione territoriale, si può dire che questo programma di bonifica e colonizzazione dell’agro pontino, rappresenta per il fascismo una delle sue più significative, se non la più significativa, opera di trasformazione territoriale effettuata sotto controllo pubblico.

È l’Onc, in stretto collegamento con il regime, che assume il ruolo di responsabile tecnico-amministrativo dell’operazione nella sua quasi totalità. Infatti, sono nelle sue mani tutti i fattori del processo di pianificazione territoriale: i lavori di bonifica, l’appoderamento e la costruzione dei borghi, la riconfigurazione amministrativa provinciale e comunale, il controllo dell’attività economica ed i rapporti con i coloni. Le strutture insediative definitive derivarono dalla trasformazione delle strutture provvisorie messe in atto per l’esecuzione dei lavori, per cui i borghi sostituirono progressivamente i cantieri di bonifica. L’assetto urbanistico finale risultava, in tal modo, per i borghi e i centri rurali minori, stabilito fin dall’inizio in sede tecnica specialistica. Le città, invece, “sorsero in luoghi generalmente baricentrici rispetto al sistema borghi-poderi, e cioè all’incrocio delle direttrici principali di comunicazione regionale e in prossimità della ferrovia“ (Mioni A., 1976).

Il merito del nuovo inquadramento teorico, programmatico e legislativo della materia, tuttavia, va in gran parte allo specialista Arrigo Serpieri che, nella sua qualità di sottosegretario alla bonifica, unitamente ad altri tecnici, si trova a redigere il piano generale dei territori da bonificare.

L’Onc individua i limiti territoriali dell’intervento nell’agro pontino, in un comprensorio che inizialmente comprendeva oltre 60.000 ettari di terreno incolto e in parte a bosco fra Cisterna e Terracina. Per tali aree da valorizzare viene impostato un piano tecnico di risanamento idraulico preceduto da attenti studi idrogeologici e sullo stato dei terreni.

Comunque sia, è immediata l’osservazione che, dati i mezzi già allora a disposizione, l’intera operazione non meraviglia per l’eccezionalità del livello tecnico del recupero agrario o per l’effettiva centratura degli obiettivi, per altro alquanto discutibile, quanto per la complessità delle interrelazioni tra i problemi affrontati ed il livello del coordinamento richiesto.

I lavori di bonifica vera e propria iniziano nel 1926, con il tracciamento dei canali e le prime colmate; nel 1930 si procede all’eliminazione della boscaglia, mentre si va delineando la struttura della rete viaria principale e secondaria.

Al termine dell’opera, le infrastrutture complessivamente realizzate consistono in 2.000 km di canali e 900 Km di strade, oltre alle borgate e ai centri. Per l’escavazione dei canali vengono fatte brillare 800.000 mine, con una media di 4.000 al giorno. Si realizzano 9.800 km di scoline agrarie, 1.960 km di strade e si costruiscono 2.173 case coloniche. In complesso, nell’agro pontino, la bonifica restituisce all’agricoltura 1.600.000 ettari di terreno proprio dove per 2500 anni la vita era stata impossibile a causa della malaria che minava gli organismi umani.

I poderi hanno una dimensione compresa fra i 5 e i 30 ettari (con una dimensione media di 15 ettari, e con appezzamenti talvolta inferiori ai 5 ettari per le zone irrigue); le case coloniche, dotate dei fabbricati di servizio, sono costruite lungo le strade interpoderali in base a chiari criteri di regolarità. Ogni gruppo di circa 100 famiglie fa capo ad un borgo, concepito come centro aziendale e sistemato all’incrocio della nuova rete stradale secondaria, spesso sugli stessi luoghi ove sorgeva il cantiere di bonifica (Sica P., 1978).

Via via che i canali consentono lo scolo delle acque, che le idrovore prosciugano i terreni e che i trattori dissodano la terra, le imprese di costruzione realizzano i villaggi destinati ai contadini. Questi villaggi sono battezzati con i nomi di località o zone del Veneto sacre alla memoria della Grande Guerra, come: Borgo Carso, Borgo Pasubio, Borgo Bainsizza, Borgo Monte Grappa, dove si installano per lo più agricoltori emigrati appunto dal Veneto.

Non è difficile riconoscere che l’articolazione alquanto variegata delle tipologie di insediamento “riflette l’intento di creare una stabile struttura sociale e produttiva contadina, legata alla terra dal contratto di conduzione mezzadrile e all’apparato istituzionale da una serie di luoghi collettivi tali nel loro complesso da neutralizzare l’attrazione della grande città attraverso un’offerta dimensionata di servizi sociali strettamente compenetrati con la rete organizzativa del partito fascista; e questa articolazione si esprime, nei suoi livelli crescenti di complessità, nella triade gerarchica podere - borgo - città” (Sica P., 1978).

Le città del sistema rispettano il principio del limite dimensionale di howardiana memoria e sono dimensionate per una popolazione compresa tra i 3.000 e i 5.000 abitanti (salvo il caso del capoluogo di provincia Littoria) e sorgono in corrispondenza dei punti di massima accessibilità della rete infrastrutturale. La loro funzione preminente di centri amministrativi, tecnici e rappresentativi, è progettualmente definita attraverso un elenco dettagliato delle attrezzature che vi dovranno essere presenti e mediante una serie di prescrizioni relative alla densità abitativa e alle tipologie residenziali.

La nascita di Littoria costituisce l’evento più spettacolare della bonifica integrale ormai avviata a conclusione. Il 5.4.1932 Mussolini stesso indica il luogo in cui vuole che sorga la città. Entro tre mesi dalla decisione iniziano i lavori: il nucleo centrale della città è stato realizzato a tempo di record. “Latina - scrive Insolera - è una vera città nuova, costruita fin dall’inizio su un piano regolatore, un piano che prevedeva una piazza rettangolare al centro e che disponeva intorno a questa piazza gli edifici pubblici: il municipio, la banca, i negozi, l’opera nazionale combattenti, la direzione agricola, e tutto intorno le caserme dei carabinieri, della Milizia e così via. Da questa piazza partivano poi a raggera le strade, sei strade che dividevano il territorio intorno in vari lotti dentro cui sono state costruite le case, quasi tutte di tipo popolare, …” (in Petacco A., 1986).

Si tratta di uno schema urbanistico radiocentrico poligonale, redatto dall’architetto Frezzotti, che si presenta come un modello piuttosto convenzionale ma che, tuttavia, ha il merito di essere sufficientemente adattivo rispetto alle trasformazioni future e di rappresentare, con una certa coerenza, l’obiettivo di stabilire uno stretto rapporto con il territorio circostante facendolo convergere sulla città più rappresentativa tra quelle di nuovo impianto. In conseguenza del nuovo ruolo assunto da Littoria, lo stesso Frezzotti, nel 1935, elaborerà un piano di ampliamento che rinforza il sistema radiocentrico - anulare iniziale, portando le previsioni insediative fino a ben 50.000 abitanti.

Il programma di riassetto agricolo insediativo, quindi, si incardina sugli obiettivi politici e sociali della bonifica e della colonizzazione; ma è nelle città e nell’organizzazione territoriale del sistema insediativo urbano che la politica di questi anni troverà i risultati di maggior soddisfazione e giungerà alla conclusione che, nel riorganizzare un comprensorio o fondare un nuovo sistema insediativo, è comunque necessario che il centro delle operazioni diventi la città.

Poiché tutte le città nuove20 sono ubicate ad una certa distanza dai maggiori centri esistenti è necessario che vi trovino sede organismi amministrativi locali. Tuttavia, il governo non sembra essere cosciente, almeno quanto il gruppo dei tecnici della bonifica, della necessità tecnica di perseguire gli stessi obiettivi di assetto insediativo urbano rurale. Per il governo, infatti, le città nuove rivestono soprattutto un grande significato propagandistico in quanto teso a dimostrare di essere in grado di realizzare città funzionanti piuttosto di attuare una sperimentazione organica di tipo anglosassone nel campo del riequilibrio urbano-territoriale, senza contare l’esigenza, più simbolica che di tecnica pianificatoria, di voler rappresentare proprio attraverso la visibilità delle città, quindi in maniera molto appariscente, il successo della bonifica.

Anche la creazione e l’amministrazione delle città nuove dell’agro pontino ricaddero, quindi, sotto l’egida dell’Onc. Né si può trascurare l’intento tipico di un regime di effettuare uno stretto controllo sulla terra bonificata tramite un sistema di nuove città con la sede dello stesso Onc, il Municipio, le caserme dei Carabinieri, della Milizia ecc.

Dopo poco più di un anno, il 5.8.1933 fu fondata la seconda città dell’agro pontino, Sabaudia, il cui nome era un omaggio alla casa regnante. Anche qui si era proceduto con grande rapidità: in meno di un anno fu abbattuto un tratto della foresta del Circeo e costruita la maggior parte della città, inaugurata il 15.4.1934.

Il giudizio degli esperti su Sabaudia, sempre molto limitato allo spazio interno del progetto urbanistico21, è generalmente più cauto di quello su Littoria, ma a qualcuno non sfugge il diverso ruolo economico recitato da questa città a scala comprensoriale in quanto testa di ponte per il settore turistico. Scrive ancora Insolera: “Il bosco e tutto il promontorio del Circeo furono trasformati in parco nazionale nel 1934, press’a poco nello stesso momento in cui fu fondata Sabaudia. Il ruolo di Sabaudia nell’insieme delle bonifiche pontine è effettivamente diverso. Le altre quattro città - Pomezia, Aprilia, Latina e Pontinia - sono tutte allineate al centro della bonifica. Sabaudia invece è in un angolo, al di là del parco nazionale, lungo il lago e in una zona che avrà notevole sviluppo turistico“ (in Petacco A., 1986).

Di lì a poco la rete urbana crescerà, i centri già costruiti si rafforzeranno e verranno realizzate anche le altre città nuove.

Il 17.12.1934 la città di Littoria viene promossa di rango e proclamata solennemente capoluogo della novantatreesima provincia italiana. Una nuova provincia sorta, nel quadro del riassetto operato dalla bonifica delle aree paludose, unendo 26 comuni della provincia di Roma (di cui 15 provenivano dall’ex circondario di Gaeta, soppresso nel 1927, e 2, Ponza e Ventotene, da Napoli) per un totale di 28 comuni, ai quali, in un secondo tempo, si aggiungono Pontinia (1935) ed Aprilia (1936). In seguito, nel 1947, ai 28 si uniranno gli altri tre Comuni di Maenza, Roccasecca dei Volsci e Santi Cosma e Damiano, ricostruiti proprio in quell’anno, cosicché il totale della provincia giunge agli attuali 33 comuni.

Nel 1935 venne realizzata la città aeronautica di Guidonia, che prende il nome dal generale del genio aeronautico Alessandro Guidoni; il 25.4.1936 viene fondata Aprilia, che è inaugurata il 28 ottobre dell’anno successivo; Pomezia è fondata nell’aprile 1938 e inaugurata nell’ottobre del 1939, successivamente considerata l’area industriale di Roma; Pontinia è inaugurata il 18.12.1939.

L’opera di riassetto dei fondi rustici, iniziata nel 1931, fu ultimata, sempre dall’Onc, sei anni dopo. Questo sembrerebbe l’unico vero risultato efficace e duraturo ottenuto dal quel grandioso programma di interventi. Alla fine, infatti, nell’Italia agricola di quegli anni risultano bonificati complessivamente 137.000 ettari, 75.000 dei quali nella piana dell’agro pontino e i restanti nell’area dell’agro romano. Si poteva, quindi, a buona ragione scrivere: “Oggi Roma non è più circondata dal deserto. … Ora, nel 1931, il deserto attorno alla capitale è - come dire? - punteggiato e animato e trasformato da 1.662 gruppi di fabbricati, da 3.851 abitazioni per un totale di 13.318 vani, più 581 ricoveri per gli avventizi. … La popolazione rurale, che era di 3.850 unità nel 1922, è salita a 19.300 nel 1931, più 29.000 avventizi” (Dall’Almanacco fascista del Popolo d’Italia, Milano, 1932, in Petacco A., 1986).

È con questo soddisfatto compiacimento di stampo quasi bucolico che la grandiosa opera di bonifica integrale, proprio alla vigilia della seconda guerra mondiale, può dirsi conclusa.

Ma l’aspetto più importante, anche per l’eco suscitata al di fuori dei confini nazionali, era costituita dal fatto che “la fondazione di dodici nuove città nello spazio di dodici anni - anni, per di più, di depressione economica su scala mondiale - costituiva la vigorosa riprova di uno Stato italiano fascista determinato e potente” (Ghirardo D., Forster K., 1975).

La bonifica è conclusa, ma non si è concluso, anzi è agli albori, il processo di sviluppo così innescato; un processo che conoscerà percorsi imprevisti e successive ulteriori accelerazioni nei decenni dell’ultimo dopoguerra favorito, in questo, da quelle premesse di assetto insediativo-territoriale poste proprio con la bonifica di quegli anni.

 

 

Alcune riflessioni in una prospettiva di ripensamento disciplinare

 

La bonifica, il più celebrato successo della politica territoriale del fascismo, voleva rappresentare, attraverso un intervento pubblico di trasformazione territoriale di dimensioni mai prima tentate in Italia, la capacità del regime di pianificare organicamente economia, società e territorio. Le bonifiche, d’altro canto, rappresentano senza dubbio un esempio notevole che testimonia l’intreccio tra le politiche economiche e la pianificazione fisica del territorio.

E fu, come detto, proprio Serpieri a rendersi conto della interdipendenza dei vari aspetti produttivi e sociali ravvisando la necessità di una politica dei territori agricoli depressi che non fosse più intesa in senso strettamente ingegneristico o agronomico, ma che perseguisse obiettivi più ampi e complessi.

Figura 5 - La bonifica dell’agro pontino

Fonte: Onc, XVI

 

Il relativo giudizio è, tuttavia, controverso.

Secondo De Felice “che la politica della ruralizzazione fosse assurda e anacronistica e, quindi, necessariamente destinata alla lunga al fallimento è fuori dubbio, sia oggettivamente, sia in relazione agli strumenti politici di intervento di cui il regime disponeva” (De Felice R., 1974).

È convinzione ancora diffusa che la bonifica integrale sia stata, viceversa, un elemento fortemente positivo della politica economica fascista. Le opere di bonifica servirono ad occupare migliaia di lavoratori che altrimenti avrebbero dovuto essere sostenuti con sussidi di disoccupazione22.

Recenti studi hanno contribuito tuttavia a ridimensionare la portata effettiva dei miglioramenti fondiari allora conseguiti e anche l’ampiezza dei mutamenti sociali, nella riorganizzazione della manodopera agricola e nel regime fondiario, che i piani di Mussolini e di Serpieri si ripromettevano di secondare mediante la messa a coltura e la ripartizione delle terre destinate a bonifica23. Ma non furono tanto gli effetti della crisi del 1929 sulla finanza statale o il costoso intermezzo dell’avventura coloniale in Abissinia del 1935-1936 a decretare il parziale insuccesso della bonifica integrale. Gli ostacoli più gravi all’allargamento delle opere di trasformazione fondiaria vennero frapposti piuttosto dai grossi proprietari terrieri, i quali riuscirono spesso ad evadere l’obbligo di pagare la quota di loro competenza in favore dei consorzi di bonifica, oppure preferirono, quando non ne poterono fare a meno, dare in locazione i loro fondi addossando così agli affittuari il carico delle spese di miglioria.

Altro luogo comune da sfatare è quello secondo cui l’opera di bonifica contribuì comunque al riassetto fondiario di molte plaghe depresse del Mezzogiorno, venendo finalmente incontro ad un voto largamente espresso dai meridionalisti illuminati della seconda parte dell’Ottocento. Gli stessi dati ufficiali confermano, viceversa, che una larga parte degli investimenti pubblici venne destinata alle regioni del nord e dell’Italia centrale. D’altra parte la battaglia del grano, più che a creare rendite differenziali in favore dell’economia agraria meridionale, contribuì ad approfondire le disparità già esistenti tra nord e sud (Castronovo V., 1975).

Negli esperimenti di colonizzazione degli anni ’50 vi sarà, poi, una sorta di continuità24, non solo di disegno politico, ma anche di profilo sociologico e urbanistico: i villaggi abbandonati della riforma agraria vennero, infatti, dopo trent’anni, riscoperti per un possibile riuso giovanile.

Figura 6 - La bonifica dell’agro pontino: infrastrutture, insediamenti e impianti

Fonte: Onc, XVIII

 

La bonifica dell’agro pontino, oltre ad aver storicamente costituito la prima esperienza di pianificazione territoriale di area vasta per il nostro paese, ha rappresentato anche quella che, in qualche modo, per prima ha posto al centro della propria attenzione la questione ambientale, intesa nella sua accezione più ampia e complessa, in cui rientra la problematica della sicurezza del territorio rispetto ai rischi, piuttosto che quella, più scontata, concernente la tutela naturalistica25.

Nel caso della bonifica pontina, l’apparente contraddittorietà tra questa presunta centralità della questione ambientale e la cancellazione di una estesa e ricca zona umida viene chiarita dall’esplicito obiettivo del raggiungimento di una sicurezza insediativa tramite il debellamento della malaria, il cui livello di emergenza, oggi scomparso, è da rapportare con il grado di conoscenze medico-scientifiche dell’epoca.

D’altro canto, di lì a poco la legge urbanistica 1150/1942 avrebbe sancito, a livello istituzionale, ciò che da tempo era maturato e acquisito a livello scientifico circa la necessità di una pianificazione alla grande scala mediante il piano territoriale di coordinamento.

Prevalentemente negative sono, poi, le valutazioni circa i risultati urbanistici di quell’esperienza.

Alberto Mioni, ad esempio, ritiene che “lo schematismo del sistema originale si è rivelato un grave ostacolo per il suo adattamento a situazioni diverse, e la mancanza di flessibilità interna ha portato a contraddizioni molto vistose”. Lo schema organizzativo realizzato dall’Onc nell’agro pontino, si contraddistingueva per il suo carattere di staticità “determinata da una rigida pianificazione iniziale”. Una pianificazione, tra l’altro, che, al di là di importanti realizzazioni tecniche, proprio allora cominciava ad essere pratica diffusa, accompagnata dalla concreta sperimentazione di alcune teorie (zoning, standards, selezione del traffico).

Il primo esempio di pianificazione territoriale italiana, dunque, sarebbe stato caratterizzato da una eccessiva rigidezza dei suoi legami, il che non avrebbe consentito al sistema territoriale, centrato sulla capacità del podere di assorbire l’evoluzione demografica, di introdurre, all’occorrenza, le opportune modificazioni adattive endogene, in quanto il sistema stesso, dal suo interno, si sarebbe rivelato incapace di tener dietro alle modificazioni del contesto (i fattori esterni), alla luce delle esigenze nuove ed originariamente imprevedibili.

La caduta del fascismo aveva determinato la rottura del sistema di riferimento generale in cui la bonifica integrale era collocata, mettendo in crisi l’intero sistema pianificato e le conseguenti azioni. La trasformazione industriale degli anni ’60 ha poi comportato la diversa articolazione della gerarchia funzionale e della struttura demografica di buona parte di quel territorio, soprattutto a seguito di “sviluppi edilizi ed urbanistici non previsti”. I fattori esterni, cui si faceva riferimento, non sono altro che quelli generali connessi alla crescita complessiva del paese, quali il processo di terziarizzazione e il conseguente aumento del reddito e nuovi modelli di consumo e di mobilità; questo avrebbe “generato una proliferazione di edifici e un insieme di urbanizzazioni che non erano previste, né erano compatibili con i piani iniziali della colonizzazione rurale e con la loro logica ristretta, e li hanno fatti saltare” (Mioni A., 1976).

Per queste ragioni sarebbero venute meno tutte le previsioni quantitative fatte inizialmente, per cui nessuno dei cinque piani urbanistici elaborati per le principali città nuove poté essere concretamente attuato.

Ma in quale parte d’Italia, pianificata o no, non vi è stata proliferazione di urbanizzazioni non previste o non compatibili?

Cosa rimproverare, quindi, alla pianificazione pontina, allorquando la celebrata politica delle new towns di prima generazione, attuata ben dopo il periodo in esame, progettava strutture a nuclei relativamente autosufficienti, i neighbourhoods units, organizzati rigidamente a grappolo, tanto che con la successiva seconda generazione di new towns si tenterà di porre rimedio ai suoi riconosciuti limiti tecnico-funzionali?

Ci convince, piuttosto, il fatto che sia stata la perdita di potere dell’Onc a determinare la rottura del modello, cioè la mancanza di un governo unitario dei processi. L’impostazione originaria di un intervento complessivo a livello comprensoriale veniva a mancare e, quindi, veniva meno la gerarchia istituzionale che lo governava e si affermava in pieno l’autonomia del singolo comune. Il comprensorio, insomma, in qualche modo rappresentava l’origine, ma il comprensorio (e, quindi, l’Onc) non c’era più.

Fu innanzitutto la realizzazione di impianti industriali, all’epoca di notevoli dimensioni, a determinare scelte localizzative sicuramente incompatibili con il telaio insediativo sottostante; ma fu soprattutto la frammentazione della proprietà a complicare l’uso degli strumenti di coordinamento e di pianificazione economica e urbanistica dell’area in oggetto.

Possiamo, invece, concordare con quanti hanno affermato che a “una grande esperienza di bonifica integrale e di colonizzazione si è accompagnato (…) il sostanziale fallimento dei disegni urbanistici, come ci si doveva aspettare dato il diverso approfondimento scientifico portato nei due settori” (Mioni A., 1976). Siamo, cioè, concordi nel sottolineare lo squilibrio fra il notevole approfondimento tecnico e scientifico relativo alla bonifica dal punto di vista idraulico ed agrario e, viceversa, lo scarso approfondimento degli aspetti più propriamente legati alla pianificazione territoriale e urbanistica, pur consapevoli che il fallimento non è derivato dalla rigidezza dello schema pianificatorio iniziale, ma dal più generale e complesso problema dell’efficacia della pianificazione urbanistica in quanto tale e nella contraddizione consistente nella capacità di creare modelli operativi più o meno validi e l’incapacità di tradurre quei modelli in configurazioni reali conseguenti26.

Lo schema rigido, tuttavia, deve essere considerato come un approccio tipico dell’epoca in cui questa esperienza si è svolta. Guasti ben più gravi della rigidezza di uno schema insediativo li ha sicuramente prodotti, invece, a partire dal 1957, l’intervento straordinario nel Mezzogiorno, con l’innesco di processi insediativi convulsi ed incontrollati cui sono da ascrivere molte delle brutture ambientali attuali e la stessa “compromissione quasi definitiva di un ampio territorio di buona parte del quale oggi si rimpiange lo snaturamento”. È questo l’esempio di una programmazione e di una pianificazione territoriale che non comunicano tra loro: far passare la linea di demarcazione dell’egida della Cassa per il Mezzogiorno, con tutti i suoi incentivi, appena a sud di Roma ha fatto sì che Pomezia, al di sotto di tale linea ma troppo a ridosso di Roma, per la sua notevole appetibilità, fosse aggredita da un forte processo insediativo industriale che ne avrebbe stravolto l’originaria connotazione.

Il luogo stesso in cui fu costruita Sabaudia è di alto pregio paesaggistico.

Dal bando di concorso per la progettazione di Sabaudia (del 21.4.1933 - XI) si legge che è “lasciata ai concorrenti ampia libertà d’iniziativa, purchè il piano regolatore corrisponda alle esigenze pratiche di un centro eminentemente rurale (…). In detto piano regolatore dovranno essere previsti tutti i servizi pubblici necessari al funzionamento del nuovo centro agricolo, (…)”. Ma “il luogo indicato nella cartografia del bando è splendido: completamente disabitato, il monte Circeo vicinissimo, il lago di Paola separato dal mare da una sottile striscia di dune. È questa eccezionalità del paesaggio che lascia intravedere altre utilizzazioni oltre quella di centro eminentemente rurale” (Mariani R., 1976).

Sabaudia, difatti, vedrà negli anni successivi assumere quale attività prevalente quella turistica saldandosi al turismo del vicino Circeo trasformato proprio in quel periodo (il 25.1.1934) in parco nazionale.

E proprio circa l’accennato rapporto tra urbanistica ed economia Piccinato, nel 1977, chiariva che “la soluzione del problema va vista decisamente in un coerente processo di collaborazione tra programmazione economica e pianificazione urbanistica. I due termini non si possono distaccare. Allo svolgersi della programmazione non può non essere posto il continuo controllo della verifica urbanistica intesa questa nel suo più vasto significato teorico, dimensionale, culturale. (…) Le decisioni programmatiche, quando sono prese al di fuori di una visione di pianificazione urbanistica (…) portano (…) pericolosi scompensi”. Pertanto “una programmazione economica (…) comporta una preventiva verifica attraverso una sua traduzione progettuale urbanistica, verifica che sappia tener conto di tutti gli effetti indotti conseguenti alle scelte di localizzazione, anche generiche, sul territorio. E questa verifica preliminare può addirittura portare a dover cambiare il programma economico. Occorre, insomma, fare in modo che le due azioni si svolgano, per quanto è possibile, contestualmente” (Piccinato L., 1977).

Un ulteriore breve raffronto può essere fatto con le esperienze anglosassoni. L’esperienza teorico-culturale del green movement, che ha conosciuto l’espressione più apprezzata in Inghilterra nella lunga catena di pratiche attuazioni che va dalla garden city howardiana alla politica delle new towns, trova in Italia un analogo livello elaborativo non tanto nelle proposte degli urbanisti, sfociate per lo più negli epigoni riduttivi delle nostrane garden suburb (Milanino a Milano, la Città giardino di Aniene al Monte Sacro a Roma di G. Giovannoni) quanto, guarda caso, proprio nell’esperienza interdisciplinare della bonifica integrale: in questa, infatti, hanno operato tecnici agrari, idraulici, economisti, nel delineare l’assetto complessivo di un vasto territorio e dove gli urbanisti sono intervenuti esclusivamente nel segmento finale del processo pianificatorio con la definizione, in buona sostanza, solo di ben delimitati spazi sede dei centri urbani.

Insomma, in Italia l’elaborazione teorica degli urbanisti dà luogo a sottoprodotti dell’impostazione howardiana. Una vera e propria politica di controllo della crescita urbana nasce, invece, dall’elaborazione dei tecnici attivi nel campo della bonifica. Sembrerebbe, così, trovare conferma l’ipotesi che solo il fertile terreno dell’interdisciplinarietà ha consentito alla cultura pianificatoria di incrociarsi con le idee più strutturali del mondo anglosassone degli anni ’30 circa la risposta da dare all’endemico problema della crescita urbana e alla conseguente necessità di definirne i limiti, anche progettuali (green belt), e prevederne l’eventuale ulteriore sviluppo in una prospettiva di localizzazione o rilocalizzazione in nuovi nuclei insediativi. Dunque, a nostro avviso, un bilancio complessivo di quella azione pianificatoria, fatto nello stretto ambito disciplinare, è più complesso. Infatti, al risultato voluto in campo agricolo, ricordato per sommi capi, va aggiunto il risultato, forse di maggior rilievo, di tipo urbanistico territoriale, perseguito da parte del gruppo tecnico-operativo interdisciplinare di progettazione con notevoli capacità e livello culturale, ma con una certa confusione di intenti da parte del regime. Ebbene, questo risultato, sarà messo in luce più che dagli argomenti tecnici e dai principi ideologici dichiarati, dagli eventi successivi. È un risultato esprimibile tramite gli effetti positivi che scaturiscono, ed ancor più scaturiranno nel dopoguerra, dalla costruzione ex novo di una armatura territoriale ben equilibrata, cioè di un sistema insediativo articolato che, se da un lato garantì il consolidarsi della bonifica, dall’altro contribuì ad un processo di sviluppo dell’area per molti decenni a venire, confermando la sua validità con il superamento delle successive dure prove. In altri termini, l’assetto insediativo della pianura pontina, con la sua rete di nuclei, borghi e città, ha gettato le premesse per consentire, nel dopoguerra, di trasformare un territorio, pensato e programmato per diventare un’area produttiva agricola, e quindi monosettoriale, in un’area ad economia plurima, ove, cioè, all’agricoltura si sono affiancate - sia pure con effetti a volte drammatici per la mancanza di una pianificazione sostenibile alla grande scala - la produzione industriale e le infrastrutture turistiche di accoglienza per i flussi provenienti dalla capitale. Tale sistema insediativo, infatti, ha dimostrato di essere in grado, non solo di sopportare ed assorbire le forti tensioni ed i diversi indirizzi di politica economica, non sempre saggi e coerenti - si pensi alla politica di incentivi per la localizzazione industriale portata avanti della Cassa per il Mezzogiorno che traccia il suo limite di azione nei pressi di Pomezia o al boom edilizio del turismo delle seconde case lasciato dilagare intorno al Circeo e lungo le coste - ma anche di sostenere i successivi processi di sviluppo locale.

Figura 7 - Planimetria generale di Sabaudia secondo il progetto del gruppo vincitore del concorso bandito dall’Onc

 

 

 

 

1 “L’agro pontino è il territorio compreso tra i monti Lepini e il mare, che oggi costituisce una gran parte della Provincia di Latina. La sua superficie è di circa 200 km. La regione, dal punto di vista geografico, si divide in tre parti: una zona costiera di dune, separata dal litorale rettilineo da una catena di laghi e lagune allungata e parallela alla costa; una pianura ondulata all’interno; una zona depressa, al di sotto del livello del mare, ai piedi delle montagne. L’ostacolo offerto dalla dune costiere e dalle ondulazioni della zona centrale allo scorrere delle acque dai monti aveva mantenuto per secoli la regione in condizioni di acquitrino, con vastissime aree inabitabili e incolte e grandi foreste di querce all’interno, di pini sul litorale” (Mioni A., 1976).

2 Pianificazioni separate e governo integrato del territorio è stato il titolo del convegno nazionale dell’Istituto nazionale di urbanistica (Inu) tenutosi a Firenze i giorni 13 e 14 dicembre 2001, ai cui atti si rimanda per gli interessanti approfondimenti.

3 Di bonifica integrale si parlò per la prima volta in Italia nel 1911, nella relazione del Ministro dell’agricoltura Sacchi al Congresso dell’Associazione nazionale delle bonifiche. L’aggiunta dell’aggettivo integrale recuperava alla bonifica quel significato che aveva in origine, e cioè di intervento di carattere globale in cui l’opera di prosciugamento delle aree paludose, con relativi drenaggi e colmate, non era che un primo passo verso la complessiva sistemazione di un intero comprensorio, il che comportava anche il riassetto del suo bacino idrogeologico e del suo sistema forestale a monte, con la relativa costruzione delle necessarie infrastrutture, quali canali di scolo e irrigazione, argini, strade e, soprattutto, l’appoderamento, la colonizzazione e l’infrastrutturazione (con strade, edifici rurali, stalle, silos, scuole, attrezzature e servizi) dei terreni bonificati. Tale concetto fu formalizzato con il Rdl 215/1933, cioè la legge sulla bonifica integrale, la quale, tra l’altro, rendeva obbligatoria l’esecuzione delle suddette infrastrutture, prevedendo, in caso di inadempienza, che lo Stato intervenga a espropriare le aree e a completare i lavori (Mioni A., 1976).

4 Anche in Calabria, come in molte zone del meridione, la malaria ha operato “come un tipico fattore cumulativo di sottosviluppo”. Infatti, fino all’ultima guerra ogni nuova e ancor più ampia diffusione del morbo spingeva sempre più le popolazioni a rifugiarsi nelle zone salubri, collinari e montane; di qui la condanna di tali zone al “supersfruttamento e al disboscamento più irrazionale. Il conseguente aggravamento del regime delle acque e la fuga delle popolazioni, determinavano al piano un ulteriore estendersi della palude e anche della malaria. Si instaurò così, nel corso dei secoli, un circolo vizioso il cui risultato provocò un sempre maggior squilibrio tra risorse umane e risorse disponibili nelle zone salubri e in quelle malariche”. La politica delle opere pubbliche statali di bonifica aveva, poi, privilegiato la realizzazione di quelle opere governative che non erano quelle più organiche ad un progetto programmato di bonifica del territorio, bensì tra quelle di più immediata attuazione, anche se autonome. Una strada questa che contribuirà non poco a lasciare, in certe aree del paesaggio calabro dell’immediato dopoguerra quell’aspetto di abbandono definito in modo immaginifico dal Pedrocchi come un “cimitero di opere pubbliche” (Jacobelli P., 1986).

5 L’evoluzione concettuale sfocerà nella cosiddetta legge sulla montagna, legge del 25.7.1952, n. 991, con cui l’ambiente montano viene considerato in tutta la sua realtà economica, fisica e sociale.

6 Ci viene in mente il terrazzamento di Magnaghi A. ne Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.

7 Il Rdl 2464/1925 introduceva il concetto di comprensorio di bonifica fondiaria facendolo coincidere con l’area di intervento idraulico.

8 La moderna concezione di difesa del suolo risulta dalla sintesi ed integrazione, in visione coordinata ed unitaria, delle due direttrici di azione che hanno ispirato in passato la nostra legislazione in materia: la direttrice, consacrata già nella legge del 1865 e in quelle successive sino al testo unico n. 523 del 1904, della difesa contro le inondazioni provocate dai corsi d’acqua veri e propri, e la direttrice, emersa con la legge sui bacini montani del 1911 e consolidata nelle leggi di bonifica e forestali del 1923, 1928, 1933 e 1952, secondo la quale veniva coordinatamente considerato “l’intero sistema di interventi di consolidamento delle pendici, di sistemazione idraulico-forestali, di regolazione idraulico agraria dei flussi sottosuperficiali, di permeabilità e scolo dei terreni, eccetera”. Nel 1919, uno dei prototipi di enti speciali agricoli e di irrigazione, l’Acquedotto pugliese, istituito come consorzio con legge del 26.6.1902, n. 245, diventa ente autonomo (Rdl del 19.10.1919, n. 2060) con compiti di rimboschimento, irrigazione, costruzione di case popolari e coloniche (il successivo regolamento, Rd del 16.1.1921, n. 195, li estenderà alle borgate operaie e al risanamento di quartieri e abitati insalubri). Nel 1922, sempre prima del fascismo, nascono l’ente autonomo di bonifica per il basso Volturno a Bagnoli, accanto all’ente autonomo Volturno del 1904 con sede in Napoli e l’Ente di bonifica per la Provincia di Caserta. Il Rd del 30.12.1923, n. 3256, raccoglie in testo unico le leggi sulle bonifiche, e il Rd 3267, stessa data, riforma le norme sui terreni montani e introduce il vincolo idrogeologico. Le opere di bonifica hanno così un ampio retroterra legislativo, cui si aggiunge il Rdl del 18.5.1924, n. 753, detta legge Serpieri, sulle trasformazioni fondiarie di pubblico interesse.

9 La legge del 27.7.1967, n. 632, emanata in condizioni di straordinarietà per far fronte alle alluvioni del 1966, da addebitare, come sempre, ad un approccio non unitario ed organico alla problematica, istituiva la Commissione interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo, detta anche Commissione De Marchi, con il compito di “esaminare i problemi tecnici, economici, amministrativi e legislativi interessanti al fine di proseguire ed intensificare gli interventi necessari per la generale sistemazione idraulica e di difesa del suolo, sulla base di una completa ed aggiornata programmazione” che avrebbe portato, dopo 22 anni, alla legge 183/1989, e cioè alla pianificazione di bacino.

10 Con la sua teoria dei central-places, W. Christaller, nel 1933, verificò che esistevano delle leggi di regolarità economico-geografiche che riuscivano a spiegare la distribuzione e la localizzazione dei diversi tipi di città sul territorio. Il modello conseguente definiva una gerarchia di sette livelli di località centrali (centri urbani) in rapporto al rango (rarità) del bene o del servizio in esse prodotto.

11 Quello delle bonifiche e degli interventi di colonizzazione delle campagne italiane fu un tema ricorrente nella propaganda del regime circa la sua azione in campo sociale, economico e territoriale. La questione è stata esaminata a livello generale da Cohen J. S. (1973), Un esame statistico delle opere di bonifica intraprese durante il regime fascista, in Toniolo G. (a cura) “Lo sviluppo economico italiano 1860-1940”, Laterza, Bari. Si tratta di un’analisi quantitativa piuttosto scarna e priva di riferimenti al contesto socio-politico. Il contesto socio-politico è, invece, al centro di alcune note sull’argomento contenute in un saggio di Villari L. (1975), Lo stato fascista e il capitalismo agrario: la bonifica integrale, in “Il capitalismo italiano del Novecento”, Laterza, Bari.

Accenni più o meno espliciti agli aspetti territoriali, se non urbanistici, sono contenuti in lavori di carattere più generale sulla politica agraria in questo periodo:

- Preti D. (1973), La politica agraria del fascismo: note introduttive, in “Studi storici”, n. 4;

- Fano Damascelli E. (1975), Problemi e vicende dell’agricoltura italiana durante il fascismo, in “Quaderni storici”, n. 29-30;

- Castronovo V. (1976), La politica economica del fascismo e il Mezzogiorno, in “Studi storici”, n. 3.

Per maggiori dettagli sugli aspetti urbanistici delle bonifiche e della colonizzazione bisogna dunque rifarsi a studi su casi particolari. Il più sviluppato nella letteratura è senz’altro quello dell’agro pontino.

12 Il termine idrogeologico fu introdotto nel 1923 proprio da Arrigo Serpieri per definire l’instabilità dei versanti, soggetti a frane e smottamenti, e allo stesso tempo la possibilità di formazione di piene con alluvioni catastrofiche. Il Rdl del 30.12.1923, n. 3267, introducendo il vincolo idrogeologico e il vincolo boschivo, rappresenta la prima normativa organica che stabilisce le modalità di utilizzazione e lavorazione dei suoli al fine di difenderli dall’erosione e dalle frane.

13 Dopo i primi provvedimenti di Serpieri del 1924-1925, volti piuttosto all’inserimento nel mercato di alcune proprietà fondiarie improduttive attraverso l’espropriazione e la concessione dei comprensori di bonifica a società finanziarie private, ma presto bloccati per l’opposizione degli agrari meridionali.

14 Stando ai successivi censimenti statistici, pur inclini a peccare in eccesso per quanto riguarda soprattutto l’entità numerica dei piccoli proprietari, furono comunque le categorie intermedie degli affittuari, dei mezzadri o dei coloni parziari a vario titolo a concorrere più decisamente alla diminuzione, fra il 1921 e il 1936, della quota dei lavoratori senza terra, scesa in complesso dal 44 al 28%: i primi, passando dal 7 al 18% degli addetti all’agricoltura, i secondi salendo dal 15 al 19%.

15 Tale contributo era di oltre 4,3 miliardi di lire mentre i proprietari terrieri avrebbero dovuto partecipare ai singoli piani di risanamento per un importo complessivo di quasi 2,7 miliardi.

16 Le zone interessate, oltre all’agro pontino, sono in Provincia di Cremona, nella zona Parmigiana-Moglia, in quella di Bassano, in quella di Ravenna, a Coltano nei pressi di Pisa, a Siguri, a Lentini, a Torralba e nel Tirso in Sardegna. Altre città sono fondate nei comprensori di bonifica della Sardegna, nella Nurra e nel Campidano: Fertilia, Mussolinia e Carbonia. Nel Campidano, in Provincia di Cagliari, vengono bonificati 18.000 ettari di terreno. Al centro di questa zona, il 28.10.1928, nasce Mussolinia: si tratta del primo esperimento di colonizzazione interna e la città viene popolata con l’immissione di quaranta famiglie polesane. Fertilia nasce il 7.10.1932 e i suoi nuovi abitanti vengono trasferiti qui dalla campagna ferrarese e dalla Venezia Giulia. La più significativa tra le nuove città sarde è Carbonia, che ha nel suo nome la sua origine, inaugurata l’1.12.1938. Il 7.8.1936 viene fondata anche Arsia, una città mineraria costruita in Provincia di Pola, in territorio che successivamente tornò sotto sovranità jugoslava, ricco di miniere di carbone.

17 La legge distingue i comprensori di bonifica in due categorie: quelle di prima categoria, da classificare per legge, presentando vantaggi igienici o economici di prevalente interesse sociale hanno una eccezionale importanza ai fini della colonizzazione; i secondi, da individuare per decreto reale, sono tutti gli altri.

18 Fin dal 1906-1908 vi sono interessanti provvedimenti di agevolazioni e piani per l’immigrazione di famiglie di coloni in province meridionali e insulari. L’Onc venne istituita con decreto luogotenenziale dell’11.12.1917, n. 1970. Con il decreto luogotenenziale 16 gennaio 1919, n. 55, si approva il regolamento di organizzazione e funzionamento dell’Onc, nata per assistenza alla truppa e con lo scopo di aumentare la produttività della forza lavoro della nazione. Tali dispositivi e le successive leggi 20 agosto 1921, n. 1177, contro la disoccupazione, che prevedeva la costituzione di enti di bonifica, e Rd del 15.12.1921, n. 2047, testo unico per la concessione di terre, si tentava di rimediare in parte ai problemi della disoccupazione del dopoguerra. Nel 1926, con Rdl del 16 settembre, n. 1606, si riforma l’ordinamento dell’Onc, abrogando il regolamento del 1919 e dando all’Onc la funzione di trasformazione fondiaria e di favorire l’esistenza stabile sui luoghi di una più densa popolazione agricola.

19 Il regio decreto del 4.3.1926, n. 440, istituisce il Comitato permanente per le migrazioni interne che poi, secondo il Rd del 28.11.1928, n. 2874, dovrà servire ad agevolare le intraprese di colonizzazione e il flusso migratorio verso le province meno abitate e dove vi è difetto di manodopera (il Comitato, divenuto Commissariato, passerà nel 1930 alle dirette dipendenze del capo del governo). Con legge del 24.12.1928, n. 2961, veniva data ai prefetti facoltà di emanare ordinanze obbligatorie allo scopo di limitare l’eccessivo aumento della popolazione residente nelle città. Tra il 1928 e il 1931 si perfeziona il meccanismo amministrativo di controllo dei movimenti di popolazione, coatti in alcuni casi (trasferimenti di lavoratori e famiglie per colonizzazioni ed altri impieghi), vietati in altri (afflussi nelle città). Sempre nel 1928 si giunge con legge 24 dicembre, n. 3134, detta legge Mussolini, ai provvedimenti per la bonifica integrale. Per il tema delle bonifiche segnate dai trasferimenti coatti degli anni successivi, assumono rilievo le norme della legge del 9.4.1931, n. 358, “Disciplina e sviluppo delle migrazioni e della colonizzazione interna”, che riguarda anche operai per lavori pubblici e trasferimenti all’estero e nelle colonie, provvedendosi da parte del Commissariato “all’accertamento e alla razionale distribuzione della manodopera disponibile al fine di ottenere il più conveniente impiego in tutto il Regno e nelle colonie” (art. 2). Nel 1933 si dispone il trasferimento coatto di famiglie ferraresi in zone di scarso indice demografico che diano sicura possibilità di vita e si costituisce, per la colonizzazione di estese zone della Sardegna, l’Ente ferrarese di colonizzazione.

Ai pionieri della bonifica

 

20 Le dodici città nuove realizzate in Italia tra il 1928 e il 1940, in ordine di completamento, sono: Mussolinia (1928); Littoria (1932); Sabaudia (1934); Pontinia (1935); Guidonia (1935); Fertilia (1936); Aprilia (1936); Arsia (1937); Carbonia (1938); Torviscosa (1938); Pomezia (1938); Pozzo Littorio (1940). Oltre a queste città nuove, il fascismo edificò anche numerosi borghi in Sicilia, e fondò nuovi insediamenti nelle colonie africane. Probabilmente la più famosa tra le avventure di colonizzazione in Africa fu quella guidata da Italo Balbo nel 1938, che portò circa 1800 famiglie italiane ad insediarsi in nuovi villaggi della Libia.

21 Il progetto della città fu opera del gruppo dei giovani architetti Cancellotti, Montuori, Piccinato, Scarpelli, giudicato dalla commissione giudicatrice presieduta da G. Giovannoni vincitore del concorso bandito dall’Onc il 21.4.1933. Al gruppo, oltre che la redazione del piano, viene affidata la progettazione di tutti gli edifici pubblici e privati del centro.

22 Secondo una statistica ufficiale, all’1.9.1933 erano impiegati nei lavori di bonifica 77.776 operai.

23 Si calcola, infatti, che solo il 58% dei lavori di bonifica iniziati furono portati a compimento e che non più del 32% dei progetti di irrigazione vennero completati.

24 Continuità col successivo periodo repubblicano ve ne sono in abbondanza: si pensi alle norme sulle bonifiche e sui comprensori irrigui, rimaste in vigore fino all’attuazione delle regioni e delle comunità montane negli anni ’70; ma anche alla sopravvivenza dei vari enti che poi, insieme a quelli creati negli anni ’50 con la riforma agraria, si trasformeranno da enti di bonifica ad enti di riforma e poi in enti di sviluppo per diventare, nel periodo 1967-1977, enti regionali di sviluppo agricolo. Solo nell’estate del 1977, infine, l’Onc viene inserita negli elenchi degli enti che, dopo altre verifiche, potranno forse essere estinti.

25 Ai progetti di bonifica, e alle relative opere ed infrastrutture, è attribuita la distruzione di ambienti naturali di pregio, in quanto l’idea di bonifica è stata applicata, in modo disinvolto e indifferenziato, sia ad aree realmente dissestate che a zone ove, invece, si sono sviluppati e consolidati spontanei ecosistemi meritevoli di protezione.

26 Tafuri M. a proposito di Sabaudia (in Mariani R., 1976).

 

 

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