Numero 10/11 - 2005

 

Il territorio rifiutato  

 

Area Vasta n. 10/11 Luglio 2004 - Giugno 2005 Anno 6

numero 10/11  anno  2005

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In copertina Lello Lopez,

Da lontano, 2004

acrilico su tela, cm 40x30.

Fotografia di Vince Gargiulo

 

ISSN 1825-7526

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Abitare ai margini. La periferia tra minacce ambientali e questione identitaria


Daniele Virgilio


 

Numerose e multiformi minacce assediano lo spazio abitativo della periferia urbana e ne contaminano i caratteri ambientali. In tali luoghi, la distanza dal centro misura la progressiva e crescente assenza dell'idea di città. Daniele Virgilio esamina il caso della periferia della Spezia, quale emblematico delle condizioni abitative nei territori di margine, soffermandosi sul ruolo della pianificazione istituzionale e dei grandi progetti. Si aprono ipotesi di scenari possibili basati su un sistema complesso di interventi di piccola dimensione da affidare ad una pluralità di soggetti

 

 

Un inventario di minacce ambientali

 

“Un buon insediamento”, scriveva Kevin Lynch, “è quello dove non compaiono rischi, veleni, malattie o, se esistono, sono sotto controllo e dove è molto esiguo il pericolo di poterli incontrare: un insediamento in cui è garantita la sicurezza fisica” (Lynch, 1990). Il caso della periferia della Spezia1 pone alcune questioni emblematiche dell’abitare nei territori di margine, la cui quotidianità è definita da una coesistenza di lunga durata con minacce ambientali. Uscendo dalla città lungo l’Aurelia, superata la soglia simbolica del cimitero, cui si affiancano il vecchio mattatoio e il depuratore fognario – “le cose scartate vengono spostate ai margini della società”, scriveva, altrove, Lynch (1992) – ecco il riferimento territoriale della periferia: la ciminiera della centrale termoelettrica, parzialmente alimentata a carbone. Il raccordo autostradale, la strada del porto, il traffico, i piazzali e i containers del porto, la zona industriale, il nastro della ferrovia. Laggiù le discariche sfasciano i fianchi della collina, intossicandone la terra. Poco lontano, il carbodotto, i carbonili, i bacini di lagunaggio per le ceneri della centrale. Un insieme di elementi che, posti in contiguità ambientale con lo spazio abitativo, produce le condizioni di un’identità costantemente minacciata. Territori lontani, non solo in termini di distanza geografica, dal “periferico mondanizzato” (Mello, 2002), dall’euforia seminomade delle megalopoli, dall’atmosfera rassicurante di deresponsabilizzazione in cui si è avvolti nel consumo degli shopping centers. Un inventario di minacce che premono ai margini dello spazio abitativo della periferia urbana, si insinuano pervasivamente nei luoghi della vita quotidiana, ne contaminano i caratteri ambientali, ne sovrastano la percezione, ne intridono la corporeità e i valori simbolici. Al margine della città i caratteri dell’urbano ridefiniscono una dimensione loro propria, una diversità, prima ancora che una possibile forma di città. Qui ha ancora senso parlare di periferia: nonostante la dissoluzione dello spazio euclideo nella metropoli contemporanea abbia deprivato di senso le più elementari contrapposizioni deittiche alla base della percezione e dell’appropriazione dello spazio, unificando il vicino e il lontano in “un’equivalenza indefinitamente moltiplicata delle direzioni e delle circolazioni, di cui l’abitazione è solo un corollario” (Nancy, 2002), nonostante marginalità e periferia non siano concetti sempre deterministicamente associabili, in questi luoghi la distanza dal centro è un carattere su cui si misurano fisicamente differenze strutturali. Il contatto con gli elementi rifiutati, con le polveri, i fumi, i rumori, i sussulti, le agonie, i detriti della metropoli industriale, la cui incombenza impone una costante convivenza e ibridazione del quotidiano tra creazione e scarto, tra vitalità e morte, determina una condizione di grado zero, una tabula rasa dell’urbano. Una condizione in cui l’assenza o la debolezza dell’idea di città invita a sperimentare una sua nuova codificazione induttiva, a partire dai frammenti, dai deboli, balbettanti indizi di vita che l’ambiente abitativo continua a opporre alle immagini delle occupazioni produttive, pervasive e soverchianti.

 

Figura 1 - Ipotesi progettuale per l’unità abitativa “Termo/Pianazze”, La Spezia*

 

Minacce ambientali e identità abitativa

 

Entrando nella realtà abitativa di questi luoghi – abbandonate, per un momento le ansie progettuali, le riduzioni descrittive fatte di immagini unificanti, le figure retoriche disciplinari – è possibile disvelare, con i modi di una “fenomenologia timida e stupita nei confronti del mondo” (La Cecla, 2000), realtà inattese, dipanando pazientemente la trama minimale dei segni e dei significati che gli abitanti imprimono ai loro spazi – anche a quelli più derelitti – attribuendo loro un senso, e cominciare a interrogarsi sul significato di città, a partire dai margini più deboli e lontani. L’identità è, più che mai in periferia, un valore che trema, un’entità labile e sfumata, perennemente instabile, ma che ritrova spesso le ragioni della propria definizione nella contrapposizione – più o meno autocosciente – ad un’alterità ostile2 (Bachelard in Paba, 1998; Remotti, 1996). Il ruolo delle minacce sembra infatti determinante nel suscitare il riemergere del senso di autoidentificazione delle comunità insediate, nel ricomporre una possibile continuità tra uomini e luoghi, nel riconoscere e nel rendere più evidenti attraverso sporadiche forme di autoespressione conflittuale le trame latenti di un’appartenenza lacerata. Nell’identificare – paradossalmente – la persona olistica di una parte di città che vive ed ha vissuto la propria vicenda storica in funzione della propria alterità sia nei confronti dello scarto da cui è assediata, sia nei confronti della città lontana. La cifra di un’appartenenza la ritrovi a volte nel nome del luogo, (“Pianazze”, “Melara”, “Termo”, “Valdellora”) ridisegnato con la vernice su un muro o su un lenzuolo attaccato ad una rete per maledire l’ennesima aggressione al proprio campo di esistenza, oppure in un’epigrafe che ricorda un frammento di “Fossamastra quando era bella”, prima della catastrofe portuale e della successiva, non meno cruenta, coabitazione di porto e abitazioni. La storia di questi luoghi sembra inscritta nell’autodifesa dalla pervasività delle occupazioni produttive, una lotta contro l’entropia in cui ogni margine di radicamento diventa lo spazio per l’affermazione di una dolente presenza di vita. Dal punto di vista di chi tenti di analizzarla, l’identità, parafrasando La Cecla, se osservata con gli strumenti della conoscenza tradizionali, si comporta come “un’anguilla che sfugge a facili trappole” (La Cecla, 2000), labile come acqua alle reti delle tassonomie e delle misurazioni: è avvicinabile solo grazie all’ascolto paziente e compassionevole delle pratiche della quotidianità e dei loro spazi piuttosto che rappresentabile come costrutto di un’individualità di lunga durata, prodotto di un vincolo ereditario (Decandia, 2000) a supporto di un’idea latente di comunità. Se cerchiamo un’identità nella periferia, non possiamo trovarla utilizzando le metafore comprensive con cui sono state descritte le forme dei margini e della dispersione urbana parlando di frange, pulviscolo, filamenti, bande, nebulose, polveri, galassie. È necessario “il disprezzo della propria presbiopia” (La Cecla, 2000), apprendere dall’interno del mondo, abbracciando la visione dell’abitare, della “serie innumerabile di singolarità” (De Certeau, 2001) che imprime indizi e segni nella piccola, a volte piccolissima dimensione dei propri spazi, senza rinunciare per questo a riconoscerne un’organizzazione e a cercarne una sintesi rappresentabile, anche dove la città sembra un informe materiale di risulta. La vita in periferia è ridotta alle sue funzioni basiche, è un “luogo brutto, inquinato e tuttavia tollerante” (Lynch, 1992) in cui più nuda – forse anche più decivilizzata (Consonni in Leotta, 2000) – è la prassi di una sopravvivenza più o meno condivisa, in cui lo spazio abitativo continua un’opposizione talvolta rassegnata, infiltrandosi e resistendo inesorabilmente alla occupazione dissipativa dello spazio, tenendo in vita le sue strutture di urbanità minimale e i suoi riferimenti simbolici.

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Questa condizione sembra appartenere intrinsecamente alla stessa definizione di periferia come “area di vera e propria subordinazione funzionale, nella quale la vita urbana è limitata alle attività elementari” (Piroddi, 2000). In questo essere limitata alle attività elementari la vita urbana (i suoi spazi, le sue forme, i suoi labili indizi), se osservata da vicino, sembra meglio rivelare alcune delle sue ragioni essenziali, e consente di interrogarsi in modo più radicale sul senso della città. Sullo sfondo di questa condizione di caotica eterogeneità, di violento conflitto in cui convivono giustapposte diverse scalarità e diversi significati (l’autostrada e la piccola chiesa di quartiere, l’orto e la ciminiera), un unico flusso sembra avvolgere differenze temporali, culturali e ambientali ancora discernibili, è possibile, dunque, tentare una ricostruzione di senso, esplorare una decifrabilità degli elementi in cui non è apparentemente riconoscibile una struttura di significato: dall’edificio storico alla palazzina contemporanea, dal paesaggio rurale alla discarica, dal piccolo monumento domestico al writing, dal circolo ricreativo al capannone industriale, dalla fila di sedie nel cortile alla scuola che fa anche da centro sociale, dall’auto abbandonata alla villetta con giardino. Nel rumore che emerge dallo spazio abitativo come risultante di questo brusìo fatto di corpuscolari differenze – invisibili allo sguardo nomadico del city user o di una interpretazione cartografica – è possibile ricostruire, guardando internamente la sfera dell’abitare, un inventario degli elementi che costituiscono un’ipotesi di ecosistema abitativo e fare emergere le discontinuità e le differenze che sono intrinseche alle loro organizzazioni spaziali.

 

 

Struttura della città di margine: un inventario di elementi dell’abitare

 

Raccogliendo i frammenti a partire dallo sguardo quotidiano, si scopre un senso minimale, la presenza – anche in una condizione di assoluta debolezza, di mancanza dell’urbano – di una forma di organizzazione elementare (Viganò, 1999). Ci sono fenomeni, nei margini della città, che ricorrono a distanza insieme con i loro legami di prossimità e di reciprocità dati dall’uso abitativo, che sono tenuti insieme da una relazione centro-confine, ragione costitutiva dell’abitare (La Cecla, 2000). Questi elementi e la loro interazione debole rendono possibile riconoscere la trama sottile del luogo, le sue regole organizzative interne, ed è possibile rappresentarne la struttura complessa. Si distinguono gli spazi racchiusi, cortine edilizie continue o a elementi ravvicinati prospicienti un percorso pubblico principale in cui più densa è la presenza di edifici storici, ai cui piani terra si collocano le attività commerciali essenziali. Sono piccoli noccioli di urbanità (Choay in Piroddi, 2000) che costituiscono minuscole centralità locali, immerse nel pavillonsystem residenziale e produttivo. Le strade che attraversano questi spazi ne costituiscono l’asse morfologico, orientandoli nel territorio. Vicino questi piccoli centri si dispongono i quartieri pianificati del dopoguerra, ben riconoscibili per la particolarità del rapporto tra spazio costruito e spazio aperto, e per il loro paesaggio interno, universo di codici domestici. C’è sempre una chiesetta, una scuola, un circolo, edifici che rappresentano, anche a livello simbolico, la dimensione collettiva dell’abitare. Si percepiscono soglie e confini. Alcuni sono confini fisici (un rilevato, un ponte …), altri sono confini più “soffici” (Lynch, 1964) e ambigui, transizioni quasi impercettibili fatte di mutamenti di giaciture, attenuazioni di gradienti di centralità … Compaiono le tracce materiali della socializzazione: un campo di calcio, una bocciofila, ma anche soltanto due panchine divelte e ricollocate a formare un angolo di conversazione. C’è sempre un piccolo monumento: un’epigrafe, un’effigie sacra … segni minimi di una “sfida all’entropia” (Choay in Decandia, 2000). Compaiono, nelle indicazioni toponomastiche, i nomi dei luoghi, “i solchi di un’appartenenza reciproca” tra gli uomini e i loro spazi di esistenza (La Cecla, 2000). Gli stessi nomi compaiono nelle pratiche del writing per segnare la contrapposizione alle minacce ambientali: stendardi illegali di un’identità che risignifica la propria denominazione per esprimere conflittualità verso l’omologazione e verso l’alterità delle minacce, opposizione di un simulacro di comunità all’occupazione distruttiva del territorio. Si incontra sempre un corso d’acqua, talvolta sotto forma di torrente, di fogna a cielo aperto, di rigagnolo sfuggito ai tombinamenti, residuato di una modernizzazione incompleta (Macchi, 2001).

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Sono sempre presenti i residui della ruralità, schegge di paesaggio culturale immerse nei terraines vagues. Sono resistenze di diverse temporalità che convivono nello spazio abitativo della contemporaneità, testimonianza di una progettualità domestica, del persistere della necessità di una differenziazione interna allo spazio abitativo, espressione di un non finito permanente, essenziale alla vitalità dell’abitare.

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Sono sempre visibili piccole aree verdi, giardini, parchi di quartiere. È sempre presente qualche elemento esterno alla dimensione abitativa (ad esempio la ciminiera stessa dell’Enel), che costituisce il riferimento percettivo della dimensione territoriale, la referenziazione in un dove della dimensione abitativa locale. Tutti questi elementi, combinati in diverse forme, compaiono ripetutamente insieme nelle varie parti della periferia. La loro ricorrenza, cadenzata dalla relazione centro-confine, permette di rappresentarli come regole costitutive, comun denominatore di piccole organizzazioni alla scala del piccolo quartiere, facendo affiorare, nell’indistinto della conurbazione periferica, un sistema di possibili piccole città, entità molteplici che scompongono in identità multiple e complesse la periferia (Colarossi, 2000 e 2002; Fratini, 2000; Piroddi, 2000; Paba, 1998; Magnaghi, 2000). Da questa lettura ad altezza d’uomo, che include fenomeni non sempre cartografabili, è possibile rintracciare nei comportamenti di autorganizzazione e di rappresentazione quotidiana dello spazio le tracce di una presenza umana che, anche quando la conflittualità è sopita in una sorta di ammutolita condivisione del deperimento con i territori rifiutati, non arretra di un metro nei confronti dell’invasione produttiva dei territori.

 

 

Il ruolo della pianificazione istituzionale e dei grandi progetti

 

Come si misurano piani e progetti urbanistici con le minacce? Prevedendo conversioni e rigenerazioni di aree, interventi di bonifica, recupero ambientale, mitigazione e compensazione, individuando strategie che assecondano l’ottica comprensiva, le ragioni di uno sguardo unitario e gerarchico della grande città e del territorio, non ponendo in discussione le istanze dello sviluppo produttivo; prefigurando, di fatto, il disegno di grandi trasformazioni che ricompongano, compatibilizzando gli scenari di espansione, le conflittualità tra produzione e sistema abitativo e ambientale, potenziando – in particolare per la ridefinizione del rapporto città/mare – il settore turistico/diportistico. Lasciando sullo sfondo le forme dell’abitare locale, il cui disegno e la cui complessità semantica non sempre compaiono – sono troppo piccoli e deboli – nelle visioni dei grandi progetti3. La dimensione abitativa locale – pur presente e coinvolta nei processi decisionali grazie all’attivazione del piano strategico4 – resta nelle visioni urbanistiche dei progetti di trasformazione una condizione di sfondo, da tutelare, ma di cui non sembrano trovare sufficiente spazio di espressione le ragioni di una autonomia creatrice, le potenzialità evolutive di autoorganizzazione, misurabili e interpretabili solo attraverso uno sguardo ad altezza umana, capace di integrarsi con la piccola dimensione. Il piano provinciale5 affronta il tema della compatibilizzazione dello sviluppo industriale, portuale e non, attraverso indirizzi di riqualificazione delle aree produttive tramite attrezzatura ecologica, di riconversione di aree produttive dismesse verso usi urbani e riqualificazione dei quartieri urbani, di recupero di siti degradati. Indicando, in un caso, la rilocalizzazione in periferia di impianti particolarmente impattanti attualmente collocati in aree ambientalmente sensibili, e suscitando, con ciò, la reazione degli abitanti. La liberazione di un bacino portuale in fase di dismissione e l’espansione del porto verso il levante urbano – secondo un deterministico principio di reciprocità compensativa, per il quale tutte le superfici sottratte all’impiego del porto commerciale per sviluppare funzioni urbane devono essere riconferite nella medesima misura al porto – permetterà la ridefinizione del nuovo waterfront della città, polarizzandone la parte centrale su funzioni turistiche e diportistiche, ridimensionando, asportando e rilocalizzando l’affaccio a mare e i piccoli approdi (le marine) dei quartieri periferici. Le ragioni della trasformazione partono dal centro, e il destino storico – per quanto condiviso e compatibilizzato – della periferia come oggetto subordinato delle esternalità della rigenerazione delle aree centrali, sembra permanere. Gli elementi di sostenibilità per le aree periferiche del levante vengono codificati dalla pianificazione nel trasferimento degli spazi di movimentazione del retroporto verso aree esterne al comune e la loro trasformazione in un distretto produttivo legato alla cantieristica per il diporto, con l’individuazione di interventi di mitigazione (come la fascia di rispetto) e la previsione di una nuova centralità urbana, la riambientalizzazione di aree con verde e piste ciclabili.

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La trasformazione del retroporto, in particolare, prevede la realizzazione di una darsena interna6 nelle vicinanze del quartiere di Fossamastra, quello che, storicamente, più ha subito la pressione ambientale delle aree portuali. La darsena, insieme con la delocalizzazione degli approdi, si pone come elemento cruciale per permettere l’espansione del porto verso levante perseguendo un’ipotesi di affaccio a mare del quartiere e un’opportunità produttiva: una protesi di mare introiettata nel corpo del territorio urbanizzato, oltre ad un approdo decentrato rispetto ai quartieri, per lo sviluppo di attività di minore impatto e di intensa occupazione. Complessivamente, il rapporto con le minacce ambientali sembra tradursi, a fronte di una irreversibilità delle scelte di espansione produttiva assunta come premessa, in un disegno di trasformazione coerente con la grande dimensione della città. Restano come sottointese, silenziose, le più fragili, molecolari trame dello spazio dell’abitare.

 

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Scenari possibili

 

“Non ci sono terre pure e terre impure di per sé: la differenza sta unicamente nella bontà o malvagità della nostra mente” (Nichiren Daishonin, Gli scritti, IV, 1255).

L’ipotesi ambiziosa che vorremmo sperimentalmente prendere in considerazione nel difficile tentativo di costruire una proposta percorribile, è quella di spostare l’attenzione dalle opportunità offerte dai grandi progetti al più difficile perseguimento di un rafforzamento endogeno dei caratteri identitari del territorio abitativo per trovarne le ragioni di una possibile autorigenerazione. Uno scenario da costruire integrando la grande con la piccola dimensione (Colarossi, 2002), lavorando soprattutto dall’interno per riscattare le sofferenze del territorio abitato della periferia, avendone appreso ragioni e razionalità. Risvegliare le risorse, materiali e morali, dello spazio abitativo, senza prescindere dagli aspetti controllabili attraverso i dispositivi tradizionali del planning, ma integrandoli con quegli elementi che non possono che restare indeterminati, non rappresentabili né prefigurabili attraverso lo strumentario convenzionale, e che solo l’abitare come pratica progettuale (La Cecla, 2000) può concorrere a costruire. Riutilizzando le parole di Giovanni Ferraro, “la parola con cui Geddes dice tutto questo è Karma, parola che misura la distanza che ormai lo separa dal progetto scientifico positivista e dal suo linguaggio. Karma è l’intrico labirintico, spesso inestricabile, di cause ed effetti, il coagulo mobile manifesto in ogni isolato che la pazienza della survey si sforza di sciogliere nell’interpretazione. (…) è il cattivo Karma della città, più spesso il miscuglio di bene e di male che richiede di essere valutato nel suo dettaglio vivente. E soprattutto sul Karma si può agire. Risvegliandosi dalla sua ferrea necessità, i cittadini possono riacquistare coscienza di sé e delle proprie possibilità di plasmare il Karma della loro città e quindi di loro stessi”. (Geddes in Ferraro, 1998) Il cuore di questa ipotesi cerca di spostare l’attenzione dai singoli progetti emergenti, dalle singole azioni di mitigazione e di compatibilizzazione (assunte, talvolta, come auspicate e necessarie), verso il sistema di relazioni che tiene in vita la dimensione locale dell’abitare in periferia, rappresentata dalle molteplici unità locali, dalle “piccole città” (Colarossi, 2000 e 2002).

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Ciò che rende vivente tale modello è la relazione di reciprocità, sostenuta dall’azione quotidiana degli abitanti, che ciascun elemento semplice di ogni microsistema locale intrattiene nella sua vicinanza e coesistenza con le altre parti. La struttura di questi piccoli sistemi di città può diventare simulacro di orientamento per un sistema complesso di interventi di piccola dimensione da affidare ad una pluralità di soggetti. Lo scenario che ne può scaturire nasce dall’articolazione, in chiave progettuale, di ciascuna delle componenti elementari di ogni piccola unità: consolidare le piccole centralità locali, iniettandovi insediamenti, spazi e funzioni aggreganti; recuperare le connessioni fruitive interne tra gli elementi, rafforzandone la coesione reticolare; potenziare gli spazi pubblici che possono favorire socializzazione e identificazione collettiva, anche riutilizzando edifici dismessi; rafforzare e ricucire la trama fine delle reti ambientali di piccola scala; sostenere e incentivare la cura dei frammenti di ruralità; lasciare pagine bianche (Zevi, 1992) di indeterminazione nelle aree della naturalità residuale; orientare il recupero dell’edilizia pubblica e degli spazi aperti di vicinato al principio della manutenzione urbana piuttosto che a sostituzioni pianificate (Piroddi, 2003; Virgilio, 2004a). L’enfasi non è da porre sulle singole prefigurazioni, né sul programma che dalla loro sommatoria può essere generato, quanto piuttosto sul processo complessivo – che potrà avere localmente diverse connotazioni procedurali, potrà confrontarsi con soggetti e livelli istituzionali diversi e potrà sortire assetti spaziali mutevoli – nella consapevolezza che una molteplicità distribuita di interventi di riqualificazione possa superare in importanza e in efficacia una sola grande trasformazione (Geddes, 1904). Una strategia della debolezza e del minimo progetto, che richiede tempi lunghi e uno sguardo utopico e rovesciato rispetto a quello delle grandi trasformazioni, pur condividendone l’obiettivo di rigenerazione e riconoscendone, in alcuni casi, l’imprescindibilità. Deve accompagnare questo processo una visione empirica, orientata all’efficacia “immediata e graduale”, che cerca di stabilire “soluzioni locali immediate, anche minime, senza rinviare ogni volta alle soluzioni globali”, assecondando una traiettoria che si sviluppa “da inizi modesti a migliorie più ampie, rese in questo modo più semplici e meno costose” (Geddes in Ferraro, 1998). L’ipotesi assunta sotto il profilo teleonomico è che solo operando a partire dalla continuità e dalla progressione unitaria delle azioni si potrà conseguire un rafforzamento endogeno dell’identità di questi territori, per rendere più intensi gli effetti degli interventi pianificati di rigenerazione. Il valore della continuità si esprime in una qualità diffusa “quella che gli abitanti (i cittadini) stabiliscono nei ritmi del vivere quotidiano all’interno di spazi della città, che si misura nella ricchezza dei rapporti che legano i molteplici aspetti dell’ambiente urbano, che si determina con le pratiche dell’abitare. (…) Essa non è legata a progetti di grande dimensione o a eventi urbani eccezionali, ma si ispira ai principi dell’ordinaria manutenzione urbana (e territoriale)” (Besio, 1999). Tutto ciò implica la necessità di mettere in atto una strategia non deterministica, in grado di accogliere al proprio interno anche margini di incertezza, e – allo stesso tempo – la capacità di operare contemporaneamente all’interno e all’esterno delle situazioni, per non perdere di vista, in ogni caso, la coerenza della piccola con la grande dimensione, mettendo a sistema la pluralità di comportamenti – in atto e potenziali – inscritti negli spazi dell’abitare che trovano forza non solo in una riqualificazione proposta dall’alto, ma nella capacità di costruire un legame di cura tra uomini e luoghi.

 

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Note

 

1 Il presente contributo si sviluppa a partire dall’esperienza di collaborazione al piano urbanistico comunale della Spezia (adottato nel luglio 2000 ed entrato in vigore nel giugno 2003) i cui consulenti generali sono Luciano Pontuale e Federico Oliva, e da una tesi di dottorato in Tecnica urbanistica presso l’Università di Roma “La Sapienza”, dal titolo “Unità locali nella periferia urbana come organizzazioni viventi: il caso della Spezia”.

2 Giancarlo Paba ci ricorda – citando le esperienze di Sacks – che l’identità è perennemente una condizione da riconquistare, non uno stato permanente (Paba, 1998). L’identità non è reificabile, non è univocamente definibile e rappresentabile, è, piuttosto, “un’area di condivisione sempre parziale e mai definitiva, con vuoti, crepe e discrepanze interne, con confini labili e sfumati”. Identità e alterità sono valori perennemente in bilico, carichi di ambivalenze e ambiguità (Remotti, 1996).

3 Il piano urbanistico comunale – grazie soprattutto alla consulenza di Luciano Pontuale – sembra in questo compensare l’attenzione verso le forme dello spazio della piccola dimensione, riconoscendo nel sistema delle preesistenze storiche (la città fino all’immediato dopoguerra) gli oggetti e i valori di una puntuale tutela.

4 Il piano strategico della Spezia (prima fase: 1999-2001; seconda fase: 2003-2004), coordinato da Roberto Camagni, ha attivato un processo di partecipazione della società locale e di coinvolgimento diretto dei cittadini nelle scelte pubbliche, giungendo, in qualche caso, anche all’apertura di laboratori di quartiere. Un ulteriore fattore di coinvolgimento della comunità locale sulla questione ambientale è rappresentato dall’attivazione del processo di Agenda 21 locale, su cui sono imperniati i lavori della commissione ambiente del piano strategico.

5 Il piano territoriale di coordinamento della Provincia della Spezia è stato adottato con delibera del Consiglio provinciale n. 32 del 22.3.2002; Consulenti: Caire scrl – Ugo Baldini, coordinatore: Arch. Claudio Luigi Bertolini.

6 La trasformazione dell’area retroportuale del Levante spezzino con l’individuazione di un nuovo distretto nautico e della relativa darsena è stata prefigurata nel Piano d’area degli ambiti territoriali del Levante redatto dallo studio Federico Oliva Associati nel 1999 e recepito dal piano urbanistico comunale.

 

* La Figura 1 si riferisce ad una ipotesi progettuale per l'unità abitativa "Termo/Pianazze" nell'estrema periferia spezzina. Consolidare la piccola centralità, iniettandovi funzioni aggreganti; recuperare le connessioni fruitive interne tra gli elementi, rafforzandone la coesione reticolare; potenziare gli spazi che possono favorire socializzazione e identificazione collettiva; rafforzare e ricucire la trama fine delle reti ambientali di piccola scala; sostenere la cura della ruralità; lasciare pagine bianche di indeterminazione nelle aree della naturalità residuale; orientare il recupero dell'edilizia pubblica e degli spazi aperti di vicinato al principio della manutenzione urbana.

 

Le immagini da 1 a 8, scattate negli anni tra il 2000 e il 2004 nella periferia di La Spezia, e l'elaborazione scenariale sono di Daniele Virgilio.

 

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