Il dibattito sui temi del paesaggio, in
questi ultimi anni intensificatosi, ha
avviato una nuova e più incisiva fase
istituzionale a tal riguardo.
Alla Convenzione europea del paesaggio del
2000, infatti, è subito seguito nel nostro
paese l’accordo Stato-regioni e, in seguito,
l’approvazione del nuovo Codice dei beni
culturali e paesaggistici. Prescindendo
dalla cospicua mole di contributi e diatribe
che si addensano attorno al concetto di
paesaggio, si possono comunque individuare
alcuni punti fermi che sintetizzano i
caratteri più innovativi e fecondi
dell’attuale questione paesistica.
Il primo tra i nuovi assunti vede il
paesaggio come il risultato di un mutuo
confronto tra una serie di componenti
oggettive, vale a dire “l’oggettualità
percepibile sul territorio”, e di componenti
soggettive e, quindi, “la soggettività di
chi percepisce”2, esaltando in
tal modo la valenza essenzialmente culturale
del paesaggio.
In secondo luogo vi è l’affermazione che il
paesaggio così inteso non è più contenibile
in isole di tutela delimitate e confinate,
ma semmai è possibile individuare aree
distinguibili per omogeneità di componenti
oggettive o di componenti soggettive.
Infine, quindi, vi è la consapevolezza che
il paesaggio così concepito è in continua e
inarrestabile trasformazione, la quale è
“prodotta dall’azione congiunta del consumo
e del rinnovo naturale della materia, degli
interventi antropici sostitutivi o
manutentivi e del mutare del modo di
attribuire senso a ciò che si percepisce”3.
Sono questi i punti fermi dell’attuale
dibattito paesistico a livello
internazionale, punti fermi che a ben
guardare affondano le loro radici
soprattutto nella tradizione paesaggistica
italiana.
Le radici italiane
Percorrendo, dunque, l’evoluzione del
concetto di paesaggio tracciata da Romani4,
s’individuano nel corso della storia due
correnti fondamentali, che considerano e
studiano il paesaggio in modo totalmente
diverso.
Una è la corrente scientifica, che
risale alla nascita e all’evoluzione delle
scienze naturali; l’altra è la corrente
estetico-percettiva, che deriva dalla
concezione estetica e che, per una serie di
circostanze, ha avuto nel nostro paese uno
sviluppo predominante.
Si può immediatamente notare, quindi, che
fin dalla nascita del concetto di paesaggio
attribuita a Humboldt la corrente
scientifica trova maggiore spazio in Europa
settentrionale prima e in Russia in seguito,
toccando solo marginalmente l’Italia.
La seconda è la corrente di pensiero
estetico-percettiva, che ha per oggetto
la percezione visiva e le sensazioni che
scaturiscono dalla contemplazione o dalla
semplice fruizione di un paesaggio. È,
dunque, questa corrente che, com’è stato
detto, trova maggiore spazio in Italia,
affondando le sue radici nell’Estetica
di Benedetto Croce. All’interno di questa
scuola, trovano spazio una serie di
lungimiranti studi che costituiscono oggi
proprio i presupposti teorici del dibattito
paesistico attuale.
Tra questi, fondamentali sono gli studi
portati avanti da Gambi5 nel
1961, che vede nel paesaggio un complesso
interrelarsi di stratificazioni storiche,
sociali e d’istanze culturali.
Partendo dallo studio dei paesaggi rurali,
Gambi isola una serie d’elementi rilevanti
nella caratterizzazione delle realtà
agricole che intende descrivere, non
individuabili, però, da un punto di vista
semplicemente visivo. L’intuizione di porre
l’accento sull’aspetto culturale e umano del
paesaggio, indagando sulle ragioni storiche
del rapporto uomo-natura è volto, infatti,
al superamento delle posizioni che
privilegiano gli aspetti visivi di tale
rapporto.
La visione di Sereni6 ha molti
punti di contatto con quella di Gambi; anche
in questo caso, infatti, l’elemento
fondamentale ed essenzialmente costitutivo
del paesaggio è lo stretto intrecciarsi di
una società, della sua cultura e della sua
storia con il territorio in cui questa è
vissuta e si è sviluppata. Il rischio che
Sereni denuncia è, dunque, di assumere il
paesaggio come già dato, indipendente ed
esterno dalla trama dei fatti sociali di cui
è impregnato e di cui è unica vera sintesi.
Si innesta in questo stesso filone la
ricerca avviata agli inizi degli anni ’70 da
Turri. Egli focalizza la sua attenzione
sulla definizione, in ambito geografico, del
paesaggio come insieme di segni lasciati
dall’uomo sul territorio. È proprio qui la
grande novità del tentativo di Turri e cioè
il voler inserire nella sfera scientifica
geografica una lettura culturale
dell’ambiente. È del 1974 il testo
Semiologia del paesaggio italiano, in
cui Turri tenta di inserire il dibattito
culturale di quegli anni nel più specifico
ambito paesaggistico. Egli, infatti,
partendo dalla constatazione della brusca
rottura causata dal passaggio dalla
condizione rurale locale alla condizione
industriale nazionale, evidenzia la stretta
interrelazione che sussiste tra questa
rottura a livello sociale e la
consequenziale distruzione a livello
territoriale. Ne scaturisce un’esortazione a
intendere il paesaggio come manifestazione
di un gruppo sociale e, quindi, a cogliere e
studiare “l’uso che una società ha fatto del
suo territorio”7.
Il paesaggio così inteso, quindi, subisce
una prima importante trasformazione
iniziando ad abbracciare non più solo i
territori poco costruiti,
caratterizzati da grandi spazi verdi, ma
estendendosi fino ad arrivare alle nostre
periferie degradate, da un lato ancora
rurali, dall’altro circondate e affogate da
immense autostrade; è il paesaggio tutto
quello che interessa, con tutte le sue
contraddizioni, perché sono proprio queste
lo specchio delle contraddizioni della
nostra società. È una grande intuizione,
questa, che Turri compie appena nel 1974, ma
che purtroppo, da allora, resterà solo un
argomento teorico. Bisognerà aspettare la
Convenzione europea del paesaggio perché
quest’intuizione si trasformi finalmente in
un esplicito invito a riformulare i
contenuti e i confini di questa disciplina.
A dover cambiare, secondo Turri, è, dunque,
l’uso del territorio, che in Italia “è
sempre stato imposto dalle classi dominanti”8:
le trasformazioni territoriali, quindi, sono
sempre state regolate dall’alto. Bisogna,
dunque, stravolgere e ribaltare questo modo
di operare facendo nascere le trasformazioni
e l’uso del territorio valorizzando
un’indagine dal basso.
Quello che si evince, riguardando gli studi
di Gambi, Sereni e Turri è proprio quel
principio fondamentale sancito formalmente
dalla Convenzione europea, che vede
l’inscindibilità del territorio dalle
persone che lo vivono e, quindi,
l’impossibilità di risolvere i problemi
territoriali e ambientali senza tener conto
innanzi tutto di quelli sociali, sostenendo,
dunque, che esiste solo un’unica
inscindibile questione che è sociale e
paesistica al tempo stesso.
Il dibattito internazionale e la svolta
della Convenzione europea
Ciò che fa della questione paesistica un
argomento così attuale e rilevante, tanto da
accendere un così fervido dibattito a
livello europeo, è lo stretto legame che
unisce la domanda di paesaggio ai processi
di globalizzazione delle dinamiche
economiche, sociali e culturali. Se,
infatti, gli effetti dei processi economici
sono inevitabilmente quelli di
un’omologazione territoriale, da un lato, e
di una disuguaglianza sociale dall’altro,
risulta direttamente consequenziale una
preoccupante perdita di identità locale. La
giusta risposta ad una tale richiesta,
quindi, è la definizione di un paesaggio
dove una determinata comunità possa
rispecchiarsi e riconoscersi, che sia il
risultato dei meccanismi comunicativi e
delle stesse contraddizioni sociali che
ospita, che, in definitiva, possa aiutare a
ridare identità ad un determinato luogo e ad
una determinata comunità.
La Convenzione europea del paesaggio,
riprendendo i contenuti più innovativi della
Risoluzione del 1998, per la prima volta
tratta il paesaggio come una materia di
strategia politica e lo definisce come “una
porzione determinata di territorio qual è
percepita dall’uomo, il cui aspetto risulta
dall’azione di fattori umani e naturali e
dalle loro interrelazioni”; applica,
inoltre, a tale paesaggio l’impegno di
“consacrarlo giuridicamente come bene
comune, fondamento dell’identità culturale e
locale delle popolazioni, componente
essenziale della qualità della vita e
espressione della ricchezza e della
diversità del patrimonio culturale,
ecologico, sociale ed economico”9.
Il paesaggio, inteso in tal senso, assume
rilievo come tema politico d’interesse
generale, oltre che culturale. A dover
cambiare, quindi, è il livello stesso dello
strumento urbanistico-territoriale che
“dovrà cercare ogni volta la legittimazione
nella comunità a cui si riferisce (se esiste
e per come si esprime) e troverà le sue
limitazioni negli interessi che per quella
comunità devono essere protetti e
sviluppati”10. È questo il
sistema più idoneo affinché le varie
comunità locali possano, finalmente, cessare
di subire i loro paesaggi e
diventare, invece, promotrici fondamentali e
uniche responsabili delle trasformazioni del
loro stesso territorio, giungendo, dunque,
alla pratica di una “pianificazione per
un’azione collettiva di supporto ai
territori, in contrasto con una linea di
incentivi individuali e automatici che la
esclude”11.
Affermare che il paesaggio, inoltre,
contribuisca al “consolidamento
dell’identità europea”12 offre
l’agio d’intendere il paesaggio come il
prodotto storico della cultura e del lavoro
dell’uomo sulla natura e, quindi, come
ambito dei meccanismi identitari, tanto più
voluti e necessari in un percorso
d’integrazione che voglia essere oggi tutore
delle differenti identità. Sostenere che i
mille paesaggi europei sono proprio i
mille volti dell’Europa, significa
basare proprio sul paesaggio la risposta
politica che a livello istituzionale va data
alla crescente esigenza sociale di
contrapporsi all’omologazione generata dal
nostro attuale modello economico.
L’aspetto più interessante è, quindi,
l’introduzione di un ruolo attivo della
collettività, non più semplicemente limitato
all’approvazione delle scelte di piano e
quindi utile a non ostacolare le
trasformazioni prefissate. Adesso la
partecipazione assume un ruolo
indispensabile soprattutto nella fase
dell’analisi e della comprensione del
paesaggio su cui si deve intervenire; il
momento della decodificazione dei segni
lasciati sul territorio diventa, così, uno
strumento cognitivo imprescindibile nella
valutazione dello stesso. Riconosciuto il
peso che l’intervento umano ha nella
produzione di un qualsiasi paesaggio, anche
di quello più incontaminato, e dato per
assodato l’aspetto dinamico che pervade ogni
luogo, non si può allora prescindere,
operando in un determinato territorio, dalla
valutazione e dall’analisi del gruppo
sociale che l’ha oggettivamente prodotto e
segnato. Si può, quindi, affermare che “se
queste sono le coordinate entro cui
muoversi, la partecipazione diffusa alle
politiche di gestione patrimoniale del
paesaggio non è un omaggio moralista alla
democrazia, ma uno strumento necessario, in
molti casi l’unico utilizzabile per sperare
di conservare almeno la testimonianza di una
cultura materiale ormai trascorsa”13.
La complessità del paesaggio
Negli ultimi anni, si può considerare
consolidato il presupposto fondamentale che
vede il paesaggio come il risultato del
rapporto comunità-territorio. A rendere tale
rapporto di così difficile decifrazione e a
complicare la lettura di un determinato
paesaggio è, inoltre, proprio quella
necessità istintiva e collettivamente
sentita di un’identificazione tra un luogo e
la sua popolazione, che finalmente oggi ha
indotto alla consapevolezza che “solo alle
comunità insediate possiamo far risalire le
morfologie degli insediamenti umani e, in
generale, tutta l’opera di antropizzazione,
includendo le costruzioni del paesaggio
agrario”14. Il rapporto che si
instaura tra una popolazione e il suo
territorio, quindi, non è solo la sommatoria
di una serie di processi più o meno
coordinati, ma è un rapporto di tipo
organizzativo e pianificatore, i cui effetti
si manifestano reciprocamente sia sugli
uomini sia sul paesaggio, è insomma uno
scambio che è in continua trasformazione e
arricchimento.
È dall’esaltazione delle tracce che una
comunità lascia sul suo territorio, dunque,
che si deve partire per scoprire l’identità
di un luogo, per capire il senso di un
paesaggio, quel senso comune che è il
frutto di una memoria collettiva, che non è
scritta solo nei libri ma che è invece
fissata e contenuta nel paesaggio “come le
linee di una mano”15. Appare a
questo punto logico considerare tale
senso comune come presupposto basilare
per la pratica progettuale. Per cui, se si
vuole proseguire quel rapporto di adesione
essenzialmente culturale che lega una
comunità al suo territorio, non bisogna
fermarsi all’individuazione di elementi
monumentali, né tanto meno alla storia dei
grandi eventi, bisogna, invece, indagare la
vita quotidiana degli uomini che vivono quel
territorio, i ritmi, i tempi e le abitudini
che da sempre regolano quel determinato
scenario.
Alla base di un approccio corretto, quindi,
che produca modificazioni armoniche di un
determinato luogo, deve necessariamente
esserci una considerazione integrata dei
fattori ambientali e sociali. Ed è, infatti,
proprio da questi ultimi che si deve partire
per scoprire le risorse identitarie di un
luogo; una volta individuate queste risorse
la pianificazione paesistica dovrebbe
esaltarle e rafforzarle al fine di favorire
la creatività locale e di potenziare i
processi auto-poietici dei sistemi locali.
In questo modo anche il paesaggio più
degradato tipico delle nostre periferie
potrà essere padrone del proprio percorso di
sviluppo, perché come ricorda Turri: “se è
vero che (l’uomo) come attore sul teatro
mondiale non ha molti modi di farsi sentire,
perché altri sono gli attori che muovono la
scena globale, egli può sicuramente avere
una parte di primo piano, sempre, sul teatro
locale”16. Solo in questo modo le
trasformazioni paesistiche non saranno più
solo subite dalle popolazioni
direttamente interessate ma scelte, guidate
e poi anche attivamente gestite da loro.
In sostanza l’operazione che a mio avviso
sarebbe da compiere è di porre in risalto un
paesaggio così come depositato nella mente e
nelle memorie di chi quotidianamente lo
vive, interrogando i reali meccanismi di
percezione collettiva di uno spazio, così
come riconosciuto e, in definitiva, goduto,
partendo dal presupposto che “in qualche
misura, un paesaggio mentale diviene così
paesaggio riconosciuto da una cultura”17;
ricercando quel senso comune “base di quel
sentimento di appartenenza ai luoghi, che è
essenziale nel riconoscimento delle
specificità di un paesaggio senza divenire
pretesto di chiusure localistiche, ma al
contrario, strumento fondamentale di una
comunicazione proficua tra luoghi, società e
culture”18.
Un progetto di paesaggio
Al fine di provare la validità di detto
approccio, quindi interpretando il paesaggio
non più solo dal punto di vista estetico, ma
anche, e soprattutto, dal punto di vista
sociale, si è condotta un’analisi di un
territorio pesantemente degradato della
piana campana, alla periferia nord della
città di Napoli, dapprima analizzando e
studiando le caratteristiche territoriali e
paesaggistiche di una porzione della piana
campana, per poi concentrare lo studio sul
Comune di Afragola.
La scelta di un’area periferica degradata è
sembrata una conseguenza logica di questo
studio, avendo sostenuto l’importanza di una
pianificazione paesistica che richiami
l’attenzione sulle identità locali, come
determinatesi dall’interazione tra azioni
antropiche e risorse ambientali, unitamente
alle qualità morfologiche di un luogo.
Si è, quindi, proposta una metodologia
operativa idonea sia all’interpretazione di
territori già morfologicamente qualificati,
sia alla valorizzazione e all’indagine di
quelle labili identità che caratterizzano i
paesaggi slabbrati delle nostre periferie.
Si è inteso affermare, in tal modo, infatti,
proprio la sterilità di una limitazione
delle analisi paesistiche alle sole aree già
morfologicamente privilegiate. La
metodologia proposta, dunque, ha l’obiettivo
di un riequilibrio ambientale basato
principalmente sulle vocazioni
socio-culturali di un territorio; è da
intendersi, per tale ragione, non solo come
utile appannaggio dei piani paesistici come
tradizionalmente intesi, ma anche, e
soprattutto, come imprescindibile strumento
di conoscenza, delimitazione e
partecipazione per i piani territoriali a
livello provinciale e comunale.
Il metodo con cui si è proceduto ha visto,
sin dall’inizio, affiancate le analisi
paesistiche tradizionali, volte alla
conoscenza delle componenti oggettive,
dall’indagine delle componenti soggettive,
le risorse identitarie. La loro
individuazione si è compiuta attraverso una
serie d’interviste (circa 15), sulla base
delle quali si è elaborato un questionario
distribuito a 100 persone, appartenenti a
diverse categorie di fruitori dell’area del
comune individuato. Il questionario è stato
articolato in quattro aree tematiche: la
memoria individuale, la memoria
collettiva, l’orientamento e
infine il senso di identità e di
alterità, ognuna delle quali ha
contribuito, alle varie scale territoriali,
all’individuazione di quell’immagine
identitaria indispensabile ai fini della
strategia progettuale prescelta. Dal
continuo confronto tra le componenti
oggettive e soggettive, si è proceduto
all’individuazione e decodificazione dei
segni e delle tracce del territorio
considerato.
L’analisi delle risorse identitarie, per la
prima volta analizzate in tal modo e in un
contesto a vocazione così periferica e
degradata, ha dato risposte inaspettate in
termini di studio delle sinapsi territoriali
spontanee, evidenziando subito come queste
fuoriuscissero naturalmente dalle maglie
strutturali di quel comune, in ciò
integrando spontaneamente elementi dei
territori limitrofi, paesaggi in se
amministrativamente separati. Elemento di
studio è stato, quindi, il veder prevalere
connessioni specifiche tra comuni e comuni,
talune dipendenti da fattori identitari,
altre da barriere naturali, storicamente
sedimentate. Risaltava il dato per il quale
comuni di maggiore peso in termini di
stratificazioni storiche non avevano
sviluppato adeguate cinghie di connessione
rispetto a comuni d’importanza minore ma più
favoriti in termini di affinità culturali.
Si sono, in questo modo, individuati dei
limiti fisici-naturali, non identificabili
dalla semplice analisi cartografica ma
socialmente percepiti come barriere, che
hanno, quindi, condizionato lo sviluppo non
solo degli scambi, ma la percezione degli
stessi confini. Emergeva, ad esempio, il
ruolo svolto dai Regi Lagni, una persistenza
ambientale non di mole insormontabile dal
punto di vista fisico, che, tuttavia, aveva
influenzato il compiersi delle connessioni
nel corso del tempo. Grazie agli esiti del
questionario, in definitiva, si è potuti
procedere all’individuazione di una
microunità di paesaggio che rispecchiasse le
interrelazioni e gli scambi tra paesi
limitrofi così come sono quotidianamente e
storicamente sentiti dagli abitanti.
L’analisi delle componenti soggettive ha
dato risultati sorprendenti anche quando la
si è indirizzata a scale territoriali più
dettagliate, facendo emergere aspetti che
l’analisi del sistema ambientale,
insediativo e infrastrutturale basata solo
su dati oggettivi non era ovviamente
riuscita a inquadrare. Si è, infatti, preso
atto di un’inaspettata immagine mentale ben
più ricca e carica di significati rispetto
alle reali caratteristiche fisiche del
territorio, tale da poter validamente
costituire una sorta di vademecum per
l’individuazione sia di punti di vista
privilegiati sul paesaggio circondante, sia
di elementi di riferimento e di
riconoscimento all’interno dell’ambito
urbano. Sono così emerse tutte quelle
strade, piazze, emergenze architettoniche,
ma anche colture e visuali, con scarsa
valenza storica o morfologica, ma indicate
come elementi identificativi del luogo. Si
sono, inoltre, costatate una serie di nuove
frammentazioni all’interno degli stessi
confini comunali, oltre che intere aree
urbane o imponenti infrastrutture avvertite,
nella sostanza, come barriere da dover
aggirare.
I risultati dell’analisi effettuata in tal
senso hanno portato alla definizione di una
proposta progettuale di riqualificazione
urbana principalmente finalizzata ad un
riequilibrio ambientale, sociale e culturale
e, quindi, necessariamente rispettosa delle
memorie e coerente con le percezioni di chi
quotidianamente vive e fruisce quel
territorio.
In conclusione credo che si possa affermare
che ogni paesaggio, per quanto degradato
sia, in sé possieda struttura e identità.
Sta all’interprete il delicato compito di
analizzare quel territorio tanto
compiutamente da riuscire a svelare le sue,
seppur deboli, qualità. Il senso di
un’analisi paesistica in tal modo condotta
è, quindi, l’addentrarsi in quel precipitato
spontaneo depositato nell’immaginario
collettivo dei suoi abitanti, considerando
la rilevanza che l’immagine mentale ha
affiancandosi alla percezione della forma
fisica in se stessa. Il fine non è il goffo
abbellimento delle nostre periferie
degradate, bensì il tentativo di ristabilire
una continuità, specie dove questa è venuta
meno o sta mutando corso, tra passato,
presente e futuro, tra le trasformazioni
degli uomini e le vocazioni di un
determinato paesaggio, nel tentativo,
quindi, di restituire identità e coerenza a
quei luoghi che l’hanno ormai perduta.
Note
1
La tesi di laurea dal titolo “Il paesaggio
degli abitanti. Segni, tracce e memorie
della piana campana”, è stata discussa
nell’A.A. 2004/2005, relatore il Prof. Arch.
Francesco Domenico Moccia.
2
Castelnovi P. (2002), Società locali e
senso del paesaggio, in Clementi A. (a
cura di), “Interpretazioni di paesaggio”,
Meltemi, Roma.
3
Idem.
4
Romani V. (1999), Il paesaggio. Teoria e
pianificazione, Ires, Torino.
5
Gambi L. (1961), Una geografia della
storia, Einaudi, Torino.
6
Sereni E. (1961), Storia del paesaggio
agrario italiano, Laterza, Bari.
7
Turri E. (1974), Semiologia del paesaggio
italiano, Longanesi, Milano.
8
Idem.
9
Consiglio d’Europa (2000), Convenzione
europea del paesaggio, Congresso dei poteri
locali e regionali d’Europa, Firenze.
10
Moccia F. D. (2001), La pianificazione di
area vasta tra riforma costituzionale e
politiche neocentraliste, a cura di
Gerundo R, in “areAVasta”, n. 3/2001.
11
Idem.
12
Consiglio d’Europa (2000), Convenzione
europea del paesaggio, Congresso dei
poteri locali e regionali d’Europa, Firenze.
13
Castelnovi P. (2000), Il senso del
paesaggio, Ires, Torino.
14
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territoriali in Campania. Aspettative e
preoccupazioni in corso d’opera, in
Moccia F. D. (a cura di), “I progetti
integrati territoriali”, Graffiti, Napoli.
15
Calvino I. (1972), Le città invisibili,
Mondadori, Milano, pag. 10.
16
Turri E. (1998), Il paesaggio come teatro,
Marsilio, Padova.
17
Olmo C. (1991), Dalla tassonomia alla
traccia, in “Casabella”, n. 575-576.
18
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paesaggio come risorsa progettuale, in
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paesaggio”, Ires, Torino.
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