Nella Regione Campania le problematiche
connesse con l’apertura e la coltivazione
delle cave assumono spesso il connotato di
una delle tante emergenze ambientali
presenti sul territorio. Da attività
economica essa tende a divenire fonte di
rischio, spesso degenerativo, derivante da
impatti negativi a carattere ambientale (ad
esempio quelli idrogeologici) e a carattere
sociale (ad esempio quelli connessi con la
criminalità o con la salute).
Secondo le ultime rilevazioni della Regione
Campania, Settore cave, riportate da
Legambiente (2004) e relative al 2003, il
numero di cave censite sul territorio
regionale era pari a 1.712. Di queste solo
196 erano autorizzate, mentre le rimanenti
risultavano abbandonate (1.064), chiuse
(272) o abusive (180). Sul totale delle cave
censite, l’11,7% era localizzato in
Provincia di Avellino, il 14,7% in Provincia
di Napoli, il 17,6% in Provincia di
Benevento, il 26,7% in Provincia di Caserta
e il 29% in Provincia di Salerno. A
testimonianza della difficoltà di definire
un quadro preciso, nel 2001 la Regione
Campania aveva censito solo 1.114
cave, come riportato nella proposta di piano
territoriale regionale (2004). In Provincia
di Avellino erano censite, nel 2003, 201
cave; di esse 38 erano autorizzate, 118
abbandonate, 31 chiuse e 14 abusive.
Alle problematiche generali sono collegate
quelle locali, relative a specifici casi nei
quali la localizzazione di una cava apre un
dibattito che interessa le relazioni interne
ed esterne ad una comunità, in questo caso
quella di Sant’Andrea di Conza, comune di
2.000 abitanti in Provincia di Avellino, al
confine con la Basilicata.
Riferimenti normativi
Il quadro normativo esistente nella Regione
Campania si è formato in seguito al
passaggio delle competenze che, a partire
dal Dpr 616/1997, ha conferito alle regioni
la potestà nel settore. Le autorizzazioni o
le concessioni ai privati, definite da
apposite norme regionali, dovrebbero
discendere da una attenta valutazione di due
interessi da sempre considerati opposti: “di
tipo economico, per gli indubitabili
vantaggi – anche occupazionali – connessi
allo sfruttamento delle cave e di tipo
ambientale, relativi al degrado che ne
potrebbe derivare per il territorio” (Chieffi,
1998).
È costante il riconoscimento, da parte della
giurisprudenza costituzionale, della
rilevanza primaria della tutela ambientale
quale vero e proprio diritto soggettivo. A
partire dal 1986 (sentenze nn. 151/1986,
641/1987) la Corte ha sempre ritenuto che
l’affermazione di un interesse economico
(anch’esso riconosciuto dalla Costituzione,
art. 41) non dovesse determinare la
compressione totale dei beni ambientali,
legati in modo stretto ai diritti della
persona. Inoltre, la tutela dell’ambiente
quale diritto personale è alla base di altri
diritti – tra cui quello alla salute –
connessi con il concetto generale di qualità
della vita.
Da queste affermazioni discende che il
diritto a esercitare una cava è subordinato
in maniera generica alla tutela di interessi
pubblici, e in modo specifico al diritto
dell’amministrazione locale a predisporre
strumenti di assetto del territorio
indirizzati alla “proficua utilizzazione e
godibilità da parte della collettività,
secondo livelli di interessi
costituzionalmente protetti” (Consiglio di
Stato, Sezione IV, n. 723/1984).
La Regione Campania ha emanato la sua prima
normativa in materia nel 1985 (Lr 54/1985
“Coltivazione di cave e torbiere”). Tale
norma è stata modificata in parte dalla Lr
17/1995 il cui articolo 1 recita che “la
Regione Campania disciplina … la ricerca e
l’attività di cava nel proprio territorio al
fine di conseguire un corretto uso delle
risorse, nel quadro di una rigorosa
salvaguardia dell’ambiente e nelle sue
componenti fisiche, pedologiche,
paesaggistiche, monumentali e della massima
conservazione della superficie agraria
utilizzabile ai fini produttivi”.
L’articolo 2, modificato nel 1995, regola il
piano regionale delle attività estrattive
“nel quadro delle esigenze generali di
difesa dell’ambiente, del diritto alla
salute dei cittadini, di recupero del
patrimonio architettonico e monumentale dei
borghi e dei centri storici della Campania,
di sviluppo economico regionale e in linea
con le politiche comunitarie in materia, per
attuare una politica organica di
approvvigionamento e di razionale
utilizzazione delle risorse delle materie di
cava”.
Ai sensi dell’articolo 7 della Lr 17/1995,
infine, l’autorizzazione non può essere
rilasciata in alcune specifiche situazioni
di vincolo territoriale, ossia: “a) nelle
zone nelle quali l’apertura o la
coltivazione delle cave sia vietata da altre
leggi regionali e nazionali o da
provvedimenti regionali di carattere
generale interessanti l’organizzazione e il
riassetto del territorio; b) nelle zone
nelle quali le cave sono vietate dagli
strumenti urbanistici comunali in vigore; c)
nelle zone vincolate ai sensi delle leggi 1º
giugno 1939, n. 1089 e 29 giugno 1939, n.
1497; d) nei comuni privi di piano
regolatore e quando esistono nuclei abitati
a 500 metri dalle cave; e) nelle zone
vincolate ai sensi della legge 8 agosto
1985, n. 431”.
A parte la constatazione che si attende
ancora il varo definitivo del piano
regionale delle cave, si sottolinea il fatto
che all’interno della normativa regionale
non esiste alcuna indicazione relativa a
ipotesi localizzative prossime al confine
regionale o al coinvolgimento della Regione
Campania in procedure autorizzative svolte
da altre regioni in prossimità del confine
regionale. Questo aspetto rappresenta
certamente una lacuna della norma, in
considerazione del fatto che, rispetto a
queste attività, possono sussistere
atteggiamenti diversi in regioni contermini.
Negli indirizzi strategici contenuti nella
proposta di piano territoriale regionale
(Regione Campania, 2004) si sottolinea la
necessità di prevedere interventi correttivi
al fine di tutelare il territorio dai
processi di degrado riscontrati nelle aree
sede di impianti a cava. A questo scopo si
ipotizzano alcune linee strategiche quali la
chiusura degli impianti a rischio, la
riduzione del fabbisogno di inerti per
calcestruzzo, la conversione dell’industria
tradizionale e la delocalizzazione degli
impianti verso “siti a bassa densità
abitativa e valore paesaggistico,
promuovendo una dislocazione stellare
intorno ai principali bacini di
utilizzazione, qualora ciò sia compatibile
con la rete dei trasporti e con la
disponibilità degli inerti”.
È evidente però che la realizzazione di
impianti di questo genere non può essere
automaticamente consequenziale a processi di
delocalizzazione, il cui risultato è solo
quello di estendere il degrado del
territorio ad aree ancora limitatamente
interessate da tali fenomeni. Le valutazioni
relativamente alla realizzazione di impianti
di questo tipo devono essere attente e
approfondite interessando effetti di ordine
sociale (si pensi agli impatti temporanei e
permanenti sul paesaggio ma anche sui
redditi redistribuiti e sui trasporti) e di
ordine ambientale (impatti geomorfologici,
idrologici di superficie e di profondità,
sulla vegetazione, sulla fauna, i rumori, le
polveri, la qualità dell’acqua e dell’aria),
oltre che sulla rilevanza economica del
materiale estratto.
Ne discende che “l’individuazione delle aree
che potenzialmente possono essere
interessate da nuove attività estrattive
dipende essenzialmente dalla disponibilità
dei materiali, ma anche dai vincoli
paesistici, idrogeologici e, più in
generale, di tutela ambientale”, in
considerazione del futuro piano regionale
delle attività estrattive.
Sant’Andrea di Conza: il nuovo piano
regolatore
Le problematiche connesse con la possibile
apertura di una cava sono strettamente
legate al processo di formazione del nuovo
piano regolatore generale (Prg) del
Comune di Sant’Andrea di Conza. Il caso
studio ha un suo valore in quanto in esso
sono compresenti due elementi interessanti:
il primo è l’allarme ambientale che il
progetto ha suscitato nella cittadinanza, il
secondo è la constatazione delle
incongruenze che possono verificarsi in
territori a cavallo di due regioni in un
momento in cui si rafforza il ruolo di
questi enti a scapito di quello della Stato.
La redazione di un Prg rappresenta un
momento, spesso lungo, durante il quale le
necessità collettive di una comunità si
incrociano e si scontrano con le volontà dei
singoli attori. La singolarità del processo
di redazione di questo strumento,
singolarità dovuta soprattutto alla
lunghezza che accompagna il processo di
pianificazione, rende il risultato finale
spesso assai diverso dalle ipotesi iniziali,
sia per l’evoluzione sociale che per quella
politica che può verificarsi nel frattempo.
Il primo Prg di questo comune irpino posto
nell’epicentro del sisma del 1980 risale
agli anni immediatamente successivi a questo
evento. Il piano, insieme al contemporaneo
piano di recupero e al successivo piano
degli insediamenti produttivi, ha governato
l’evoluzione del centro abitato per circa
due decenni, con una attenzione tutta
indirizzata verso gli aspetti fisico-edilizi
del centro urbano e con attenzione marginale
ai mutamenti in corso nelle aree
extra-urbane.
Nel 1998, in fase di determinazione degli
indirizzi del nuovo piano, si era ipotizzato
– anche sulla base di una maggiore
attenzione agli aspetti di qualità
ambientale completamente dimenticati durante
la fase di intervento post-terremoto – un
nuovo strumento che puntasse su una più
estesa tutela ambientale del territorio, da
combinare con nuovi processi di sviluppo
economico necessari a rivitalizzare
l’economia del centro. Questi indirizzi sono
stati perseguiti nella redazione del piano e
sono stati tradotti in azioni specifiche e
ciò soprattutto a partire dall’autunno 2003,
quando l’amministrazione comunale ha deciso
di accelerare e condurre a termine l’annoso
iter.
Lo strumento di piano messo a punto, pur in
presenza di alcune incongruenze, ha cercato
di individuare i possibili percorsi di
sviluppo del centro abitato agendo sulle
specificità e sulle vocazioni del
territorio, ossia su un centro storico
integro anche dopo il terremoto del 1980, su
un sistema di edifici monumentali ai quali
affidare nuove funzioni, sulla creazione di
due parchi urbani che sottolineassero una
delle specificità del centro, ossia il
binomio acqua-terra (Sant’Andrea paese dei
mulini ad acqua), su un tessuto ancora forte
di imprese artigiane agenti in prevalenza
nel nuovo insediamento produttivo. Si
ipotizzava che il sostegno all’economia
locale potesse crearsi incrementando le
alternative economiche sulle quali fare
affidamento e affiancando, agli altri già
esistenti, nuovi percorsi di sviluppo basati
su un turismo sostenibile. Per fare questo
tutto il territorio andava governato e
gestito con attenzione e lungimiranza.
Nella primavera del 2004 il Prg, adottato ma
non controdedotto, è stato sostanzialmente
fatto proprio dalla nuova amministrazione,
la quale ha però richiesto alcune importanti
modifiche che hanno portato ad una nuova
parziale pubblicazione. In particolare, a
fronte di una precedente ipotesi che
consentiva la possibile apertura di una cava
in area agricola quasi a ridosso dell’area
urbana, la nuova amministrazione ha optato
per una scelta di forte impatto che, in modo
esplicito, vietasse la coltivazione di cave
su tutto il territorio comunale e, in
particolare, a ridosso del centro abitato,
in considerazione delle già citate qualità
storico-architettoniche del centro e delle
rilevanti problematiche idrogeologiche
dell’area.
Tale decisione è stata presa sulla base di
considerazioni connesse all’identità dello
spazio tradizionalmente vissuto, alle
problematiche idrogeologiche, alle ricadute
economiche, alla necessità di impostare in
modo nuovo le relazioni tra comuni
appartenenti a regioni diverse (Campania e
Basilicata), alla sempre maggiore incidenza
delle considerazioni ambientali nelle
decisioni che investono il territorio e il
paesaggio.
Il tutto in un territorio (l’Alta Irpinia)
in cui sono presenti fenomeni negativi di
uso distorto dell’ambiente ma anche fenomeni
positivi come l’ipotesi di tutelare, con
l’istituzione di un parco provinciale,
l’alto corso dell’Ofanto e gli spazi
naturali che ancora lo connotano,
nell’ambito del progetto di rete ecologica
regionale (Provincia di Avellino, 2004).
Le specificità territoriali: memoria
collettiva e potenzialità economiche e
limiti amministrativi
Nel processo decisionale ripercorso in
precedenza una particolare rilevanza hanno
avuto le considerazioni relative ai processi
di riconoscimento dell’identità locale del
centro irpino.
Un sistema territoriale può essere letto
attraverso le correlazioni esistenti tra
sottosistemi; in particolare quello
geomorfologico, che muta naturalmente, e
quello antropico, che mette in moto processi
di cambiamento molto più accelerati e
distruttivi. Se è impossibile riuscire ad
agire sul sottosistema geomorfologico, è
sicuramente più agevole agire su quello
antropico e su di esso svolgere le
necessarie azioni per definire i limiti di
azione dei soggetti agenti.
In altre parole, la dinamica degli spazi e
dei luoghi rappresenta un fortissimo motore
di mutazione degli assetti, da cui deriva
che nessuno di essi è immutabile e che
cercare di bloccare le dinamiche
territoriali con strumenti di piano è azione
in larga massima utopica; nonostante ciò è
necessario fissare condizioni e rapporti tra
soggetti che circoscrivano e riducano gli
impatti territoriali di determinate azioni.
L’attenzione al sistema geomorfologico e
ambientale presuppone una gestione oculata
delle risorse ambientali ed una attenta
estensione del principio di conservazione
dei beni ambientali e paesistici che guidi i
processi di sviluppo economico e sociale
senza ridurne le potenzialità. Questi due
aspetti, spesso antitetici, hanno
condizionato nel tempo la pianificazione
paesistica (Zassi, 2000) e sono
esplicitamente presenti nel piano regolatore
di Sant’Andrea di Conza.
A questi aspetti se ne aggiunge un altro,
tutto interno alla storia civile di questa
comunità, connesso alla necessità di
riprendere un percorso di identificazione
con il territorio di insediamento,
distinguendo le attività insediabili in
ragione della significatività degli ambiti
che compongono il territorio. Ciò porta a
considerare in modo diversificato le
potenzialità di trasformazione, assumendo al
patrimonio conoscitivo della comunità il
mantenimento e la salvaguardia delle parti
che maggiormente hanno significato nel
presente e che ne hanno avuto nel passato.
L’area oggetto di discussione era fino a
qualche anno fa utilizzata come cava di
pietra favaccio, e così era indicata anche
sulle cartografie Igm. In quanto tale,
quest’area è stata sede del lavoro di tanti
santandreani che ne hanno cavato la pietra
per trasformarla in eccellenti prodotti
dell’artigianato: proprio questa memoria
storica dovrebbe essere gelosamente
custodita dalla comunità che dovrebbe
riappropriarsi di questo patrimonio invece
di vederlo sfumare.
In un certo periodo storico
(Seicento-Novecento) si è venuta formando e
consolidando in un centro dell’interno
irpino una civiltà della pietra di alta
qualità. Questa civiltà nasceva dalla
combinazione di fattori diversi: fattori
morfologici, ossia la possibilità di avere a
disposizione una pietra di grande forza
espressiva; fattori ambientali, ossia la
tradizione artigianale degli abitanti,
abituati a modificare gli elementi della
natura con grande abilità; fattori spaziali,
ossia l’impossibilità da parte di un centro
senza territorio di affidarsi
all’agricoltura per fondare la sua economia.
Da questi fattori è nata una civiltà,
rispetto alla quale è necessario porsi in
termini precisi e concreti: per
rivitalizzare una attività ancora viva, per
conservare le testimonianze esistenti, per
individuare, mediante la giusta mediazione,
la strada che consenta di tutelare le
memorie del territorio creando ricchezza e
lavoro. Per questi motivi, accanto ai
progetti volti alla creazione di una scuola
che rilanci l’artigianato della pietra può
essere utile, ad esempio, pensare alla
possibilità di creare un parco tematico
sull’area della cava di pietra che, insieme
ad altri elementi fisici, rappresenti un
sistema di testimonianze della storia reale
del centro.
L’alternativa è più semplice da perseguire:
un territorio ricco di testimonianze può
essere utilizzato in maniera indifferenziata
se la memoria collettiva si annulla nel
presente. In questo modo le motivazioni
contingenti prendono il sopravvento su
quelle di prospettiva, al punto che
qualunque utilizzo del territorio diviene
lecito.
I fenomeni si appesantiscono quando i
processi avvengono a cavallo di confini
amministrativi, ossia quando l’appartenenza
ad una regione o ad un’altra diviene fonte
di differenze sempre più marcate tra i
cittadini e le comunità.
È il caso di Sant’Andrea di Conza e della
sua decisione di non ammettere la possibile
utilizzazione a cava di un’area che,
oltrepassato il confine regionale con la
Basilicata, è utilizzata a questo fine. In
termini puramente teorici in casi del genere
dovrebbe poter sussistere un minimo di
coerenza nelle scelte effettuate dalle due
amministrazioni, in termini di indirizzi
generali, di coinvolgimento delle
popolazioni locali, di impatto paesistico e
geomorfologico.
La mancanza di scambio informativo rende
reali situazioni paradossali: un comune
appartenente ad una regione autorizza una
cava in un’area considerandone neutri gli
impatti ambientali (ammesso che ci sia stata
una valutazione di questo genere), mentre un
altro comune appartenente ad un’altra
regione vieta la possibilità di creare una
cava in aree limitrofe considerandone
negativo l’impatto in relazione alla
vicinanza al centro abitato e alla presenza
di vincoli e problematiche idrogeologiche.
Ma, valendo questo ragionamento, anche sulla
cava esistente la seconda amministrazione
potrebbe avere qualcosa da obiettare. Dal
che si deduce che l’autorizzazione di cave
in aree di confine viene effettuata come se
oltre il confine ci fosse il nulla. Un
atteggiamento miope che normalmente non
emerge finché sussiste la decisione da una
parte e il silenzio dall’altra. Quando però
si prende coscienza degli impatti negativi
il problema viene a galla e con esso il
possibile conflitto tra amministrazioni
appartenenti a regioni diverse, conflitto
che dovrebbe essere evitato con un corretto
approccio analitico relativo agli impatti
potenziali sul territorio visto nella sua
unitarietà, ossia indipendentemente dai
confini amministrativi, notoriamente
indifferenti alle problematiche ambientali e
paesaggistiche.
Conclusioni
Tutto ciò è connesso strettamente con la
mancanza di consuetudine alla
pianificazione, riscontrabile – in Campania
come nel resto del Mezzogiorno – soprattutto
a livello di pianificazione territoriale.
Questa mancanza di disciplina territoriale
rende difficoltoso e accidentato qualunque
processo di uso del territorio, soprattutto
per quelle funzioni ad alto impatto
territoriale e ambientale tra le quali si
annoverano le cave, capaci di generare
conflitti spesso molto negativi.
Un territorio pianificato è un territorio
ben governato o, almeno, sul quale si cerca
di porre rimedio ai “mali dello sviluppo” (Scandurra,
2000). L’avvio del processo di
pianificazione a livello regionale (piano
territoriale regionale) e a livello
provinciale (piano territoriale di
coordinamento provinciale) può rappresentare
un momento fondamentale di presa di
coscienza delle vocazioni e delle
specificità del territorio, soprattutto se i
rispettivi livelli territoriali, pur nello
spirito di cooperazione e di sussidiarietà
oggi continuamente invocato, sapranno
assumersi le proprie responsabilità e
svolgere i propri compiti con attenzione ed
efficienza, creando nel territorio le
premesse per realizzare reali forme di
perequazione in ambiti estesi (si veda
l’esperienza in corso in Emilia-Romagna,
Provincia di Modena, 2002), tali da rendere
possibile un effettivo riconoscimento dei
costi e dei benefici insediativi.
Le responsabilità di tali enti risiedono
anche nella messa in moto di una reale
cooperazione istituzionale con la
definizione di momenti e organismi che si
occupino delle problematiche relative ai
territori posti in prossimità dei limiti
amministrativi. La necessità di attuare
azioni di coordinamento nel campo della
pianificazione che superino i confini
amministrativi è già presente in una serie
di norme. La normativa comunitaria, in
particolare la Direttiva 42/2001 relativa
alla valutazione ambientale strategica di
piani e programmi, prevede una fase di
consultazione per la redazione di piani che
possono incidere sul territorio di altri
Stati membri. Questo principio potrebbe
essere adottato anche nella programmazione
di interventi in aree a cavallo tra due
regioni.
La stessa legge urbanistica della Regione
Basilicata (Lr 23/1999) sottolinea la
necessità che, per una serie di
problematiche, si realizzino azioni di
collegamento con le regioni contermini. In
particolare, in relazione al quadro
strutturale regionale (il piano
territoriale), la Regione Basilicata prevede
(art. 12, c. 4) che “al fine di rendere
coerenti le previsioni del Qsr con quelle
delle regioni contermini, il Qsr viene loro
trasmesso ufficialmente, invitandole a
formulare eventuali osservazioni entro il
termine di 30 giorni”. Allargando il
ragionamento, è evidente che la rilevanza di
alcuni processi di utilizzazione del
territorio impone momenti pianificatori
sovraregionali che rendano coerenti le
scelte localizzative.
Per quanto concerne le problematiche
paesaggistiche, si vuole sottolineare il
fatto che la percezione di ciò che si
considera paesaggio è sempre temporanea e
che le sue trasformazioni sono continue nel
corso del tempo e si basano sia su aspetti
visivi che naturalistici che culturali (Zanchini,
2004). Il sorgere della necessità di tutela
di un paesaggio è dovuto alla combinazione
di questi aspetti e ha lo scopo di rendere
impossibili modifiche profonde della
struttura di un paesaggio, pur in presenza
di modificazioni limitate.
Tutelare un paesaggio significa assegnare ad
esso un valore di opzione (Pireddu, 2002),
ossia un valore (che può essere anche
monetizzato) che le future generazioni si
ritroveranno a poter spendere se nel
frattempo la percezione del paesaggio
venisse a mutare. L’utilizzazione e il
depauperamento di un ambiente crea sì
ricchezza nel tempo presente, ma essa si
esaurisce nell’arco di qualche anno e, una
volta esaurita, esclude una possibile
alternativa da parte di chi verrà dopo. Chi
ci ha preceduto ha usato (senza saperlo) il
territorio in modo sostenibile, creando
cultura e civiltà, ed ha lasciato a noi la
possibilità di continuare a utilizzare quel
bene. Sta a noi decidere cosa lasciare ai
nostri figli.
Bibliografia
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in G. Mazzeo (ed.), “Saper vedere … le
trasformazioni urbane e territoriali”,
DiPiST, Università di Napoli “Federico II”,
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Legambiente (2004), Ambiente: sette cave
sequestrate a Caserta, comunicato
stampa, 3 dicembre.
Pireddu G. (2002), Economia dell’ambiente,
Apogeo, Milano.
Provincia di Avellino (2004), Studi
propedeutici per la redazione del piano
territoriale di coordinamento provinciale,
De Angelis Editore, Avellino.
Provincia di Modena, Inu Emilia-Romagna
(2002), Perequazione territoriale,
esperienze in corso alla luce della legge
regionale 20/2000, Modena.
Regione Campania (2004), Proposta di
piano territoriale regionale.
Scandurra E. (2000), Come urbanisti siamo
saggi?, in “Urbanistica Informazioni” n.
171, pp. 28-29.
Zanchini E. (2004), Nuovi scenari
ambientali per territori in trasformazione,
in “Urbanistica” n. 123, pp. 104-110.
Zassi M. (2000), La retorica ambientale
dei piani urbanistici, in “Paesaggio
urbano” n. 5-6, pp. 72-77. |