L’annullamento dei piani territoriali
paesistici (Ptp) da parte del Presidente
della Repubblica (Dpr 29 luglio 1998 e 20
ottobre 1998) e successivamente del Tar
Sardegna (sentenze dal n. 1203 al n. 1208
del 6 ottobre 2003)1, ha generato
una precarietà nel quadro di riferimento e
coordinamento della pianificazione comunale
e in particolare di quella costiera. La Lr
25 novembre 2004, n. 8, “Norme urgenti di
provvisoria salvaguardia per la
pianificazione paesaggistica e la tutela del
territorio regionale”, ha individuato nel
piano paesaggistico regionale il principale
strumento della pianificazione territoriale.
In attesa della sua predisposizione e
successiva approvazione la suddetta legge ha
prescritto alcune limitazioni nell’uso del
suolo tra le quali il divieto di realizzare
nuove opere soggette a concessione e
autorizzazione edilizia per quei comuni
sprovvisti di adeguati strumenti di
pianificazione comunale (piano
urbanistico comunale - Puc).
L’inedificabilità negli ambiti territoriali
indicati dalla legge ha suscitato un acceso
dibattito sulla forma di tutela introdotta
che si ritiene meriti la dovuta attenzione
per le implicazioni che potrebbe generare
nel complessivo equilibrio economico e
ambientale della Sardegna. In particolare
tale legge si esprime impedendo
principalmente l’edificazione delle opere
regolate dall’istituto della concessione e
dell’autorizzazione edilizia nella fascia
costiera dei 2.000 metri dal mare in assenza
di strumenti urbanistici indispensabili per
individuare i livelli di sostenibilità delle
trasformazioni del suolo.
La salvaguardia costiera sembra quindi
esprimersi sostanzialmente con un vincolo di
edificabilità, attribuendo all’attività
edilizia il maggiore rischio di
compromissione delle coste.
Si ritiene che tale interpretazione sia
pienamente condivisibile, ma che meriti,
tuttavia, un ulteriore approfondimento
riguardo alle altre attività che possono
compromettere l’ambiente costiero. Tra
queste rientra certamente il prelievo
minerario, soprattutto in riferimento a
sabbia e ghiaia che, per loro natura
geologica, si trovano in prossimità dei
limiti di costa o in corrispondenza degli
alvei fluviali. Si tratta quindi di porzioni
territoriali particolarmente sensibili,
sulle quali spesso agiscono diversi
strumenti di tutela ambientale, da quelli
riferiti alle bellezze naturali a quelli
idrogeologici. La legge 28 gennaio 1977, n.
10, “Norme per l’edificabilità dei suoli”,
la cosiddetta legge Bucalossi, è stata
oggetto di numerose interpretazioni riguardo
l’assoggettabilità dell’attività estrattiva
alle disposizioni della stessa legge.
Sembrava, infatti, che tutti gli interventi
che comportassero trasformazioni dello stato
dei luoghi dovessero essere assoggettate
alla legge Bucalossi. Tuttavia, è ormai
assodato che l’attività estrattiva non sia
soggetta alle disposizioni della legge
10/1977 e pertanto i vincoli di
edificabilità, introdotti dalla recente
tutela sulle coste, non includono l’attività
estrattiva in senso stretto ma
esclusivamente gli impianti fissi ad essa
connessi soggetti all’istituto della
concessione edilizia.
Tuttavia è proprio l’attività estrattiva in
senso stretto e non le sue pertinenze a
incidere maggiormente sull’ambiente
naturale. Infatti essa genera forti impatti
ambientali quali impatto visivo, polveri,
rumori, inquinamento delle falde acquifere,
traffico veicolare pesante, ecc. che si
ripercuotono sulla qualità dell’ambiente
antropico e naturale ma soprattutto generano
numerosi conflitti sia di natura politica
che sociale.
Da una parte emerge il conflitto tra
amministrazioni comunali e pianificazione di
settore di livello regionale che risulta
particolarmente acceso nell’esperienza
maturata nella Regione Sardegna. Infatti,
nonostante il piano regionale
dell’attività estrattiva (Prae) del 1993
individui le aree potenzialmente destinabili
a tale attività come risultato della
sovrapposizione tra le carte geologiche e
quella dei vincoli, i comuni interessati non
necessariamente recepiscono questi
indirizzi, assecondati dalla mancanza nella
legge regionale della Sardegna sull’attività
di cava (Lr 30/1989) di indicazioni circa la
prevalenza del Prae sul Puc.
La Lr 15/2002 conferma il medesimo indirizzo
recitando all’art. 8 che: “fino
all’emanazione di una normativa per la
disciplina dell’attività mineraria e di
cava, i permessi di ricerca, le concessioni
minerarie e le autorizzazioni di cava
possono essere rilasciate
dall’amministrazione regionale previa intesa
con il comune territorialmente competente
espresso in conformità con la pianificazione
urbanistica comunale o, in assenza di
questa, previa delibera del Consiglio
comunale assunta con i due terzi dei
componenti”.
A livello sociale, invece si deve far fronte
all’opposizione della popolazione residente
che, il più delle volte, condizionata
negativamente sia dagli impatti che dalla
scarsa conoscenza del settore, si schiera
contro l’apertura di nuovi siti estrattivi
nel proprio territorio.
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Figura 1 - Immagine satellitare
dell’Europa |
Eppure, nonostante tale situazione di
conflittualità sociale e politica, la
Regione Sardegna risulta una delle maggiori
produttrici di inerti da costruzione a
livello nazionale, basti pensare che solo
nel 2000 vi è stata una produzione pari a
7,4 metri cubi ad abitante a fronte di una
media nazionale di 4 metri cubi ad abitante.
Tali livelli di produzione sono inferiori
solo a quelli registrati dalla Puglia (7,9
metri cubi ad abitante) e dall’Abruzzo (8,7
metri cubi ad abitante), ma con la
sostanziale differenza che la produzione in
Sardegna risulta esclusivamente riferita
alla domanda locale al contrario delle due
regioni citate dove il mercato può assumere
contorni sovralocali.
Posto che proprio in prossimità delle coste
sono localizzati i giacimenti di sabbia e
ghiaia, indispensabili sia per la nuova
edificazione sia per la sempre più urgente
riqualificazione dei centri e dell’edificato
storici, emerge la necessità di definire in
quale modo l’attività estrattiva si
relazioni con la tutela ambientale per le
coste della Sardegna.
Quanto detto rappresenta un’altra
riflessione possibile in merito alla
salvaguardia delle coste che non può essere
esclusivamente circoscritta alla sola
edificazione dei litorali ma estendersi
verso un più razionale utilizzo delle
risorse tra cui anche quelle geologiche del
sottosuolo.
La distribuzione edilizia diffusa, che
caratterizza il sistema territoriale della
Sardegna, implica inevitabilmente una
maggiore compromissione dello spazio
naturale per l’edificazione di
infrastrutture e spazi collettivi che, pur
risultando irrinunciabili in termini
economici e sociali, incidono in maniera
significativa sull’ambiente naturale.
Infatti, all’aumentare della diffusione
urbana, anche a fronte di un numero modesto
di abitanti, aumenta progressivamente la
domanda di minerali per l’edilizia e quindi
il prelievo ambientale. Trasferire pertanto
volumetrie dalle coste verso l’interno
comporterà minori impatti, in riferimento
alle volumetrie che si sarebbero potute
costruire, ma non influirà sul fabbisogno di
inerti che dovrà essere soddisfatto anche
con prelievi in ambiti costieri. La
necessità di materiali inerti per l’edilizia
deve spingere quindi le politiche
territoriali non solo a valutare la reale
consistenza del loro fabbisogno, ma
soprattutto a stimolare il mercato di
materiali alternativi come quelli derivanti
dal riciclaggio.
Alla base di qualsiasi dibattito sulla
tutela ambientale delle coste occorre
comunque definire il ruolo che si vuole loro
attribuire nell’ambito dello sviluppo
regionale, senza trascurare tutto ciò che
esse offrono, dalla fruizione balneare alle
potenzialità del prelievo ambientale di
minerali per l’edilizia.
Il fenomeno di utilizzazione delle coste che
ha interessato la Sardegna negli ultimi
decenni, con una vivace attività edilizia
prevalentemente di tipo turistico, si
inserisce in uno scenario più ampio di
quello strettamente locale: in ambito
euro-mediterraneo si assiste al forse più
grande processo antropico di utilizzazione
delle coste. In ogni fase storica
l’utilizzazione del territorio è avvenuta
con diverse modalità: nel Medioevo gli
insediamenti erano di crinale, nel
Rinascimento di pianura, ma tutti
caratterizzati dall’essere nodi strategici
per gli scambi e il commercio. In epoche
decisamente più recenti, e precisamente con
l’urbanesimo, manifestatosi con l’abbandono
delle campagne verso la città, si sono
generati i primi effetti di quelle che oggi
possono essere definite come le città
lineari costiere. Tra quelle più
significative si segnalano quella che parte
da La Spezia per arrivare sino a Barcellona
e quella quella che da Venezia si estende
sino alla fine dello stivale, seppur con
qualche interruzione. Anche nel versante più
a sud del Mediterraneo è possibile
riscontrare tali condizioni e in particolare
lungo tutto l’arco di costa tunisina.
L’urbanizzazione costiera è quindi un
fenomeno di ampia scala e investe anche
quelle nazioni che non sono caratterizzate
esclusivamente dal turismo balneare.
Pertanto non si può attribuire al turismo la
prevalente compromissione delle
coste. L’argomento in questione rientra nel
più vasto fenomeno antropico che vede il
passaggio progressivo della localizzazione
dalla città nodo alla città
lineare costiera. In altri termini si è
modificato il ruolo di centro da cui si
sviluppava la città. Non è più infatti il
centro delle funzioni pubbliche a
caratterizzare la forza della città bensì la
sua accessibilità, sopratutto intermodale:
porti, aeroporti, stazioni ferroviarie e
metropolitane e svincoli stradali
rappresentano sempre più la prevalente
strategia localizzativa per lo sviluppo
della città. Sono infatti i tempi di
accessibilità, e non più le distanze, a
rappresentare il principale indicatore
localizzativo urbano.
In questo senso lo spazio costiero è in
grado di offrire maggiori opportunità
rispetto ad un qualunque altro sito e per
tale ragione risulta decisamente appetibile,
sia in termini reali che potenziali. Le
forme urbane costiere offrono numerose
opportunità per le quali un divieto di
assoluta edificabilità comporterebbe delle
profonde limitazioni. Si ritiene, infatti,
che i divieti così formulati, seppur
temporanei, rappresentino un significativo
freno non solo per le zone costiere a cui si
riferiscono ma anche per quelle più interne,
che ancora non mostrano elementi di
controesodo, anzi perdurano gli effetti
dello spopolamento.
In Sardegna quanto detto rappresenta la
realtà prevalente, infatti è ancora in atto
l’abbandono dei centri minori dell’interno
verso la città di Cagliari che,
congiuntamente a Capoterra, Sarroch e Quartu
S. E., contribuiscono a formare la città
lineare costiera che presenta modestissimi
caratteri turistici.
Quindi questo aspetto, unito alla
problematica riferita al prelievo minerario,
dovrebbe far riflettere sul nuovo ruolo che
le coste stanno assumendo sia da un punto di
vista strettamente localizzativo che
economico. A fronte di questa breve
descrizione non appare semplice riconoscere
i rischi e le opportunità che le iniziative
orientate alla salvaguardia delle coste
siano in grado di generare nel nostro
contesto regionale.
Note
1
Rimane vigente il Ptp n. 7 del Sinis. |