Il quadro di riferimento
I conflitti legati alla localizzazione di
impianti a elevato impatto ambientale,
presentano, molto spesso, una duplice anima,
essere cioè da un lato forme di
contestazione molto specifica,
territorialmente definita, che non sempre
abbraccia ambiti e temi che vanno al di là
dell’oggetto della protesta, dall’altro,
proprio per la loro specificità, di riuscire
a mettere a nudo problemi contingenti che
l’amministratore pubblico e il politico
spesso non sanno affrontare, gestire e
dirimere con efficienza ed efficacia.
Inoltre, nell’arco degli ultimi anni,
osserviamo come si siano trasformate le
forme e le modalità del conflitto: esso è
ora meno ideologizzato, ha assunto un
carattere più sfumato dal punto di vista dei
principi ideologici e politici per essere
più territorializzato, legato a
questioni per le quali si cercano soluzioni
contingenti, talvolta immediate; nasce e si
sviluppa alla micro-scala e interessa gruppi
ristretti di popolazione.
L’analisi sulle problematiche connesse allo
smaltimento dei rifiuti e le quantificazioni
relative, si confronta con una produzione e
conseguente smaltimento di rifiuti urbani, e
speciali, legata ad un modello di consumo
che non presenta evidenti processi di
cambiamento o ri-orientamento. Il modello di
sviluppo imperante, e con esso i sistemi di
distribuzione di beni e merci, è un modello
altamente dissipativo e, nonostante le
progressive innovazioni tecnologiche e le
politiche di smaltimento/riciclaggio, è
responsabile della quantità di rifiuti che
noi stessi produciamo. Rispetto a ciò,
talvolta, anche le armi a disposizioni di
amministratori e politici appaiono spuntate,
incapaci di far fronte alle questioni e di
orientare le scelte verso soluzioni adeguate
e condivise.
Partendo da queste considerazioni generali
su livello e forma assunti dalla
conflittualità, nel caso preso ad esempio,
cioè quello della Regione Veneto2,
si ipotizza, specificatamente in materia di
rifiuti, che la conflittualità, oltre alle
motivazioni di carattere sociale elencate,
sia diminuita grazie all’introduzione del
DLgs 22/1997 meglio noto come decreto Ronchi
e alla conseguente sua applicazione oltre
che ad una gestione, forse, più oculata da
parte degli enti interessati.
I conflitti a scala locale3
Il progressivo calo di rifiuto smaltito in
discarica, grazie all’introduzione e
all’applicazione del decreto Ronchi e
all’avvio della raccolta differenziata, ha
significato oltre che una consapevolezza
maggiore nel cittadino impegnato a seguire
criteri e dettami della differenziazione,
anche una diversa procedura di smaltimento e
di distribuzione a livello locale del
rifiuto da riciclare, questo, nonostante,
l’incremento pro capite di rifiuti prodotti;
infatti, dai 451 kg/abitante del 1998 si
passa ai 469 del 2000, ai 485 del 2002,
registrando però una piccola inversione di
tendenza del -1,9% nel 2003. La percentuale
di rifiuto differenziato sul totale del
rifiuto urbano prodotto è, a livello
regionale, del 18,93% nel 1998, del 28,4%
nel 2000 e del 39,5% nel 2002, con
variazioni significative per le singole
province: 25,4% a Belluno, 46,2% a Padova,
51,8% a Treviso4. Tale
progressione è registrabile anche negli anni
successivi; infatti, nel 2003, Belluno tocca
il 28,82%, Padova il 52,22%, Rovigo il
37,76%, Treviso il 58,46%, Venezia il
29,18%, Vicenza il 51,13% e Verona il
38,09%, risultati che portano la regione al
43,09% di rifiuto differenziato su rifiuto
urbano prodotto, quando la percentuale
nazionale è di poco superiore al 21%, e a
superare nel 2004 la soglia del 50% di
rifiuto riciclato, raggiungendo con largo
anticipo gli obiettivi stabiliti5.
Ci troviamo, quindi, in una situazione di
relativa virtuosità da parte degli
enti di gestione, che ha significato una
radicale riduzione del rifiuto
indifferenziato smaltito in discarica, anche
se paiono quanto mai necessarie politiche di
informazione e sensibilizzazione del
cittadino, volte a contenere, a monte, la
produzione di rifiuti6. A fronte
dei dati riportati non pare comunque
azzardata l’ipotesi che tale trend,
positivo, abbia avuto un’influenza a livello
locale e abbia di conseguenza ridotto i
motivi di micro-conflittualità, anche se non
possiamo dire che la conflittualità in
Veneto, per questioni legate alle politiche
di smaltimento dei rifiuti, sia stata
annullata, anzi: una ricognizione, seppur
sommaria, dei movimenti di protesta
presenti, prendendo in considerazione quelli
relativi all’apertura di nuove discariche o
alla gestione delle esistenti, o alla
proposta di costruire impianti di
compostaggio e riciclaggio, inceneritori o
termovalorizzatori, ci permette di mettere
in evidenza una conflittualità anche se
contenuta.
Le proteste esistono ma incentrate
prevalentemente sulle questioni legate alle
grandi opere, soprattutto infrastrutturali,
o sui problemi di inquinamento e bonifica
dei siti inquinati7 e questo
atteggiamento potrebbe in parte essere
frutto proprio del tendenziale abbattimento
della quantità di rifiuti smaltiti in
discarica, delle politiche orientate alla
non apertura di nuove discariche, della
quota crescente di rifiuto organico che
viene smaltito negli impianti di
compostaggio anziché finire
nell’indifferenziato rifiuto solido urbano.
Al 2003 gli impianti per il compostaggio di
rifiuto selezionato sono: 56 per il
trattamento dei residui lignocellulosici8
e 3 digestori anaerobici, ai quali si
aggiungono 9 impianti di biostabilizzazione9
e 16 per il compostaggio10,
impianti, questi ultimi, cardine del sistema
oltre che della filosofia del riciclaggio,
che però, presentano talvolta
controindicazioni e alcuni impatti
significativi, dati per esempio dallo
stoccaggio di grandi quantità di rifiuto da
lavorare, odori, traffico di camion per la
raccolta, ecc., che provocano la nascita di
comitati e proteste come accaduto per gli
impianti di Este (Padova), Trevignano e
Lovadina (Treviso). Mentre altre
micro-conflittualità, alcune definitivamente
conclusesi, altre con qualche strascico
giudiziario, si sono registrate su tutto il
territorio regionale nel corso degli ultimi
15 anni.
Alcuni conflitti significativi, tra quelli
che possono definirsi come conclusi (più che
risolti), si sono verificati in presenza di
proposte per la costruzione di impianti di
termovalorizzazione11 considerati
l’ultima frontiera alla soluzione del
problema rifiuti, come nel caso di Dueville
(Vicenza) dove la protesta cittadina contro
l’inceneritore con torcia al plasma,
raccolta dal Comitato Antitorcia, ha
costretto l’amministrazione comunale a
rivedere le sue posizioni iniziali (Giornale
di Vicenza, 30 luglio 2000). Il caso è
abbastanza significativo: il Ministero
dell’industria concede ad una società
privata l’autorizzazione per l’installazione
di un inceneritore al plasma, concessione
che trova immediato accoglimento da parte
dell’amministrazione comunale che rilascia
pareri e autorizzazioni in tempi celeri. La
vicenda ha un iter accelerato sia presso il
comune che la regione, cosa che non stupisce
pensando alla necessità da parte
dell’operatore pubblico di trovare soluzioni
rapide ad un problema pressante, anche se
ciò ovviamente non giustifica la
frettolosità con cui l’operazione è stata
condotta. Inoltre, nel programma relativo
allo smaltimento dei rifiuti la regione
prevedeva la localizzazione di un
inceneritore nell’area vicentina, che
sostanzialmente sarebbe stato di supporto
all’inceneritore di Schio (oramai obsoleto),
alla discarica di Sarcedo12
(chiusa per completamento il 31 dicembre
2004 e per altro anch’essa interessata dalle
proteste dei cittadini costituitisi in
comitato, e tuttora attivi) e la discarica
per rifiuti solidi urbani di Grúmolo delle
Abbadesse. La vicenda dell’inceneritore di
Dueville presentava alcuni punti oscuri,
non solo per la celerità del procedimento
amministrativo, ma anche per la scarsa
sperimentazione di un impianto di questo
tipo, utilizzato nel caso di Dueville, sia
per rifiuti industriali non pericolosi sia
per rifiuti solidi urbani. In questo ultimo
caso, per l’amministrazione comunale
l’operazione costituiva sicuramente la
soluzione ottimale ai problemi del comune:
un impianto sicuro dal punto di vista
ambientale – così nella descrizione fatta da
alcuni tecnici ed esperti – niente scorie e
niente fumi e a costo zero per i cittadini,
insomma all’apparenza una vera occasione che
l’amministrazione ha pensato di cogliere,
non facendo però i conti con la popolazione
e con i timori che impianti di questo tipo
suscitano.
Un altro caso, in parte simile, lo si
riscontra nel trevigiano dove i comitati
Vivere domani di Montebelluna,
Trevignano e Volpago hanno impedito la
costruzione di un inceneritore da parte
della società pubblico-privata Montepower,
che doveva trasformare in energia 135.000
t/anno di spazzatura. In questo caso i
comitati hanno avuto l’appoggio delle
amministrazioni, in Particolare a
Montebelluna, comune nel quale doveva
insediarsi l’impianto e dove sono nati un
comitato di protesta ed una lista civica con
un programma che avrebbe impegnato
l’amministrazione, eventualmente eletta,
contro l’impianto e allo scioglimento della
società Montepower costituitasi
appositamente per la realizzazione
dell’impianto. Così è stato: alle proteste,
all’impegno civico, ai cortei e alle
manifestazioni è seguito l’acquisto da parte
dell’amministrazione comunale di tutte le
quote societarie della Montepower onde
scongiurare una possibile futura
localizzazione di un nuovo impianto (La
tribuna, 20.9.2002; 20.10.2003).
Un conflitto significativo e di forte
impatto, per risposta e coinvolgimento della
popolazione del comune e per le ricadute a
livello politico locale, è stato quello
contro l’ampliamento e l’utilizzo di cave e
discariche esistenti, per il conferimento di
rifiuti urbani, a Sernaglia della Battaglia
(Treviso) a fine anni ’80, comune che si è
visto anche recentemente impegnato contro
una richiesta di stoccaggio di amianto in
un’ex discarica (Il Gazzettino,
3.12.2004); oppure nel rodigino le vicende,
di metà anni ’80, della discarica di
Torretta collocata al limitare del Comune di
Bergantino (Rovigo), dove sorse un
agguerrito comitato di protesta che si batté
contro l’ampliamento della discarica stessa;
nel padovano dove per la discarica di Ponte
San Nicolò (Padova), che fa parte con la
discarica “Vasco de Gama” ed un inceneritore
di un sistema integrato di smaltimento di
rifiuti solidi urbani (Rsu), si assisté
ad una vicenda processuale ancora in corso,
ma anche nel Comune di Limena (Padova) dove
si è costituito, nel corso degli anni ’90,
un comitato prima contro la discarica “Vasco
de Gama” sopra citata e poi contro un
progetto di inceneritore; a Valeggio
(Verona), a fine anni ’90, un comitato si è
mobilitato contro la discarica e la
successiva proposta di risagomatura della
stessa; e per finire nel vicentino dove a
Grùmolo delle Abbadesse (Vicenza) le
proteste sono legate ad una vicenda, dai
numerosi illeciti nell’iter amministrativo,
per la realizzazione di una discarica di Rsu
e speciali assimilabili agli urbani, che
come si legge anche nella relazione della
Commissione parlamentare d’inchiesta
(7.2.2001) sono dovuti alla mancata
osservanza di alcune prescrizioni
autorizzative per i lavori in corso d’opera13.
A questi comitati e proteste serrate sorte
nel corso degli anni, si aggiungono i
dibattiti e le contestazioni che hanno
attraversato e attraversano la regione, con
toni più soffusi su ipotesi,
possibili scelte, proposte localizzative di
impianti, che hanno il pregio di mettere in
evidenza un’attenzione, seppur limitata e
contingente, del cittadino e un monitoraggio
costante e attento da parte delle
associazioni ambientaliste.
Ma il problema resta
Queste esperienze, seppur diverse per
sviluppi politici e coinvolgimento sociale,
evidenziano come i progetti ad alto impatto
ambientale e sociale richiedano che i
cittadini siano informati e che le
informazioni fornite siano chiare,
qualificate e dettagliate: un processo di
cui le amministrazioni coinvolte dovrebbero
farsi carico e in modo corretto e
consapevole (piuttosto che occasionalmente e
marginalmente). La mobilitazione dei
cittadini, infatti, non può sempre ridursi
ad un movimento di mera protesta,
sicuramente utile e proficua quando fa
emergere questioni sottaciute, nebulose o
mascherate come possono essere in parte gli
esempi riportati, ma deve essere in grado
anche di contribuire alla formulazione di
soluzioni alternative che risolvano (e non
spostino) i problemi di carattere ambientale
e sociale. Ne consegue che il cittadino va
posto nella condizione di comprendere la
portata degli eventi, di essere a conoscenza
di ciò che accade, di esprimere un parere
quanto più oggettivo possibile. Invece, le
denunce, anche se non solo per mancanza
d’informazione, hanno spesso il carattere
della protesta contingente che coinvolge
direttamente il cittadino, mentre è
possibile rilevare che quando si tratta di
battersi per questioni altre, più
ampie, che non coinvolgono direttamente le
comunità nella loro circoscritta dimensione
e nei loro interessi prettamente locali, si
produca un generale disinteresse dietro al
quale i più si mettono al riparo. La
sindrome di nimby (not in my
backyard), che esprime chiaramente ed
efficacemente queste forme di coinvolgimento
interessato, suggerisce la dimensione
macro del problema, evidenzia
un’inefficienza tutta politica di gestione
degli interessi locali e di soluzione delle
micro-conflittualità. Ne siano un esempio le
modalità con cui l’ente regionale, da un
lato, tenti di proporre soluzioni, la cui
applicazione non può che creare problemi di
consenso politico a livello locale, ma nel
fare ciò non affronta la questione in
termini diretti, cooperativi e concertativi
con le amministrazioni stesse, un po’ nella
speranza, tutta italiana, che le cose … nel
tempo, si risolvano; dall’altro le
amministrazioni locali troppo prese dalla
soluzione contingente di piccoli o grandi
problemi, sono di rado soggetti propositori
di politiche che partendo dalla scala locale
riescano a coinvolgere l’ente sovraordinato
in una politica complessiva e solutiva.
Esemplificativa in questo senso la scelta
contenuta nel piano regionale per il
recupero e lo smaltimento dei rifiuti urbani
che prevede, come passaggio ultimo nel ciclo
di trattamento e recupero dei rifiuti, la
realizzazione di tre termovalorizzatori14
a servizio rispettivamente delle province di
Belluno-Treviso, Padova-Rovigo e
Vicenza-Verona i cui siti dovranno però
essere individuati dalle province
interessate. Aspetteremo con fiducia il
lavoro delle province al quale seguirà, come
ovvio, la protesta dei comuni coinvolti e il
probabile rallentamento di una qualsiasi
decisione, quando sarebbe molto più proficuo
avviare una campagna di sensibilizzazione e
informazione sul problema, cercando di
individuare criticità e ipotesi di
soluzione, ma soprattutto localizzando a
livello territoriale siti idonei che non
siano il risultato di una pura concertazione
politica ma presentino le caratteristiche
tecnico-fisiche adeguate all’insediamento di
un impianto di termovalorizzazione. Il
territorio, risorsa esauribile, andrebbe in
quest’ottica valutato non solo dal punto di
vista degli impatti ambientali che le
attività antropiche legate allo smaltimento
dei rifiuti hanno su di esso, ma anche dal
punto di vista della compromissione del
paesaggio, delle localizzazioni improprie
degli impianti con inevitabili ricadute
negative dovute a processi non pianificati.
Tale presupposto se inteso come
pre-condizione per l’individuazione di aree
dedicate a gestione e smaltimento di
rifiuti, eviterebbe dal punto di vista
ambientale la compromissione di suolo e
paesaggio, di risorse idriche o corpi
d’acqua superficiali, consentirebbe dal
punto di vista sociale la condivisione degli
obiettivi, faciliterebbe dal punto di vista
economico scelte più vantaggiose.
Una risignificazione dell’azione politica,
attraverso una pianificazione sul lungo
periodo delle scelte e degli obiettivi da
raggiungere, con il supporto di adeguate e
mirate pratiche di partecipazione allargata,
consentirebbe – sulla base dei principi di
sostenibilità ambientale – di affrontare i
problemi legati allo smaltimento dei rifiuti
uscendo dall’ottica dell’emergenza.
Operazione quanto mai necessaria perché, pur
riconoscendo al decreto Ronchi di aver
segnato una svolta importante nelle
politiche di smaltimento, non dobbiamo
dimenticare che la raccolta differenziata
può fare molto (e fa molto!) relativamente
all’abbattimento della quantità di rifiuto
conferito in discarica o incenerito, ma la
progressiva produzione di rifiuti non può
essere arrestata con il solo differenziare:
questo vale per i rifiuti urbani ma
soprattutto per i rifiuti speciali e
pericolosi (pensiamo ad esempio a tutti i
rifiuti tecnologici quali computer,
telefonini, ecc., in continuo aumento) che
richiedono trattamento e smaltimento
specifici. La produzione di rifiuti è
fortemente legata agli stili di vita, solo
un ripensamento del modello di sviluppo in
atto, ad alto consumo di merci e generazione
di rifiuti, ed un orientamento del mercato
alla produzione di merci di più lunga
durata, può aiutare significativamente il
lavoro dell’amministratore pubblico, oltre
che incidere sulle sue scelte, orientandolo
ad una pianificazione attenta, frutto di
politiche condivise, che dia agli obiettivi
concretezza e ai problemi soluzione.
Non solo di discariche o termovalorizzatori
si tratta, bensì di informazione corretta,
di apprendimento collettivo e di politiche
meno distratte.
Note
1
Per una corretta gestione dei rifiuti
l’Unione europea indica quattro parole
chiave che corrispondono ad altrettante fasi
necessarie a risolvere i problemi che
l’aumento della produzione di rifiuti sta
ponendo. Le parole sono: riusare cioè
comprare prodotti durevoli e che abbiano una
vita relativamente lunga; ridurre
cioè contenere l’acquisto di imballaggi;
riciclare ovvero differenziare i rifiuti
per poterli riciclare e infine recuperare
cioè utilizzare le porzioni di rifiuto
residuo per produrre energia.
2
Alcuni dati: i rifiuti urbani sono
circa 2.000.000 di t/anno, a fronte di
rifiuti speciali di circa 8.000.000 di
t/anno, di cui 450.000 t/anno vengono
classificate come rifiuti pericolosi
e 1.850.000 t/anno rientrano nella categoria
dei rifiuti inerti (Corriere del
Veneto, 18.2.2005).
3
Un ringraziamento per le informazioni
relative alla conflittualità locale va ai
circoli regionali veneti di Legambiente e in
particolare ad Angelo Mancone che
gentilmente ha accolto la richiesta e
attivato la rete dei circoli. Ogni errore o
errata interpretazione delle informazioni
fornite è, come ovvio, solo dell’autrice.
4
Nell’anno di entrata in vigore del decreto
Ronchi, la situazione provinciale trevigiana
della raccolta differenziata non era
omogenea; infatti, i tre bacini erano così
articolati: Tv1 44,1%, Tv2 10,7% e Tv3
40,7%, portando la media provinciale al
27,9%. Tale valore, progressivamente
cresciuto negli anni, ha visto nel 1999 la
percentuale salire al 35,4% (rispetto al 15%
previsto dal decreto), nel 2001 al 44,8%
(rispetto al 25% previsto) e nel 2003 al
58,5% (rispetto al 35% previsto). Nel tempo
si è anche assottigliata la differenza
inizialmente esistente tra i tre bacini: nel
2003 il Tv1 ha raggiunto il 57,3%, il Tv2 il
57,5% e il Tv3 il 61,6% (http://ecologia.provincia.treviso.it/stato_ambiente_2004/default.htm).
5
Come si legge nel programma regionale per
la riduzione dei rifiuti biodegradabili da
collocare in discarica previsto all’art.
5 del DLgs 36/2003 di attuazione della
Direttiva Ce 31/1999 “sono già stati
raggiunti gli obiettivi previsti per il 2008
in tutti gli Ato della Regione Veneto. In
più si sottolinea che gli Ato di Padova,
Verona Sud e Vicenza, si sono
contraddistinti per aver già raggiunto, con
largo anticipo quindi sulle scadenze
indicate, anche gli obiettivi al 2011. Da
ultimo va evidenziato che la provincia di
Treviso si è contraddistinta per aver già
raggiunto anche il terzo obiettivo (2018).
In questa particolare classifica la
provincia che presenta la maggiore criticità
è stata Venezia che registra un valore di
Rub da avviare a discarica nel 2002 pari a
223 kg/ab anno. La situazione viene peraltro
recuperata nel 2003 ove la provincia riesce
comunque a recuperare il gap con le altre
amministrazioni provinciali venete sfiorando
in anticipo la soglia individuata dal DLgs
36/2003 e raggiungendo il valore di 159 kg/ab
anno” (Regione Veneto, 2004).
6
Andrebbero fatte analisi puntuali, ad
esempio, sui progressivi cambiamenti e
incrementi nei consumi, sulla produzione di
merci sempre più impacchettate e sigillate,
ma anche sull’introduzione nel mercato di
gamme sempre più varie di prodotti che
accontentano qualsiasi bisogno e desiderio.
Al prodotto un tempo sfuso che si
trovava nel negozio di alimentari e che
consentiva l’acquisto di porzioni anche
ridotte, si sostituisce un prodotto
confezionato sul mezzo chilo, sul chilo, sui
due chili, la bottiglia grande di olio ma
anche quella per il single che ha
consumi contenuti, l’insalata lavata e
quella fatta a strisce, le carote intere ma
anche quelle julienne, il tutto,
ovviamente, conservato in appositi sacchetti
sottovuoto.
7
Un esempio è costituito dall’Assemblea
permanente dei cittadini per il rischio
chimico, attivo sui rischi del polo
chimico di Marghera e sulla necessità di una
chiusura degli impianti, ma che non trascura
una riflessione anche sul destino dei siti
contaminati in genere e sul problema della
loro bonifica
(http://www.margheraonline.it).
8
Sono dislocati in tutte le province, si
tratta di impianti che in genere hanno una
potenzialità inferiore a 1.000 t/anno e che
pertanto non richiedono alti investimenti
tecnologici. Sono una rapida ed economica
via al trattamento in loco degli scarti
vegetali nei periodi dell’anno in cui c’è
maggiore produzione
(http://www.arpa.veneto.it/indice.htm).
9
Impianti che producono biostabilizzato e
frazione secca da avviare in discarica
oppure che raffinano la frazione secca per
la produzione di combustibile derivato da
rifiuti (Cdr). La quantità totale
autorizzata degli impianti veneti raggiunge
le 593.500 t/anno
(http://www.arpa.veneto.it/indice.htm).
10
Ricevono differenti tipologie di rifiuto
selezionate, nel 2003 la potenzialità totale
di trattamento è aumentata per l’avvio di
due nuovi impianti in Provincia di Vicenza
raggiungendo le 692.330 t/anno di
potenzialità totale autorizzata
(http://www.arpa.veneto.it/indice.htm).
11
Le quantità complessive di rifiuto avviate a
termotrattamento e valorizzazione energetica
rimangono per l’Italia molto basse. Il
confronto con i dati europei vede l’Italia
nel gruppo dei paesi che fa meno ricorso a
questa forma di trattamento; la media
europea, infatti, è pari a circa il 19%, con
percentuali intorno al 30% nel nord Europa e
valori più contenuti nell’area mediterranea
(http://www.apat.gov.it/site/it-IT/Temi/Rifiuti/Ge-
stione/L’incenerimento_dei_rifiuti_urbani/).
12
Il Comune di Sarcedo fu interessato, nel
corso degli anni ’90, da una vicenda
giudiziaria che lo coinvolse, insieme ad
altri comuni dell’area, contro la ditta
Corsea. La ditta aveva presentato un
progetto di ampliamento della discarica,
approvato della Provincia di Vicenza, ma
bloccato dall’intervento dei comuni contrari
all’ampliamento anche per la localizzazione
della discarica in zona di ricarica degli
acquiferi.
13
Oppure, a inizio 2004, le proteste e la
costituzione di un comitato contro
l’impianto di riciclaggio di pneumatici
previsto nel Comune di Piove di Sacco,
oppure, sempre per rimanere in tema di
rifiuti speciale, le vicende legate alla
richiesta di ampliamento della discarica in
località Ca’ di Capri a cavallo tra i Comuni
di Verona e Sona, che ha visto il comune,
Legambiente Verona e un comitato di
cittadini chiedere al Tar, con separati
ricorsi, l’annullamento della delibera
regionale, in quanto, la variante avrebbe
trasformato la discarica da tipo B a tipo C,
senza preventiva valutazione di impatto
ambientale, consentendovi quindi il
conferimento di rifiuti speciali pericolosi.
14
Al momento la regione conta 4 impianti per
incenerimento e termovalorizzazione di
rifiuti urbani, ospedalieri e Cdr. |