Considerazioni ulteriori sulle tesi discusse
nella 2ª Conferenza nazionale del Territorio
(Caserta, 12-13-14/6/2004)
È convincimento molto diffuso, tra gli
studiosi di conflitti ambientali1,
che sempre più spesso e con crescente
intensità vengono suscitati da decisioni
inerenti la localizzazione di attività e
opere pubbliche e/o di pubblico interesse,
che gli stessi conflitti possano essere
ridotti significativamente e ben risolti
quando insorgono, solo tramite la
negoziazione delle politiche che generano
quelle decisioni contestate e la possibilità
di impiegare risorse aggiuntive in funzione
compensativa di impatti (sociali,
ambientali, economici e
urbanistico-territoriali), comunque di
esternalità negative, e come accompagnamento
della realizzazione delle opere. Questa
ultima strada è stata tentata con la legge
166/2002 che prevedeva un fondo ad hoc,
ma le carenze di risorse hanno per ora reso
ineffettuale tale previsione.
E ciò anche – per quanto possa apparire
singolare – per quello che riguarda i
conflitti interistituzionali. Quelli cioè
che vedono coinvolti soggetti istituzionali:
lo Stato, le regioni, le province quando
competenti, le città metropolitane
(previste, ma di fatto ancora non istituite)
e i comuni.
La dimensione del conflitto può variare in
ordine alle caratteristiche dell’ambiente
interessato, in ordine cioè al rilievo della
componente sociale, ai suoi valori di
naturalità o economici e alla natura delle
attività e opere da localizzare, spesso
indipendentemente anche dalla entità degli
impatti negativi (diretti o indiretti).
Il presupposto della negoziazione è
ovviamente che le decisioni vengano prese
per mezzo di politiche esplicite, come tali
ben definite per quanto riguarda obiettivi,
strumenti, risorse e responsabilità. E
subito dopo che esistano istituti e sedi per
poter operare la negoziazione2.
Come noto in Italia il problema di tale
conflittualità interistituzionale, che era
latente da tempo, si è manifestato con
evidenza con la nascita delle regioni a
statuto ordinario e la attribuzione loro di
poteri in materia urbanistica. Si deve
risalire al 1971-1972.
Ma è solo nel 1977, con l’emanazione del Dpr
616/1977 artt. 81 e 82 soprattutto, che la
materia ha avuto una più compiuta
definizione, con la introduzione della
procedura di conformazione delle opere ai
piani urbanistici comunali, di concerto con
le regioni interessate. Procedura
successivamente integrata (Dpr 383/1994,
Regolamento recante disciplina dei
procedimenti di localizzazione delle opere
statali), previa l’introduzione dell’intesa
Stato-Regione da realizzarsi per mezzo della
conferenza dei servizi, istituto anch’esso
nel frattempo introdotto nell’ordinamento e
più volte modificato.
Facevano eccezione solo le opere delle
Ferrovie dello Stato: la legge istitutiva
dell’ente Fs (legge 210/1985) aveva infatti
invertito il rapporto proponente autorità
territoriali, mettendo al primo posto i
comuni e, in posizione secondaria, le
regioni. L’intento del legislatore,
certamente condivisibile in astratto, era
quello di aumentare il potere contrattuale
dei comuni, in specie dei piccoli, e così
migliorare la loro partecipazione nei
processi decisionali e quindi l’esercizio
della democrazia.
Di fatto però diventava praticamente
impossibile progettare un tracciato,
operazione già di per sé complicata tenuto
conto dei vincoli morfologici tipici del
territorio nazionale e di quelli tecnici
propri delle opere ferroviarie, molto rigidi
come noto, dovendolo negoziare con ogni
comune interessato da una linea ferroviaria.
Con una legge successiva – resasi necessaria
dopo l’iniziale esperienza di negoziazione
dei progetti di rete ad alta
velocità/capacità che è risultata molto
onerosa per l’ente Fs e quindi per la
collettività nazionale – le opere
ferroviarie sono rientrate nell’ambito della
procedura generale.
Il bilancio dell’applicazione del Dpr
616/1977 e del successivo Dpr 383/1994 è
stato, tutto sommato, abbastanza positivo.
Pochi sono stati infatti i casi di ricorso
ai poteri sostitutivi della Presidenza del
Consiglio dei ministri, istituto previsto in
caso di contrasto con le regioni.
Le criticità maggiori si sono riscontrate
quando i conflitti o direttamente il
contenuto delle decisioni riguardava la
materia dell’ambiente. Le direttive
comunitarie in genere e quelle inerenti le
procedure di valutazione d’impatto
ambientale in particolare, nel frattempo
intervenute (Ce 85/337), avevano infatti
introdotto, seppure in misura abbastanza
debole, obblighi in materia di informazione
e partecipazione del pubblico nei processi
decisionali.
Ma i problemi di fondo della informazione,
della comunicazione e della partecipazione
del pubblico alla presa delle decisioni,
rimanevano ancora abbastanza nell’ombra. E
neanche la legge 241/1990 di riforma del
procedimento amministrativo ha modificato
significativamente la situazione. Si è di
fatto continuato con il ritenere che non
fosse necessario definire politiche e
negoziare la loro costruzione con i vari
soggetti coinvolti.
Di conseguenza neanche la predisposizione di
adeguati istituti di negoziazione è stata
ritenuta degna di attenzione: la possibilità
del ricorso ai poteri sostitutivi della
Presidenza del Consiglio dei ministri era
considerata evidentemente sufficiente per
dissuadere dal sollevare e, una volta
esplosi, dirimere i contrasti.
In questo modo tutta la materia delle
decisioni di localizzazione mantiene una sua
impronta autoritativa e molto scarso è lo
spazio della partecipazione del pubblico,
sempre più in controtendenza rispetto alle
esperienze internazionali e allo stesso
diritto comunitario oltre che con il
processo di decentramento dei poteri in
corso anche in Italia.
È stata la configurazione d’un primo
programma di opere (delibera Cipe del 21
dicembre 2001, n. 121, in applicazione della
legge 443/2001, anche detta legge
obiettivo), abbastanza definito, almeno
rispetto alla vaghezza dei precedenti
documenti analoghi (piani di settore,
libri bianchi, intese Stato-regioni,
ecc.), e la quasi contemporanea entrata in
vigore della legge costituzionale 3/2001 a
far emergere il problema, manifestatosi ad
un tempo con i ricorsi alla Corte
costituzionale da parte di alcune regioni
contro la legge obiettivo e i decreti
attuativi della stessa, ritenuta
notevolmente imperativa, e con l’esplosione
di forti conflitti in materia di decisioni
di localizzazione delle opere previste. Il
più noto dei quali è quello che riguarda il
completamento dell’itinerario autostradale
tirrenico.
Ma altri non meno significativi vedono
contrapposti lo Stato con alcune regioni o
queste ad alcuni comuni3. Oggetto
di contenzioso sono infatti pressoché tutte
le decisioni in materia di localizzazione di
opere lineari, di centrali di produzione di
energia elettrica – tanto che per queste si
è dovuto predisporre un decreto ad hoc,
il cosiddetto sblocca centrali – di
smaltimento dei rifiuti, ecc.
Il legislatore italiano per risolvere il
problema sembra confidare soprattutto nella
definizione d’un assetto istituzionale
chiaro ed efficace a livello generale,
basato sulla attribuzione di funzioni. Dopo
il tentativo fatto con la legge
costituzionale 3/2001 che attribuiva le
funzioni in forma esclusiva e insieme
concorrente, sembra che oggi si vogliano
ripartire più nettamente tali attribuzioni
collocando le opere pubbliche statali nel
dominio della legislazione esclusiva cioè
nella competenza esclusiva dello Stato,
mantenendo però anche il principio della
legislazione concorrente.
Il problema non è di semplice soluzione.
Neanche il concetto di preminente interesse
nazionale sembra infatti poter giustificare
una piuttosto forte attenuazione del potere
regionale sul proprio territorio.
Tutto ciò porta a credere che neanche
questa, da sola, potrà essere la strada che
farà ridurre i conflitti in ordine alle
decisioni di localizzazione e quindi
aumentare la funzionalità delle stesse.
Il problema già di per sé complicato quando
si tratta di un’opera pubblica che potremmo
definire classica, lo diviene ancora
di più quando l’opera viene realizzata in
project financing nelle varie forme
possibili.
È accettabile che chi decide della
localizzazione di un’opera sia
deresponsabilizzato nei confronti del
problema del finanziamento della stessa? E
viceversa chi finanzia può non occuparsi
anche del territorio che genera la domanda
che giustifica l’opera e, nel caso di
separatezza tra domanda e opera, ne subisce
gli effetti negativi senza i vantaggi?
E quando, appunto, un’opera ha bisogno del
pedaggio come nel caso di strade, come si
può svincolare decisione di localizzazione
dell’opera e localizzazione della domanda,
anche nella sua articolazione geografica
(locale/globale) e non solo tipologica
(traffico pesante/leggero)?
Le leve per risolvere il problema nel modo
più efficace, come anticipato in premessa,
sembrano essere due: senz’altro la
negoziazione delle politiche e almeno, per
alcuni aspetti, anche dei progetti delle
opere – la sola concertazione di ordine
generale non sembra sufficiente infatti – e
la predisposizione di sedi istituzionali ove
discutere, partecipare e dirimere i
conflitti. Sia l’una che l’altra dovrebbero
poter utilizzare strumenti compensativi e
redistributivi, in accompagnamento delle
politiche e soprattutto delle realizzazioni.
Un’ipotesi che viene ogni tanto riproposta
per risolvere il problema della
partecipazione, ma in fase finale del
processo di presa della decisione, è quella
di introdurre l’istituto della inchiesta
pubblica, sulla scorta dell’esperienza
della Gran Bretagna, della Francia e
soprattutto del Canada.
Il modello di inchiesta pubblica in vigore
in Canada, molto pesante sotto il profilo
procedurale e organizzativo anche per quanto
riguarda i costi di gestione, è guardato
anche dalla Francia come modello4.
In questo modo si avrebbe, forse, un
miglioramento a valle del processo
decisionale, ma rimarrebbero da risolvere
tutti i problemi di negoziazione della
decisione all’inizio del processo. Non va
sottovalutato il fatto poi che l’efficacia
dell’inchiesta pubblica nei paesi francofoni
soprattutto, oltre che all’efficacia
dell’istituto in sé, dipende dal fatto che
tale istituto incorpora anche la
dichiarazione di pubblica utilità, quindi
l’espropriazione per pubblica utilità. Nella
forma più evoluta – quella attualmente in
vigore in Francia – all’inchiesta pubblica è
associata anche l’autorizzazione ambientale5.
Ma le insoddisfazioni per tale istituto sono
così tante che anche in questo paese è da
tempo in corso un processo di riforma ancora
non del tutto compiuto.
Proprio questa esperienza rafforza il dubbio
di chi scrive che né sul piano delle
attribuzioni di competenze né su quello
degli strumenti quali, ad esempio la
conferenza dei servizi o l’inchiesta
pubblica, si potrà trovare una soluzione
realmente efficace.
La soluzione dovrebbe essere trovata
operando sia a livello della negoziazione
delle politiche che degli strumenti di
compensazione redistributiva e di
partecipazione.
Relativamente a questi ultimi va segnalato
un certo ritardo in Italia – cosa che
conferma la tradizione italiana di scarsa
sensibilità non solo in generale per il
problema, ma anche per quanto riguarda le
conseguenze della Convenzione di Aarhus del
1998 siglata anche dall’Italia, sulla
partecipazione del pubblico nella presa
delle decisioni e della prossima
introduzione nel nostro diritto della
direttiva Ce 2001/42 relativa alla
valutazione ambientale strategica (Vas)
di piani e programmi, della direttiva Ce
2003/35 del Parlamento europeo e quella del
Consiglio europeo del 26 maggio 2003
prevedente la partecipazione del pubblico
all’atto dell’elaborazione di piani e
programmi relativi all’ambiente,
modificanti, per quanto riguarda la
partecipazione del pubblico e l’accesso alla
giustizia, le direttive 85/337 Cee (VIA) e
96/61 Ce del Consiglio.
In questo modo dopo il principio di
prevenzione che ispirava la procedura di
valutazione di impatto ambientale (Via)
fa ingresso nell’ordinamento anche quello di
precauzione6.
Per quanto riguarda la progettazione degli
strumenti relativi alla informazione e
partecipazione un utile punto di riflessione
è costituito dalla recente introduzione
nell’ordinamento francese, della
Commission national du débat public7,
con la quale viene recepita anche la
Convenzione di Aarhus del 1998, negoziata
sotto gli auspici dell’Onu e siglata da 35
paesi tra i quali 15 dell’Ue (ovviamente
prima dell’allargamento a 25) e dalla Ce
stessa.
Si tratta d’un ulteriore tassello nel
percorso che al riguardo la Francia ha
intrapreso: a partire da testi informali (il
protocollo Stato-Edf dell’agosto 1992
sull’inserimento nel territorio delle linee
elettriche) e successivamente sempre più
formalizzati (la circolare Bianco del
15 dicembre 1992 sulla conduzione dei grandi
progetti nazionali di infrastrutture; la
circolare del 14 gennaio 1993 sui progetti
di opere elettriche, detta circolare
Billardon; la legge del 2 febbraio 1995;
la legge Barnier, relativa alle grandi opere
pubbliche; la carta di concertazione
proposta dal Ministero dell’ambiente del 10
luglio 1996, quindi la legge relativa al
rafforzamento della protezione della natura
di modifica della originaria legge del 1976,
completata con la legge del 27 febbraio 2002
relativa alla democrazia di prossimità)8.
Malgrado questa ricca serie di atti generali
e per specifiche tipologie di opere e in
qualche caso anche di ambienti – il caso ad
esempio della enquête Bocherau
prevista dalla legge sul litorale – si è
ritenuto di dover ulteriormente intervenire
per rendere maggiormente più funzionale ed
efficace il processo di informazione e di
partecipazione del pubblico, quindi più
certa la decisione.
La istituzione della Commission national
du débat public è appunto la risposta
all’esigenza9 di coinvolgere
maggiormente il pubblico nelle decisioni,
unilateralmente prese dall’autorità
amministrativa, superando i limiti della
stessa inchiesta pubblica la cui posizione è
ritenuta troppo a valle del processo
decisionale, anche se ad essa partecipa il
pubblico.
Oltre la questione della posizione
dell’inchiesta pubblica nel processo
decisionale e dello stesso grado di
definizione dei progetti assoggettati a tale
procedura – di solito definitivi,
quindi scarsamente negoziabili nei contenuti
e nelle soluzioni tecniche adottate,
l’introduzione di tale Commission
mostra in realtà due problemi: il primo,
quello di una progressiva sfiducia del
pubblico nei confronti della qualità delle
decisioni prese dalle autorità
amministrative o se si vuole l’incapacità di
queste a rassicurare il pubblico sul portato
di tali decisioni; il secondo, il venir meno
della intrinsecità della pubblica utilità.
Questo appare davvero uno dei principali
problemi della odierna presa delle decisioni
pubbliche: la pubblica utilità non appare
più fisiologicamente incorporata nelle opere
pubbliche, bensì deve essere dimostrata, di
volta in volta, in sostanza progettata.
Questa nuova condizione è all’origine delle
tendenze delle società mature a
comportamenti di rifiuto per le
trasformazioni dello status quo, che
comunque comportano rischi che
egoisticamente non si vogliono e/o si ha
paura di correre. Da qui le difficoltà che
si incontrano nel fare accettare le
decisioni.
I motivi della introduzione della
Commission sono molteplici e non tutti
espliciti.
Alla rinfusa: aspirazione a dare risposta
alle esigenze di partecipazione del
pubblico; rafforzare la legittimità e la
qualità delle decisioni, in ispecie quelle
maggiormente contrastate; entrare in
sintonia con la convenzione di Aarhus e le
direttive europee in materia sempre di
partecipazione; sensibilizzare il pubblico
ai problemi dell’ambiente ottenendo, nello
stesso tempo, il suo sostegno alle decisioni
prese.
Naturalmente tra i motivi si devono
annoverare anche quelli relativi alla
evoluzione delle regole del diritto, e alla
stessa percezione di tale evoluzione – il
diritto appare sempre meno come un dogma e
sempre più come prodotto di rete10
– e della valutazione che associa gli
interessi quanto a monte che a
valle della decisione.
La Commission, autorità
amministrativa indipendente, decide quali
progetti (tra quelli autostradali, stradali,
ferroviari a grande velocità, aeroporti,
linee elettriche, porti, gasdotti,
oleodotti, installazioni nucleari di base,
dighe, attrezzature culturali, sportive,
scientifiche, turistiche o industriali),
sottoporre a dibattito e quindi lo gestisce.
Tale compito è esclusivo.
La Commission può essere adita da
dieci parlamentari, da un consiglio
regionale, da un consiglio generale, da un
consiglio comunale o da un organismo
pubblico di cooperazione intercomunale con
competenza di pianificazione e gestione
territoriale, da una associazione
ambientalista accreditata operante su tutto
il territorio nazionale, dal promotore
dell’opera o dal responsabile del progetto.
L’ammissione d’un progetto al dibattito
dipende dalla rilevanza dell’interesse
nazionale, dall’incidenza territoriale,
dalle poste sociali ed economiche attese,
dall’impatto sull’ambiente o sul territorio.
Può così risultare che anche progetti
apparentemente minori e/o locali, rivestano
una importanza strategica tale per cui la
loro salienza è molto elevata. Tra i motivi
di inammissibilità vi sono quelli formali:
il caso di un progetto già sottoposto ad una
analoga procedura.
Ammissione e rifiuto sono suscettibili di
controllo giurisdizionale (previo ricorso al
Consiglio di Stato per eccesso di potere).
Tra la decisione d’ammissione e lo
svolgimento del dibattito, compito della
Commission è anche quello di organizzare
il dibattito stesso. Problema certamente
centrale.
La Commission ha due possibilità:
a) organizzarlo in proprio, dando la
responsabilità ad un commissario e indicando
i partecipanti, di solito alti funzionari
ministeriali di riconosciuta competenza sia
nel campo delle realizzazioni che della
comunicazione. A volte partecipano anche
professionisti esperti (agricoltori) o
responsabili di associazioni di categoria.
Mai persone collegate con il promotore o il
responsabile del progetto;
b) delegando il promotore o il responsabile
del progetto. Anche in questo secondo caso,
che ovviamente può creare qualche difficoltà
– è il solito ben noto problema che si
incontra tutte le volte che è il proponente
a fornire informazioni, valutazioni, ecc.
come nel caso degli studi di impatto
ambientale – non viene meno la
responsabilità della Commission circa
la qualità del dossier sottoposto al
dibattito, il suo svolgimento, ecc.
Le modalità di svolgimento del dibattito
sono decise dalla Commission d’intesa
con il proponente, tenuto conto che né la
legge né il regolamento le hanno definite
rigorosamente, ivi compresa la questione
della durata,implicitamente fissata dalla
Commission per mezzo della fissazione
del calendario dei lavori, delle forme di
pubblicità, dei luoghi ove si svolgeranno,
delle modalità di consultazione dei
documenti, di presentazione degli stessi,
delle osservazioni, ecc.
Complessivamente il riferimento culturale e
metodologico della Commission è
rappresentato dalla Convenzione di Aarhus.
I critici osservano che in questo modo
interagiscono norme internazionali, europee,
nazionali e locali e si dà inevitabilmente
luogo ad un sistema interattivo complesso e
instabile.
Il dibattito si svolge in due fasi: la
prima, dedicata all’informazione in modo che
tutti dispongano delle stesse conoscenze.
Vengono redatte sintesi (del tipo di
quelle in uso nelle procedure di Via),
nonché altri documenti quali la lettera
del dibattito che illustra l’andamento
dello stesso e la sua evoluzione, il
quaderno degli attori nel quale sono
riportate le opinioni degli organismi
consultati o degli expertises
richiesti.
Per la pubblicità si può fare ricorso ai
sistemi di comunicazione informatici e ai
media in generale.
Alla fine della prima fase possono essere
presentate domande, opinioni, osservazioni.
La seconda fase è quella della dialettica,
che si svolge tra il pubblico e il
responsabile del progetto.
In realtà è sulla base delle questioni
annotate alla fine della prima fase che la
Commission individua i temi oggetto
delle riunioni pubbliche, invita il
proponente a rispondere e, se del caso, a
chiedere il parere di esperti.
È evidente il superamento dei limiti
dell’inchiesta pubblica. Il confronto è
effettivo, l’ampiezza della partecipazione
molto più ampia anche grazie all’uso dei
sistemi di comunicazione informatici, dei
media, ecc.
Lo stesso dossier alla base del
confronto è più dinamico, aperto e
flessibile, contrariamente a quello, molto
rigido, dell’inchiesta pubblica. Ciò
consente d’investigare anche su altri
problemi non direttamente implicati
dall’intervento, ma utili per il
raggiungimento del consenso e per la
migliore comprensione dei problemi sociali,
ambientali e altro da parte di proponenti,
promotori e progettisti.
Come vengono tenuti in conto i risultati del
dibattito?
Si tratta di una semplice considerazione,
più o meno attenta o si configura
addirittura la condizione di co-decisione?
Né la convenzione di Aarhus né la direttiva
Ce detta piani e programmi, aiutano a
sciogliere il dilemma, tanto sono ambigue le
formulazioni (e neanche stabili nel tempo:
si riscontra infatti una forte disparità tra
i testi di questi documenti nella loro
evoluzione).
La Francia sembra aver risolto il problema
ritenendo sufficiente, nel presunto rispetto
del quadro internazionale sopra richiamato,
la partecipazione al solo scopo di
“organizzare le condizioni d’una capacità
eventuale d’influenza”.
Lo scopo della partecipazione è pertanto
soprattutto quello di far prendere una
decisione avendo sottomesso il progetto alla
prova della trasparenza, del contraddittorio
e dello scambio pubblico. Di conseguenza ai
partecipanti al dibattito non è conferito
alcun potere decisionale.
Il bilanciamento dei poteri tra quelli del
responsabile della decisione e quelli del
pubblico, è giocato tutto nella procedura
del dibattito, dalla sua preparazione alla
conclusione sino al rendiconto – redatto
dalla Commission entro due mesi dal
termine del dibattito – pubblicato e
trasmesso al responsabile del progetto. Il
centro del resoconto riguarda la maniera
nella quale è stata condotta la
partecipazione, la sincerità del dibattito,
la completezza delle informazioni.
In questo modo si vuole responsabilizzare
soprattutto il proponente, il quale – entro
tre mesi dalla conclusione del dibattito –
deve decidere del principio e delle
condizioni del proseguimento del progetto.
Il dibattito e quanto emerso nel suo
svolgimento, confluiscono comunque nel
processo decisionale a livello
dell’inchiesta pubblica. Per di più il
commissario inquirente o la commissione
d’inchiesta dispongono così sia del
rendiconto che del bilancio del dibattito
per mezzo del promotore; il tutto integra il
dossier dell’inchiesta pubblica.
Un caso tra i più recenti sottoposto alla
Commissione del quale anche la grande stampa
ha dato notizia è quello del progetto di
ampliamento del porto di Marsiglia11.
Il progetto Fos-2XL prevede il raddoppio
della quantità di contenitori movimentabili
(da 700.000 a 1.500.000 per anno, unica
chance perché il porto non venga
marginalizzato nei confronti di Valencia e
Genova che hanno notevolmente accresciuto la
loro capacità). Ne consegue un aumento di
banchine (90 ha), la realizzazione di nuove
attrezzature di banchina, ecc.
Due sono i comuni coinvolti direttamente:
Fos sur Mer e Port Saint Louis du Rhône a
ovest di Marsiglia. L’ampliamento del porto
comporterà un aumento dei traffici fluviali
(lungo il Rodano), ferroviari e stradali.
La rete di tali infrastrutture è capace di
sopportare tale aumento? Contemporaneamente
è ipotizzabile uno split modale più
favorevole al trasporto ferroviario e a
quello fluviale, riducendo così quello
stradale?
Queste le domande di fondo, alle quali dare
risposta in una serie di 6-7 incontri
pubblici, ai quali partecipano, oltre il
proponente Porto autonomo di Marsiglia,
rappresentanti delle istituzioni, operatori
dei vari settori coinvolti e pubblico (per
lo più costituito da associazioni e
comitati).
Entro il 24 giugno 2004 (la prima assemblea
si è tenuta il 1° giugno 2004), il
presidente dell’assemblea, che è il vice
presidente della Commissione nazionale di
dibattito pubblico, dovrà rendere il suo
rapporto.
È prevedibile che oltre alle risposte
puntuali ai problemi sollevati –
prevalentemente quelli sopra richiamati – il
rapporto tratterà del tema delle questioni
generali d’aménagement del territorio
che vanno di gran lunga oltre il porto
stesso.
Maggiori questioni sembrano essere quelle
sollevate dal progetto di realizzazione d’un
inceneritore di rifiuti urbani prodotti
dalla comunità urbana di Marsiglia, sempre
nell’area portuale, da parte della società
Suez.
I rappresentanti delle amministrazioni
dell’ovest della Provenza sospettano che la
società abbia in programma la realizzazione
d’un’altra installazione simile.
Compito della Commissione sarà quello di
chiarire preliminarmente questo aspetto.
Può essere di qualche utilità per l’Italia
l’introduzione d’una Commissione o qualche
altro organismo simile?
Il problema italiano nella presa delle
decisioni in materia di infrastrutture e di
attrezzature sembra essere soprattutto
quello che attiene il livello delle
politiche. Solitamente poco esplicite,
spesso ondivaghe. Da ciò deriva la debolezza
strutturale dei progetti che ne discendono.
Le politiche dovrebbero configurare progetti
di sistema, ben definiti, articolati nel
tempo secondo un preciso ordine di priorità,
ecc.12
In tali progetti di sistema, via via meglio
specificati allorché se ne definiscano gli
aspetti tecnici, devono ovviamente entrare
in forma esplicita e piena sia le questioni
ambientali che quelle territoriali. Tali
progetti dovrebbero contenere alla origine
le previsioni relative alle misure di
compensazione e di accompagnamento.
Qualche esperienza è stata fatta. In materia
di energia ad esempio, con la riduzione del
costo del kilowattore nei comuni sede di
centrale di produzione: nelle negoziazioni
questa misura veniva considerata – proprio
perché prevista nella legge – non un
obiettivo, bensì un punto di partenza. Di
fatto è stata ben poco utile.
Un po’ meglio da questo punto di vista
sembra che stia andando con i cosiddetti
parchi eolici. Altre misure si sono
tentate nel caso delle infrastrutture. In un
primo momento queste misure eccedevano
spesso la missione del proponente
dell’opera.
Oggi si tende a farle rientrare in questo
ambito. Ma la privatizzazione dei soggetti
realizzatori e gestori di reti apre nuove
problematiche (di disponibilità sia
culturale che economica soprattutto): è
forte infatti la tendenza di questi soggetti
a rinviare al mittente – cioè il
concedente, in definitiva di nuovo lo Stato
– le richieste locali.
Spesso le misure riguardano la fase di
gestione/esercizio dell’opera e prendono
forma di osservatori ambientali e/o
laboratori ecologici13.
Sta di fatto che, anche se con un percorso
certo non lineare, queste politiche si
possono ritenere, allo stato, almeno
abbozzate. Mancano, è vero, ancora espliciti
e completi progetti di sistema e per non
pochi settori. Ma è pur sempre qualcosa.
Modificare una tradizione inveterata non è
facile.
Rimane comunque forte l’esigenza di
accreditamento dei progetti che ne
discendono. Le critiche e le perplessità non
attengono infatti solo la questione basilare
della domanda che motiva l’intervento: è
necessario, è prioritario, è ben
dimensionato?
La risposta a questo interrogativo dovrebbe
essere data a livello delle politiche. È
quella la sede migliore infatti per definire
priorità tra i settori e nei settori,
dimensionare le risposte, ecc.
Ma le altre perplessità: è coerente la
scelta, è opportuna la localizzazione
tipologico-funzionale, è buono il progetto,
è attento l’inserimento nell’ambiente, sono
ben considerati gli impatti, ecc.? La
risposta a questi interrogativi non può
essere data che in sede di progetto. Da qui
la necessità già segnalata che anche il
progetto, nel modo opportuno – tutto da
costruire e di certo non secondo i canoni
delle conferenze di servizio attuali – sia
oggetto di concertazione.
In assenza, o perlomeno nella poca
determinatezza della concertazione, la
creazione di un luogo neutrale ove
confrontare le posizioni delle istituzioni e
dei promotori/proponenti/progettisti e del
pubblico può essere utile.
La Commissione (o qualcosa di simile) può
giocare il ruolo non solo di accreditamento
dell’intervento, tramite le informazioni e
la discussione sul progetto e quindi della
domanda pubblica che ne è alla base, ma
anche di dimensionare gli interessi in
gioco, probabilmente conflittuali. Può
aiutare a svelare i punti profondi di
conflitto, eliminando quelli pretestuosi.
Può cioè svolgere quel ruolo fondamentale di
portare alla luce chi è interessato alla
soluzione del conflitto rispetto a chi è
interessato al conflitto in quanto tale.
E non è poco. Oltre naturalmente al
contrario, aumentare la trasparenza della
presa delle decisioni, realizzare una più
significativa partecipazione del pubblico
(nell’ottica di migliorare la informazione e
comunicazione nonché la consultazione) dando
così avvio al recepimento di quanto
impongono direttive comunitarie
esplicitamente rivolte a questa problematica
e quelle che la implicano (ambiente, rischi
naturali e tecnologici, ecc.) e alla
attuazione dei principi della stessa
convenzione di Aarhus siglata anche
dall’Italia. Ma si ha ragione di ritenere
che ciò sarà condotto all’oscuro della
grandissima parte degli italiani e degli
stessi addetti ai lavori, come è dimostrato
dalla pressoché totale assenza di un
dibattito intorno al suo recepimento.
Nel progettare tale nuovo istituto non si
dovrebbe certo trascurare l’esperienza –
forse più di ombre che di luci – delle tante
commissioni che sono state istituite su temi
ambientali, a partire da quelle storiche
volute dall’allora Presidente del Consiglio,
on. Cossiga, tra gli anni ’70 e ’80, con le
quali si gettarono le basi delle successive
istituzioni in materia di ambiente.
Spesso si tratta di commissioni che svolgono
ruoli istituzionali, ma da una posizione
paraistituzionale. Incidono sulle decisioni,
ma non ne sono pienamente responsabili.
Oppure evitano di prendere la decisione in
quanto, appunto, non pienamente legittimate
a prenderla.
La definizione della loro missione
non è facile. Non può infatti esaurirsi in
quella di ascolto di lagnanze né proporsi
come mediatore, non avendo magari né
le capacità né gli strumenti (e non solo
tecnici).
Ma il suo ruolo è importante e necessario.
Ma debbono essere pienamente
responsabilizzate delle conseguenze delle
decisioni. O, al contrario, debbono essere
esclusivamente consultive.
Oggi, purtroppo, non sono né l’una né
l’altra fattispecie. Ma il loro potere è, di
fatto, rilevante. Altre parti in gioco
possono infatti utilizzare i loro pareri e/o
determinazioni.
Né è pensabile che studi, ricerche ed
expertise più che a rassicurare decisori
e opinione pubblica servano a rassicurare
soprattutto questi organismi.
La ricerca della soluzione è aperta. Il
tempo è però scaduto.
Note
1
La letteratura italiana in proposito non è
molto vasta, mentre lo è quella di altri
paesi, specialmente quelli anglosassoni nei
quali le pratiche di negoziazione come noto
sono considerate ordinarie. Di conseguenza
sono molto sviluppati gli studi e le
ricerche, i corsi di formazione per chi
opera nelle strutture ad hoc,
compresi i professionisti della
contrattazione (mediator). Qualche
anno fa anche l’associazione Lega Ambiente,
la Regione Emilia Romagna con l’Ervet, ad
esempio, avevano iniziato a interessarsi a
questo problema con convegni, ai quali
parteciparono anche esperti stranieri
(ricordo, per tutti, Susskind), e corsi di
formazione. Tra i contributi italiani più
significativi si possono citare, ad esempio:
Nomisma, a cura di M. Spinedi, La
gestione dei conflitti locali nelle opere
infrastrutturali: il caso dei trasporti,
Inchiostri Associati Editori, Bologna 1999;
il contributo a cura di N. Delai,
Infrastrutture e consenso, Sipi Srl,
Roma 1977; S. Maffettone, Le ragioni
degli altri, il Saggiatore, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano 1992; L. Bobbio,
A. Zeppettella, Perché proprio qui?
Grandi opere e opposizioni locali,
Angeli, Milano 1999; F. Karrer Le misure
di compensazione nella negoziazione dei
conflitti ambientali sui progetti di
infrastrutture, “Via”, n. 19/1966; R.
Lewanski, Governare l’ambiente. Attori e
processi della politica ambientale, Il
Mulino, Bologna 1997.
Di recente si è costituita la associazione
Nimby Forum per lo studio dei
contenziosi in materia ambientale di cui ha
dato notizia IlSole24ore del 16 settembre
2004.
2
Nelle proposte di legge per il Governo
del territorio attualmente in
discussione al Parlamento fa capolino
l’ipotesi di istituire “sedi stabili di
concertazione” con il fine di perseguire il
principio dell’unità della pianificazione.
Non si pensa ancora però a sedi ove portare
i conflitti una volta divenuti palesi.
3
La Corte, con sentenze n. 303 e 307/3 ha
iniziato a esprimersi in una fase, come
noto, molto delicata della riforma
costituzionale. Il percorso di trasferimento
di funzioni è infatti ancora incompiuto. Da
ciò il rischio per la Corte di supplire a
incertezze o addirittura all’assenza di una
chiara legislazione. Da qui la prudenza che
contraddistingue le due sentenze. Che
peraltro non rinunciano a fare chiarezza. (Cfr.
il commento su tali sentenze dell’Ufficio
studi legislativi della Camera dei
deputati).
4
Cfr., in particolare, V. Berdoulay, O.
Soubeyran, Debat public et développement
durable – Experiences nord-americaines,
Editions Villes et Territoires, Parigi 1996.
Un aspetto particolare dell’inchiesta
pubblica, ma non secondario, quale quello
del costo dell’indennizzo dei commissari
inquirenti, è discusso da G. Hardy, L’indemnisation
des commissaires enquêteurs, “Études
foncières”, n. 109/2004.
5
Nell’ambito della progettazione legislativa
che ha accompagnato il recepimento delle
direttive comunitarie in materia di Via e di
Vas, il Parlamento italiano ha guardato
soprattutto all’esperienza della Gran
Bretagna.
6
Rinvio al mio contributo al Convegno indetto
dalla Provincia di Padova sulla Vas del 31
marzo 2004 consultabile sul sito della
Provincia - Assessorato all’Urbanistica.
7
Dapprima come modifica al codice
dell’ambiente, quindi con un decreto
(2002-1275 del 22 ottobre 2002) relativo
all’organizzazione del dibattito pubblico e
alla Commissione nazionale del dibattito
pubblico.
Una sistematica sugli istituti del dibattito
pubblico in Francia è fornita dal recente
Le débat public.
Guide méthodologique,
Service d’information du Gouvernement, La
documentation française, Parigi 2004.
8
Un’utile ricostruzione, articolata per campi
di applicazione di queste procedure, con
alla base approfondite riflessioni intorno
alla efficacia/effettività delle decisioni
pubbliche è contenuta in Conseil d’Etat,
L’utilité publique aujord’hui, La
documentation française, Parigi 1999 e A.
Réocreux et D. Dron, Débat public et
infrastructures des transports, La
documentation française, Parigi 1996.
9
Per una prima valutazione su motivazioni,
attese e problematiche si rinvia
Jean-Françoise Struillon, Le droit à la
partecipation, “Études foncières”, n.
104/2003, dal quale abbiamo tratto molte
delle informazioni utilizzate per questo
articolo. Quella di Struillon è una sorta di
risposta ai quesiti sollevati da E. Le
Corner in un precedente articolo apparso
sempre su “Études foncières”, n. 101/2003 (L’aménagement
en attente d’une démocratie de partecipation),
al quale pure si rinvia.
10
Cfr. F. Ost, M. Van de Kerchove, De la
pyramide au résau? Pour une théorie
dialectique du droit, Bruxelles, 2002.
11
Cfr., “Monde”, sabato 12 giugno 2004.
Un resoconto di alcune prime esperienze di
dibattito pubblico, e implicitamente un
bilancio delle stesse, è contenuto nel
volume La partecipation des usagers/clients/citoyens
au service public, Guide pratique, La
documentation française, Parigi 2003 nel
quale tra gli strumenti della
partecipazione, individuati nel numero di
dieci (reclamo, mediazione, riunione di
utilizzatori, comitati consultivi, standard
di qualità – sorta di carta dei servizi –
referendum – voto, dibattito pubblico,
ricorso alla giustizia, conferenza dei
cittadini), viene annoverato proprio il
dibattito pubblico che si svolge presso la
Commissione nazionale ad hoc
istituita (Cndp, www. debat public.fr). I
casi commentati sono quello dell’estensione
del porto di Nizza, d’una linea elettrica a
400.000 volts, dell’aeroporto di Nantes.
12
Mi permetto di rinviare a quanto da me
sostenuto al riguardo in occasione della
2ª Conferenza Nazionale del Territorio,
Caserta 12-13-14 giugno 2003 (Atti in corso
di pubblicazione a cura dell’Istituto
nazionale di urbanistica per conto della
Dicoter del Mit).
13
Si veda, tra gli altri, J. Varet, L’observation
de l’environnement, “Futuribles”, n.
297/2004. |