Paesaggi dismessi, Paesaggi rifiutati
“Ciascun territorio è unico per cui è
necessario riciclare, grattare una
volta di più (ma possibilmente con la
massima cura) il vecchio testo che gli
uomini hanno inscritto sull’insostituibile
materiale del suolo, per deporvene uno
nuovo, che risponda alle esigenze d’oggi,
prima di essere a sua volta abrogato” (Corboz
A., 1983).
Quanto afferma Corboz, autorizza a leggere
con un’accezione ampia i paesaggi rifiutati
da riciclare, enumerando fra questi ad
esempio i paesaggi delle aree industriali
dismesse, quelli che, ormai privi di una
funzione produttiva, diventano dei buchi
neri. Deserti, spazi smisurati privi di
un’identità, voragini dentro i tessuti
urbani consolidati, percepiti da tutti con
disagio.
Vissuti dai cittadini o meglio dai passanti,
come spazi ostili, enclaves
spettrali, luoghi di insediamento di
emarginati, immigrati, zingari, giostre e
discariche abusive; intesi dai sociologi e
dagli esperti di statistica come indicatori
del calo occupazionale, della perdita di
specifiche strutture produttive e della
modifica delle strutture sociali;
riconosciuti dagli economisti e dagli
operatori finanziari come depositari di
cospicui valori immobiliari e, infine, dagli
urbanisti e dai pianificatori come spazi
problematici, difficili da gestire per la
loro superficie, in cui le dimensioni
metriche non possono essere interpretate
unicamente in base a parametri economici, ma
richiedono una riflessione riguardo agli
investimenti necessari per la riconversione
produttiva, per l’insediamento di attività
pubbliche o private, rivolte ad un uso del
suolo non soltanto residenziale, ma anche
commerciale, terziario, ricreativo e
culturale.
“Dismissioni di edifici e di aree
industriali, di impianti, di attrezzature e
infrastrutture urbane, di ospedali, di
caserme, di scuole, di scali e linee
ferroviarie, di stazioni, di banchine
portuali, di cave e miniere, di strade e
canali” (Secchi B., 1987), nelle città
grandi ma anche nelle piccole, in Italia e
in Europa, già a partire dalla fine degli
anni ’60 e agli inizi degli anni ’70. Ma
mentre in Inghilterra, in Francia, in
Danimarca, in Olanda venivano avviate ben
presto azioni politiche capaci, almeno in
parte, di proporre soluzioni positive, in
Italia la crisi non percepita sopraggiungeva
generando una lunga fase di impasse,
aprendo laceranti controversie tra
conservazione e innovazione, producendo
“vuoti ancor più rilevanti dentro il tessuto
sociale, istituzionale e culturale di
ciascun paese e di ciascuna regione”, senza
riuscire a lasciare “nel palinsesto di
ciascuna città e di ciascun territorio,
tracce profonde (…) di un evidente passaggio
epocale” (Secchi B., 1995).
I vuoti avrebbero potuto rappresentare
un’occasione per tessere trame sociali ormai
sfaldate, una possibilità per ripensare
forme urbane e architettoniche più
confacenti e funzionali alle necessità della
vita moderna, un’opportunità per intervenire
correttamente all’interno dei perimetri
urbani, raschiando delicatamente una volta
di più la superficie, per trovare le tracce
e i sedimenti lasciati dalle generazioni
trascorse: “Gli abitanti di un territorio
cancellano e riscrivono incessantemente il
vecchio incunabolo del suolo” (Corboz A.,
1983). Invece, lo sbandamento dei vuoti ha
innescato processi di deterritorializzazione
che hanno annullato gerarchie e forme
sedimentate dell’abitare e del produrre,
dando il via al decentramento produttivo,
all’economia sommersa, ai distretti
industriali, alla campagna urbanizzata e
alla città diffusa, indicatori della
“dispersione delle politiche” (Secchi B.,
1995) territoriali italiane.
“Il processo generale di
deterritorializzazione comporta effetti a
cascata sul paesaggio, sull’ambiente, sulle
relazioni sociali” (Magnaghi A., 2000). Così
è avvenuto in Lombardia, che tra le realtà
italiane è la più emblematica della
dismissione industriale (3.000 ha di aree
dismesse a metà degli anni ’90), perché
regione fra tutte, a maggior “diffusione
storica di complessi industriali e
artigianali connessi all’abitato o a grandi
valori ambientali” (Viganò A., 2001). Una
regione dalla complessa orografia, in cui la
localizzazione degli insediamenti produttivi
era stata dettata dalla presenza di laghi,
di fiumi e di servizi e da un’elevata
quantità di manodopera indigena, proveniente
da quelle centinaia di piccoli paesi,
disseminati in tutta la regione. Un connubio
tra ambiente produttivo e insediamento
urbano, che aveva segnato, con
stratificazioni successive, l’identità dei
luoghi durante il tempo lungo della storia
industriale.
Negli anni ’80, con la crisi del fordismo e
della produzione di massa, matura
progressivamente una scissione netta tra
modificati modelli economico-aziendali e non
più rispondenti modelli
architettonico-urbanistici, a causa
dell’incompatibilità tra attività produttive
e standard di sicurezza ambientale
all’interno dei centri abitati, ma anche per
ragioni funzionali, legate al riassetto
produttivo delle aziende che, richiedendo
nuove tecnologie, minor personale e ridotte
superfici produttive, necessitano di forti
investimenti di adeguamento produttivo e di
bonifica ambientale, quale risarcimento per
le risorse sottratte alla comunità e per
ragioni economiche, legate al valore
posizionale delle aree produttive che,
inducendo alla dismissione del sito, ne
prospettano la rilocalizzazione in aree più
periferiche, in vista di un reinvestimento
finanziario, generato da appetibili
operazioni immobiliari.
Processi di deindustrializzazione, di
riconversione e rilocalizzazione produttiva
i quali generano processi di
deterritorializzazione, riducendo i luoghi a
spazi connettivi tra funzioni, organizzando
sistemi funzionali lineari, adeguati ai
modelli reticolari e degerarchizzati della
città diffusa, pervasiva e tentacolare, che
distrugge le morfologie insediative dei
luoghi e i connessi contesti ambientali e
disgrega le trame sociali.
La Giunta della Regione Lombardia, prendendo
coscienza di tale realtà, ha approvato nel
1996 un documento di programmazione “Linee
di indirizzo per lo sviluppo territoriale
della regione Lombardia”, nel quale si
propone un’inversione di tendenza, nei
riguardi del dissennato consumo di suolo,
rispettando tuttavia, le caratteristiche
industriali e manifatturiere della regione,
prediligendo nelle azioni di recupero e
riqualificazione delle aree dismesse la
riconversione produttiva dell’area in
settori tecnologicamente avanzati a più
elevata compatibilità con il tessuto urbano
circostante, o in alternativa, in casi
limitati, ricercando mix funzionali tra
attività produttive e servizi a scala
urbana, o inserendo l’area nel sistema degli
spazi verdi, dopo un’adeguata bonifica dei
suoli.
Si tratta di un manuale di buone pratiche
per lo sviluppo del territorio lombardo che
supporta la Lr 30/1994 “Interventi regionali
per il recupero, la qualificazione e la
formazione delle aree da destinare a nuovi
insediamenti produttivi”, e inserendosi a
sua volta in un nuovo trend legislativo,
sollecitato dall’Unione europea e dal
governo nazionale, sancisce l’interesse
della regione per proposta o in accordo con
enti locali, operatori economici (singoli o
associati) e organizzazioni dei lavoratori,
a definire le regole e le tipologie di
intervento per le aree in crisi e per il
reinsediamento delle piccole e medie imprese
e apre una strada innovativa, tentando di
fondere la sfera economico-produttiva con
un’adeguata azione pianificatoria, generata
dalla concertazione di una pluralità di
soggetti, perseguendo finalità integrate di
promozione del contesto locale considerato.
Con questa legge affiancata dalla Lr 2/2003
“Programmazione negoziata regionale” vengono
pertanto ridisegnate le geometrie
delle relazioni istituzionali tra centro e
periferia, individuando negli accordi a base
territoriale, nuovi modelli d’azione, frutto
di un processo di negoziazione tra attori,
che liberamente contrattano la loro
partecipazione a progetti d’interesse
comune. L’istituto dell’accordo di programma
è stato ampiamente sperimentato a Sesto S.
Giovanni, caso emblematico di
deindustrializzazione nel panorama italiano,
area-problema che ha segnato in
maniera significativa il rapporto tra
mutamenti della struttura produttiva,
trasformazioni sociali e territoriali,
politiche pubbliche.
Sesto S. Giovanni, paesaggi di fabbriche
“Città delle fabbriche”, un appellativo
usato e abusato negli anni trascorsi, che
racchiude sinteticamente la vera identità di
Sesto nel XX secolo. Dopo essere stata nel
dopoguerra il quinto centro industriale
d’Italia, ha conosciuto uno dei fenomeni di
dismissione più imponenti della penisola
(superficie territoriale comunale destinata
a impianti produttivi industriali pari al
25% del totale). Questa realtà così
macroscopica ha generato una altrettanto
macroscopica crisi a livello sociale ed
economico, costringendo Sesto a prefigurare
per sé scenari futuri, più velocemente di
quanto non abbiano fatto altre città
italiane.
Oggi la “città delle macchine” fa parte
della memoria storica di Sesto, che per non
dimenticare le sirene che squarciavano
l’aria grigia e nebbiosa, carica di polveri
e fatiche, ha pensato di costruire il Museo
dell’industria e del lavoro e di allestire
un percorso storico, all’interno della
città, segnato dalla presenza di totem,
capaci di generare fieri ricordi del passato
e positivi intenti di crescita della “città
del futuro, che si dovrà costruire”, con la
speranza che “possa radicarsi su quella
solida base, costituita dalla tavola dei
valori elaborata nel corso del Novecento” (Vimercati
L., 2003).
Viene da chiedersi se le diffuse pratiche
politiche e associative potranno, ancora una
volta, far leva sulla vitalità di un tessuto
sociale, forgiato dalle trasformazioni e dai
mutamenti del mondo industriale, per
riconvertire il patrimonio collettivo
materiale e immateriale acquisito nel XX
secolo e se i nuovi strumenti legislativi
potranno concretizzare dopo un secolo e
mezzo le idee innovative di Carlo Cattaneo.
Giungono, infatti, segnali contraddittori
che rendono plausibile qualche dubbio: da un
canto pare che Sesto abbia ancora in mente
per sé il profilo di una delle cento città
italiane, con “una persona politica, uno
stato elementare permanente e indissolubile”
(C. Cattaneo, 1858), dall’altro
l’applicazione degli strumenti della
programmazione negoziata conferisce tali
maggiori capacità decisionali e libertà nel
processo attuativo, che inducendo la
possibilità di gestire le ordinarie
politiche di intervento sulla città e il
territorio in maniera agile ed efficace,
genera a volte trasformazioni ardite e,
spesso, non rispettose della tradizione
sestese.
Sesto S. Giovanni, paesaggi del lavoro
L’antico borgo agricolo, sorto al sesto
miglio dalla Porta Argentea sulla strada che
da Milano conduceva a Olginate, passando per
Monza, era ancora a metà dell’800 costituito
da un nucleo di case e botteghe (3.500 ab.),
da poche cascine sparse e da alcune ville di
signori milanesi, che lì trascorrevano un
periodo di villeggiatura. I terreni posti al
di là della linea dei fontanili, erano
asciutti e trovavano nel fiume Lambro e in
altri corsi d’acqua minori la loro risorsa
idrica, fondamentale per la coltivazione
della terra e per la produzione serica,
praticata a sostegno dell’agricoltura.
Nel 1840 era tuttavia già sorta sul
territorio di Sesto la ferrovia Milano-Monza,
quell’infrastruttura che ne avrebbe cambiato
la storia, proiettandola col proseguimento
della rete fino al S. Gottardo (1882), al
centro dell’Europa e in diretto contatto coi
territori ricchi di carbone, che avrebbe, di
lì a poco, costituito la risorsa
fondamentale, assieme a quella idrica, per
l’insediamento delle attività industriali.
Tuttavia Gian Paolo Semino, recuperando la
tradizione estrattiva dell’arco alpino a
partire dal ’400, riconosce a Sesto, per la
sua posizione di crocevia di strade, un
ruolo territoriale notevole nel Bacino della
Brianza, regione che già allora poteva
essere interpretata come area
metropolitana milanese ante litteram.
L’armatura infrastrutturale del territorio
fu successivamente incrementata con la
realizzazione della tramvia a cavalli
(1876), poi elettrificata (1901), mentre
quella stradale era già stata definita nei
primi decenni dell’800, con l’apertura della
Strada Veneta verso i ponti dell’Adda, della
Via Militare verso Monza e delle strade di
valico del Sempione, dello Spluga e dello
Stelvio. Se a ciò si aggiunge la notevole
portanza dei terreni, il loro basso costo,
un regime fiscale favorevole e la non ultima
intraprendenza di Giulio Vigoni (diventerà
in seguito sindaco di Sesto), che offrì ai
suoi amici, ricchi imprenditori milanesi,
vaste aree del territorio sestese di sua
proprietà, a prezzi sicuramente più
appetibili rispetto a quelli di Milano, la
storia di Sesto, piccola Manchester
d’Italia, è presto delineata.
La ripresa industriale degli inizi del ’900
aveva spinto molte aziende ad abbandonare il
territorio di Milano e a cercare altrove
suoli liberi, disponibili a vasti
insediamenti. Gli elementi favorevoli
presenti sul territorio sestese permisero in
pochi anni l’insediamento della Campari,
della Breda, delle Pompe Gabbioneta, della
Ercole Marelli, delle Acciaierie Falck e
ancora dell’Osva, della Maggi, della
Distillerie Moroni e di un’enorme quantità
di imprese piccole e medie, attive nei
settori leggeri.
Nel 1913 la nuova composizione urbana e
sociale, che sarebbe diventata ben presto
politica e culturale, aveva preso forma e la
città con i suoi abitanti si avviava verso
una delle esperienze più paradigmatiche
dell’industrialismo italiano. La grande
guerra, infatti, non scalfì il successo
economico degli imprenditori sestesi, che
seppero trarre, anche dalla difficile
situazione bellica, incentivi alla
modernizzazione e alla competitività
internazionale.
All’esterno dei recinti industriali, il
tempo del lavoro e della produzione,
modellava il paesaggio urbano e permeava la
cultura della società. Gli insediamenti
industriali, voraci di suolo occupavano più
di un terzo della superficie comunale e
lasciavano alle residenze operaie solo spazi
di risulta, incuneati spesso tra le
fabbriche e le infrastrutture stradali o
ferroviarie. La trama insediativa del
vecchio paese agricolo fu fagocitata dalla
rapida crescita di fabbriche e residenze
operaie; l’amministrazione locale non fu in
grado di rispondere tempestivamente, in
termini di servizi e infrastrutture, alle
esigenze di una popolazione più che
raddoppiata in pochi anni, a causa della
mancanza di fondi e di lungimiranza
politica.
Così fino agli anni ’20, le grandi imprese
milanesi che non avevano previsto un piano
di riassetto urbano del piccolo centro,
contemporaneo al progetto di sviluppo e di
espansione industriale, governarono la
crescita urbana, costruendo quartieri
operai, alloggi per i pendolari, villini per
gli impiegati, brani di città sopraffatti
dalla maestosità delle cattedrali del lavoro
che li fronteggiavano, luoghi urbani
fortemente introversi, in cui si sviluppò la
città corporativa. Solo negli anni ’30 e in
maniera più considerevole nel secondo
dopoguerra, il governo del territorio urbano
tornò all’amministrazione pubblica o meglio
tornò alla comunità locale. Gli anni della
guerra e della Resistenza avevano infatti
formato la coscienza civile della comunità
sestese, avevano costruito la società del
lavoro.
Il mondo della grande fabbrica esercitava un
forte fascino su tutti: era un universo
all’interno del quale “si trasferivano e si
acquisivano saperi generali e capacità
specifiche, in cui si esprimevano competenze
e socialità, intelligenza produttiva e
piglio organizzativo, forme di solidarietà e
spinte conflittuali” (Piluso G., 2003). Il
rinnovato spirito positivo e propositivo
degli anni del boom economico, la
solidarietà professionale e le varie culture
associative cattoliche e social-comuniste,
permisero di sostituire il welfare delle
imprese con quello pubblico, di “combinare
il conflitto sociale con il governo della
città, la lotta di classe con il buon
governo”.
Petrillo, nella lucida analisi del mondo
sestese che introduce il saggio di Berti e
Donegà, scrive: “Una volta stabilito che la
fabbrica era alla base di tutto,
l’amministrazione popolare si prodigò
inconsapevolmente a interpretare al meglio
la più recondita ambizione degli operai di
fabbrica: abbandonare la fabbrica,
mimetizzarsi, mescolarsi ai bottegai, ai
farmacisti, agli insegnanti, alla gente. Se
non loro in persona, i loro figli. Far
dimenticare che a Sesto c’erano le
fabbriche, con i loro rumori, la loro
sporcizia, la loro fatica: questo sembra
essere stato il vero punto d’onore delle
forze politiche e amministrative che
traevano la loro legittimità dalle
fabbriche, in un tempo in cui i padroni
delle ferriere detenevano addirittura la
proprietà di quasi la metà dell’intero
territorio comunale”.
Sesto S. Giovanni, paesaggi industriali in
declino
Le “capacità di autogoverno” (De Bernardi
A., 2003), manifestate dalla comunità
sestese nel secondo dopoguerra, inducevano a
confidare, a metà degli anni ’90, nelle
possibilità di resistenza al
disorientamento, seguito alla
scompaginazione della “società del lavoro”,
avvenuta con la chiusura delle grandi
fabbriche. E la politica, intesa come arte
del governo della città, si sarebbe potuta
rivelare quale chiave di volta per risolvere
la crisi di Sesto S. Giovanni, connotandosi
di pratiche partecipate e condivise, per
condurre la trasformazione post-industriale
della città, assieme a quella di tutto il
Nord Milano.
Si può affermare, infatti, che il nuovo
elemento introdotto nelle politiche
successive alla dismissione sia stato
proprio la dimensione territoriale degli
interventi, intuizione già presente nel
piano di Bottoni, che aveva previsto nella
“vecchia città-fabbrica” l‘innesto di una
nuova città, aperta alle relazioni
intercomunali con la presenza di una serie
di centri di lavoro e di infrastrutture
organizzative; un nuovo sistema di
centralità civiche che avrebbe utilizzato il
sistema della città corporativa
dell’anteguerra, per integrare “la città per
parti” voluta dalla grande industria.
Chiamato a intervenire, nel 1962, su un
tessuto urbano fortemente connotato dalla
presenza industriale e urbanizzato per il
95% della sua superficie, Piero Bottoni
aveva intuito che perseverare “con l’aumento
a qualunque costo delle zone di lavoro e
produzione”, sarebbe stata una scelta col
tempo insostenibile e avrebbe congestionato
ancor più la città, che necessitava
piuttosto di un rapporto più equilibrato tra
industrie, residenze, servizi e aree verdi.
Sarebbe azzardato supporre che Bottoni
avesse già intuito il declino del sistema
sestese, secondo una visione biologica, che
interpreta la crisi connaturata al sistema
stesso (non da ascrivere a cause esogene,
quale il tracollo mondiale della siderurgia
degli anni ’70); tuttavia, la prefigurazione
di una “Sesto città moderna e industriale,
con un centro di interesse ambientale e
storico artistico che forse nessuna delle
città sorelle del territorio industriale
lombardo può vantare”, lascia spazio per
pensare che egli volesse dare a Sesto
l’opportunità di emanciparsi dalla propria
immagine stigmatizzata di “città delle
fabbriche”.
Paesaggi riciclati, paesaggi partecipati
“… Il sito, le sue risorse naturali, le
relazioni e i collegamenti costruiti nei
secoli, la cultura e la memoria promuovono
una rinascita. E condizionano i modi in cui
la comunità esce dalla crisi, dalla frattura
che segna la sua storia, per avviarsi a
costruire una nuova identità” (Bergamaschi
M., 2003).
Un processo lungo più di vent’anni, durante
i quali Sesto ha proposto per sé nuovi
abiti, nuove immagini: “città simbolo della
salvaguardia ambientale; città simbolo del
volontariato e del terzo settore; città
della comunicazione; nuova città del lavoro;
parte strategica di una grande città del
consumo (Nord Milano)” (Visco Gilardi L.,
2001), riciclando in ciascuna di esse
parti peculiari della sestesità che
“abbracciava tutti: ricchi e poveri, padroni
e operai, comunisti socialisti e
democristiani, preti e sindacalisti” (Piluso
G., 2003) e che trovava la sua massima
estrinsecazione nelle pratiche partecipative
e nell’esercizio della “voce” (Hirschman,
1987), unico strumento capace di “veicolare
le espressioni del consenso e del dissenso”
(Berti, Donegà, 1992) e di produrre azioni
considerate “investimenti nell’identità
individuale e di gruppo” (Hirschman, 1987).
Indubbiamente dopo la drammatica
“rottamazione sociale” (Penati F., 2001),
succeduta alla strenua e vana difesa degli
impianti, che i capitani della grande
industria progressivamente smantellavano,
alle migliaia di lavoratori, espulsi dal
mondo produttivo sestese, non fu più
consentito l’esercizio della “voce”: per
essi delusi dal fallimento, era possibile
soltanto “l’uscita” (Hirschman, 1987) dal
sistema della grande fabbrica. Tuttavia la
conclusione del lungo ciclo di Sesto “città
delle fabbriche”, pur diffondendo
“comportamenti e strategie di tipo egoistico
in un ambiente prevalentemente regolato da
relazioni di mercato” (Berti, Donegà, 1992),
a causa delle mutate condizioni dei
lavoratori, da dipendenti ad autonomi, ha
innescato col tempo, nuovi processi
partecipativi, non più a scala locale ma a
scala territoriale.
La costituzione nel 1995 dell’Agenzia di
sviluppo Nord Milano (Asnm), società per
azioni a capitale misto pubblico-privato,
compartecipata dal Comune di Sesto San
Giovanni, dalla Provincia di Milano e dal
gruppo Falck ed inoltre dal 1996 dai Comuni
di Bresso, Cinisello e Cologno Monzese (cui
si aggiungono Finlombarda e Svi, finanziaria
dell’Iri, Camera di Commercio e Comune di
Milano, gruppo internazionale Asea Brown
Boveri-Marcegaglia e Fratelli Pasini) ha
manifestato la nuova dimensione identitaria
cercata: non più cittadini di Sesto ma
cittadini del Nord Milano. L’Asnm ha
“progettato, promosso e attuato indirizzi
strategici e progetti speciali, finalizzati
al marketing territoriale e alla
valorizzazione socio-economica e ambientale
dell’area; progetti che per loro natura e
dimensione esulano dalle ordinarie
competenze degli enti locali” (Salone C.,
1999) andando dalla reindustrializzazione di
alcune aree dismesse al sostegno all’interno
di incubatori d’impresa di attività
imprenditoriali innovative nel settore
biotech e multimediale (supportate da centri
di ricerca pubblici e privati e
dall’Università degli Studi di Milano
Bicocca), dalla creazione di un Business
Innovation Centre ad un Centro risorse per
l’impresa sociale, dal Concorso
internazionale per la realizzazione di un
parco urbano nelle aree dismesse Falck alla
riqualificazione del Parco della Media Valle
del Lambro e del Parco Nord, dall’Agenda 21
del Nord Milano al Piano strategico del Nord
Milano, fino all’insediamento a Sesto della
nuova Facoltà di Scienze della Comunicazione
dell’Università Statale di Milano e di
alcune fra le più prestigiose emittenti
radiotelevisive nazionali ed internazionali.
Paesaggi edificati …
A dieci anni dalla costituzione dell’Asnm si
può affermare che la rinascita di Sesto,
avviata col sostegno di Cinisello, Bresso e
Cologno, attraverso prassi partecipative e
politiche negoziali, praticate a tutte le
scale territoriali, in un’ottica di
governance istituzionale, sostenuta
dalla costruzione di una nuova identità
sociale, capace di riciclare la
sestesità del ‘900 e come questa in grado di
intervenire positivamente, realizzando una
“coalizione locale di sviluppo”, ha permesso
ai soggetti coinvolti di partecipare al
processo di trasformazione dell’area,
mettendo a disposizione le loro risorse.
Una scelta oculata da parte di tutti
gli attori che hanno avviato il processo se,
a febbraio del 2005, l’Asnm ha
ricapitalizzato la Spa modificando la sua
denominazione in “Milano Metropoli”!
Ciò induce a pensare che l’agenzia abbia
voluto liberarsi dell’identità sestese,
lusingata dalla rinnovata attrazione che
Sesto suscita da qualche tempo sul popolo
milanese con i suoi numerosi locali
trendy (primo fra tutti lo Zelig Circus)
e abbia accettato per la vecchia “città
delle fabbriche” la nuova condizione di
“città-quartiere a quindici minuti da Piazza
Duomo” (F. Terragni).
E l’autonomia amministrativa, le
dichiarazioni di inveterata identità sestese,
le visioni di Cattaneo e il mito del Nord
Milano? Evanescenti … Sesto sarà una nuova
propaggine della tentacolare megalopoli
padana, che ha trovato nei milioni di mq di
aree dimesse, un nuovo serbatoio per il
mercato immobiliare, eternamente assetato di
superfici da edificare. Lo skyline
della nuova Sesto, non più contraddistinto
dalle affumicate ciminiere della Falck e
della Breda, è già segnato da iperboliche
gru, che ne modificheranno definitivamente
l’anima, versando milioni di mc di
calcestruzzo sul vessato suolo dell’antica
“Stalingrado d’Italia”.
Sembrano dunque ben lontani e diversi i
problemi dei territori rifiutati e riciclati
in altre parti del paese. Sembrano persino
opposte, rispetto ad esempio a quelle della
Campania (che pure ha vissuto l’esperienza
di Bagnoli), le cause che a Sesto generano
iniziative di riuso.
Ma questa considerazione, a prescindere
dall’unificante problema di dismissione
industriale, rimarca anche i differenti
caratteri del ciclo industriale privato del
nord e di quello di Stato al sud.
Il coinvolgimento partecipativo dei tanti
capitani di finanza (non più tanto
d’industria) alle iniziative di riuso delle
aree private dismesse a Sesto si spiega
infatti con l’interesse diretto che essi
mostrano alle più o meno lucrose
trasformazioni fondiarie che ne possono
derivare.
Lo stesso non trova riscontro a Bagnoli,
dove l’unico conflitto d’interesse degli
operai pre-pensionati avrebbe potuto valere
sulla sola titolarità del paesaggio, ammesso
che la dismissione avesse lasciato a questo
la dignità biologica capace di
caratterizzarne un’identità rugginosa, e
ammesso che il concetto di paesaggio
possa suscitare interesse costituzionale
diffuso ad una sua tutela, in chi non
ha più la dignità del suo lavoro. Ma è
sicuro che nemmeno a Sesto, dove pure sono
avanzate le esperienze partecipative, gli
operai pre-pensionati abbiano trovato posto,
per difendere l’identità post-industriale
del proprio paesaggio, al tavolo
concertativo … |