Numero 10/11 - 2005

 

Il territorio rifiutato  

 

Area Vasta n. 10/11 Luglio 2004 - Giugno 2005 Anno 6

numero 10/11  anno  2005

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In copertina Lello Lopez,

Da lontano, 2004

acrilico su tela, cm 40x30.

Fotografia di Vince Gargiulo

 

ISSN 1825-7526

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riappropriazione delle specificità culturali e sfruttamento del territorio nelle aree interne


Giuseppe Mazzeo


 

In Campania, come nel resto del Mezzogiorno, si riscontra la mancante consuetudine alla pianificazione territoriale. Tale mancanza rende difficoltoso e accidentato qualunque processo di uso del territorio, in particolare per le funzioni ad alto impatto territoriale e ambientale, tra le quali le attività di cava. Giuseppe Mazzeo, in qualità di progettista del Prg di Sant’Andrea di Conza, piccolo centro dell’Irpinia, analizza le problematiche riscontrate e le difficoltà emerse dalla possibile apertura di una cava a ridosso del centro abitato

 

 

Nella Regione Campania le problematiche connesse con l’apertura e la coltivazione delle cave assumono spesso il connotato di una delle tante emergenze ambientali presenti sul territorio. Da attività economica essa tende a divenire fonte di rischio, spesso degenerativo, derivante da impatti negativi a carattere ambientale (ad esempio quelli idrogeologici) e a carattere sociale (ad esempio quelli connessi con la criminalità o con la salute).

Secondo le ultime rilevazioni della Regione Campania, Settore cave, riportate da Legambiente (2004) e relative al 2003, il numero di cave censite sul territorio regionale era pari a 1.712. Di queste solo 196 erano autorizzate, mentre le rimanenti risultavano abbandonate (1.064), chiuse (272) o abusive (180). Sul totale delle cave censite, l’11,7% era localizzato in Provincia di Avellino, il 14,7% in Provincia di Napoli, il 17,6% in Provincia di Benevento, il 26,7% in Provincia di Caserta e il 29% in Provincia di Salerno. A testimonianza della difficoltà di definire un quadro preciso, nel 2001 la Regione Campania aveva censito solo 1.114 cave, come riportato nella proposta di piano territoriale regionale (2004). In Provincia di Avellino erano censite, nel 2003, 201 cave; di esse 38 erano autorizzate, 118 abbandonate, 31 chiuse e 14 abusive.

Alle problematiche generali sono collegate quelle locali, relative a specifici casi nei quali la localizzazione di una cava apre un dibattito che interessa le relazioni interne ed esterne ad una comunità, in questo caso quella di Sant’Andrea di Conza, comune di 2.000 abitanti in Provincia di Avellino, al confine con la Basilicata.

 

 

Riferimenti normativi

 

Il quadro normativo esistente nella Regione Campania si è formato in seguito al passaggio delle competenze che, a partire dal Dpr 616/1997, ha conferito alle regioni la potestà nel settore. Le autorizzazioni o le concessioni ai privati, definite da apposite norme regionali, dovrebbero discendere da una attenta valutazione di due interessi da sempre considerati opposti: “di tipo economico, per gli indubitabili vantaggi – anche occupazionali – connessi allo sfruttamento delle cave e di tipo ambientale, relativi al degrado che ne potrebbe derivare per il territorio” (Chieffi, 1998).

È costante il riconoscimento, da parte della giurisprudenza costituzionale, della rilevanza primaria della tutela ambientale quale vero e proprio diritto soggettivo. A partire dal 1986 (sentenze nn. 151/1986, 641/1987) la Corte ha sempre ritenuto che l’affermazione di un interesse economico (anch’esso riconosciuto dalla Costituzione, art. 41) non dovesse determinare la compressione totale dei beni ambientali, legati in modo stretto ai diritti della persona. Inoltre, la tutela dell’ambiente quale diritto personale è alla base di altri diritti – tra cui quello alla salute – connessi con il concetto generale di qualità della vita.

Da queste affermazioni discende che il diritto a esercitare una cava è subordinato in maniera generica alla tutela di interessi pubblici, e in modo specifico al diritto dell’amministrazione locale a predisporre strumenti di assetto del territorio indirizzati alla “proficua utilizzazione e godibilità da parte della collettività, secondo livelli di interessi costituzionalmente protetti” (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 723/1984).

La Regione Campania ha emanato la sua prima normativa in materia nel 1985 (Lr 54/1985 “Coltivazione di cave e torbiere”). Tale norma è stata modificata in parte dalla Lr 17/1995 il cui articolo 1 recita che “la Regione Campania disciplina … la ricerca e l’attività di cava nel proprio territorio al fine di conseguire un corretto uso delle risorse, nel quadro di una rigorosa salvaguardia dell’ambiente e nelle sue componenti fisiche, pedologiche, paesaggistiche, monumentali e della massima conservazione della superficie agraria utilizzabile ai fini produttivi”.

L’articolo 2, modificato nel 1995, regola il piano regionale delle attività estrattive “nel quadro delle esigenze generali di difesa dell’ambiente, del diritto alla salute dei cittadini, di recupero del patrimonio architettonico e monumentale dei borghi e dei centri storici della Campania, di sviluppo economico regionale e in linea con le politiche comunitarie in materia, per attuare una politica organica di approvvigionamento e di razionale utilizzazione delle risorse delle materie di cava”.

Ai sensi dell’articolo 7 della Lr 17/1995, infine, l’autorizzazione non può essere rilasciata in alcune specifiche situazioni di vincolo territoriale, ossia: “a) nelle zone nelle quali l’apertura o la coltivazione delle cave sia vietata da altre leggi regionali e nazionali o da provvedimenti regionali di carattere generale interessanti l’organizzazione e il riassetto del territorio; b) nelle zone nelle quali le cave sono vietate dagli strumenti urbanistici comunali in vigore; c) nelle zone vincolate ai sensi delle leggi 1º giugno 1939, n. 1089 e 29 giugno 1939, n. 1497; d) nei comuni privi di piano regolatore e quando esistono nuclei abitati a 500 metri dalle cave; e) nelle zone vincolate ai sensi della legge 8 agosto 1985, n. 431”.

A parte la constatazione che si attende ancora il varo definitivo del piano regionale delle cave, si sottolinea il fatto che all’interno della normativa regionale non esiste alcuna indicazione relativa a ipotesi localizzative prossime al confine regionale o al coinvolgimento della Regione Campania in procedure autorizzative svolte da altre regioni in prossimità del confine regionale. Questo aspetto rappresenta certamente una lacuna della norma, in considerazione del fatto che, rispetto a queste attività, possono sussistere atteggiamenti diversi in regioni contermini.

Negli indirizzi strategici contenuti nella proposta di piano territoriale regionale (Regione Campania, 2004) si sottolinea la necessità di prevedere interventi correttivi al fine di tutelare il territorio dai processi di degrado riscontrati nelle aree sede di impianti a cava. A questo scopo si ipotizzano alcune linee strategiche quali la chiusura degli impianti a rischio, la riduzione del fabbisogno di inerti per calcestruzzo, la conversione dell’industria tradizionale e la delocalizzazione degli impianti verso “siti a bassa densità abitativa e valore paesaggistico, promuovendo una dislocazione stellare intorno ai principali bacini di utilizzazione, qualora ciò sia compatibile con la rete dei trasporti e con la disponibilità degli inerti”.

È evidente però che la realizzazione di impianti di questo genere non può essere automaticamente consequenziale a processi di delocalizzazione, il cui risultato è solo quello di estendere il degrado del territorio ad aree ancora limitatamente interessate da tali fenomeni. Le valutazioni relativamente alla realizzazione di impianti di questo tipo devono essere attente e approfondite interessando effetti di ordine sociale (si pensi agli impatti temporanei e permanenti sul paesaggio ma anche sui redditi redistribuiti e sui trasporti) e di ordine ambientale (impatti geomorfologici, idrologici di superficie e di profondità, sulla vegetazione, sulla fauna, i rumori, le polveri, la qualità dell’acqua e dell’aria), oltre che sulla rilevanza economica del materiale estratto.

Ne discende che “l’individuazione delle aree che potenzialmente possono essere interessate da nuove attività estrattive dipende essenzialmente dalla disponibilità dei materiali, ma anche dai vincoli paesistici, idrogeologici e, più in generale, di tutela ambientale”, in considerazione del futuro piano regionale delle attività estrattive.

 

 

Sant’Andrea di Conza: il nuovo piano regolatore

 

Le problematiche connesse con la possibile apertura di una cava sono strettamente legate al processo di formazione del nuovo piano regolatore generale (Prg) del Comune di Sant’Andrea di Conza. Il caso studio ha un suo valore in quanto in esso sono compresenti due elementi interessanti: il primo è l’allarme ambientale che il progetto ha suscitato nella cittadinanza, il secondo è la constatazione delle incongruenze che possono verificarsi in territori a cavallo di due regioni in un momento in cui si rafforza il ruolo di questi enti a scapito di quello della Stato.

La redazione di un Prg rappresenta un momento, spesso lungo, durante il quale le necessità collettive di una comunità si incrociano e si scontrano con le volontà dei singoli attori. La singolarità del processo di redazione di questo strumento, singolarità dovuta soprattutto alla lunghezza che accompagna il processo di pianificazione, rende il risultato finale spesso assai diverso dalle ipotesi iniziali, sia per l’evoluzione sociale che per quella politica che può verificarsi nel frattempo.

Il primo Prg di questo comune irpino posto nell’epicentro del sisma del 1980 risale agli anni immediatamente successivi a questo evento. Il piano, insieme al contemporaneo piano di recupero e al successivo piano degli insediamenti produttivi, ha governato l’evoluzione del centro abitato per circa due decenni, con una attenzione tutta indirizzata verso gli aspetti fisico-edilizi del centro urbano e con attenzione marginale ai mutamenti in corso nelle aree extra-urbane.

Nel 1998, in fase di determinazione degli indirizzi del nuovo piano, si era ipotizzato – anche sulla base di una maggiore attenzione agli aspetti di qualità ambientale completamente dimenticati durante la fase di intervento post-terremoto – un nuovo strumento che puntasse su una più estesa tutela ambientale del territorio, da combinare con nuovi processi di sviluppo economico necessari a rivitalizzare l’economia del centro. Questi indirizzi sono stati perseguiti nella redazione del piano e sono stati tradotti in azioni specifiche e ciò soprattutto a partire dall’autunno 2003, quando l’amministrazione comunale ha deciso di accelerare e condurre a termine l’annoso iter.

Lo strumento di piano messo a punto, pur in presenza di alcune incongruenze, ha cercato di individuare i possibili percorsi di sviluppo del centro abitato agendo sulle specificità e sulle vocazioni del territorio, ossia su un centro storico integro anche dopo il terremoto del 1980, su un sistema di edifici monumentali ai quali affidare nuove funzioni, sulla creazione di due parchi urbani che sottolineassero una delle specificità del centro, ossia il binomio acqua-terra (Sant’Andrea paese dei mulini ad acqua), su un tessuto ancora forte di imprese artigiane agenti in prevalenza nel nuovo insediamento produttivo. Si ipotizzava che il sostegno all’economia locale potesse crearsi incrementando le alternative economiche sulle quali fare affidamento e affiancando, agli altri già esistenti, nuovi percorsi di sviluppo basati su un turismo sostenibile. Per fare questo tutto il territorio andava governato e gestito con attenzione e lungimiranza.

Nella primavera del 2004 il Prg, adottato ma non controdedotto, è stato sostanzialmente fatto proprio dalla nuova amministrazione, la quale ha però richiesto alcune importanti modifiche che hanno portato ad una nuova parziale pubblicazione. In particolare, a fronte di una precedente ipotesi che consentiva la possibile apertura di una cava in area agricola quasi a ridosso dell’area urbana, la nuova amministrazione ha optato per una scelta di forte impatto che, in modo esplicito, vietasse la coltivazione di cave su tutto il territorio comunale e, in particolare, a ridosso del centro abitato, in considerazione delle già citate qualità storico-architettoniche del centro e delle rilevanti problematiche idrogeologiche dell’area.

Tale decisione è stata presa sulla base di considerazioni connesse all’identità dello spazio tradizionalmente vissuto, alle problematiche idrogeologiche, alle ricadute economiche, alla necessità di impostare in modo nuovo le relazioni tra comuni appartenenti a regioni diverse (Campania e Basilicata), alla sempre maggiore incidenza delle considerazioni ambientali nelle decisioni che investono il territorio e il paesaggio.

Il tutto in un territorio (l’Alta Irpinia) in cui sono presenti fenomeni negativi di uso distorto dell’ambiente ma anche fenomeni positivi come l’ipotesi di tutelare, con l’istituzione di un parco provinciale, l’alto corso dell’Ofanto e gli spazi naturali che ancora lo connotano, nell’ambito del progetto di rete ecologica regionale (Provincia di Avellino, 2004).

 

 

Le specificità territoriali: memoria collettiva e potenzialità economiche e limiti amministrativi

 

Nel processo decisionale ripercorso in precedenza una particolare rilevanza hanno avuto le considerazioni relative ai processi di riconoscimento dell’identità locale del centro irpino.

Un sistema territoriale può essere letto attraverso le correlazioni esistenti tra sottosistemi; in particolare quello geomorfologico, che muta naturalmente, e quello antropico, che mette in moto processi di cambiamento molto più accelerati e distruttivi. Se è impossibile riuscire ad agire sul sottosistema geomorfologico, è sicuramente più agevole agire su quello antropico e su di esso svolgere le necessarie azioni per definire i limiti di azione dei soggetti agenti.

In altre parole, la dinamica degli spazi e dei luoghi rappresenta un fortissimo motore di mutazione degli assetti, da cui deriva che nessuno di essi è immutabile e che cercare di bloccare le dinamiche territoriali con strumenti di piano è azione in larga massima utopica; nonostante ciò è necessario fissare condizioni e rapporti tra soggetti che circoscrivano e riducano gli impatti territoriali di determinate azioni.

L’attenzione al sistema geomorfologico e ambientale presuppone una gestione oculata delle risorse ambientali ed una attenta estensione del principio di conservazione dei beni ambientali e paesistici che guidi i processi di sviluppo economico e sociale senza ridurne le potenzialità. Questi due aspetti, spesso antitetici, hanno condizionato nel tempo la pianificazione paesistica (Zassi, 2000) e sono esplicitamente presenti nel piano regolatore di Sant’Andrea di Conza.

A questi aspetti se ne aggiunge un altro, tutto interno alla storia civile di questa comunità, connesso alla necessità di riprendere un percorso di identificazione con il territorio di insediamento, distinguendo le attività insediabili in ragione della significatività degli ambiti che compongono il territorio. Ciò porta a considerare in modo diversificato le potenzialità di trasformazione, assumendo al patrimonio conoscitivo della comunità il mantenimento e la salvaguardia delle parti che maggiormente hanno significato nel presente e che ne hanno avuto nel passato.

L’area oggetto di discussione era fino a qualche anno fa utilizzata come cava di pietra favaccio, e così era indicata anche sulle cartografie Igm. In quanto tale, quest’area è stata sede del lavoro di tanti santandreani che ne hanno cavato la pietra per trasformarla in eccellenti prodotti dell’artigianato: proprio questa memoria storica dovrebbe essere gelosamente custodita dalla comunità che dovrebbe riappropriarsi di questo patrimonio invece di vederlo sfumare.

In un certo periodo storico (Seicento-Novecento) si è venuta formando e consolidando in un centro dell’interno irpino una civiltà della pietra di alta qualità. Questa civiltà nasceva dalla combinazione di fattori diversi: fattori morfologici, ossia la possibilità di avere a disposizione una pietra di grande forza espressiva; fattori ambientali, ossia la tradizione artigianale degli abitanti, abituati a modificare gli elementi della natura con grande abilità; fattori spaziali, ossia l’impossibilità da parte di un centro senza territorio di affidarsi all’agricoltura per fondare la sua economia. Da questi fattori è nata una civiltà, rispetto alla quale è necessario porsi in termini precisi e concreti: per rivitalizzare una attività ancora viva, per conservare le testimonianze esistenti, per individuare, mediante la giusta mediazione, la strada che consenta di tutelare le memorie del territorio creando ricchezza e lavoro. Per questi motivi, accanto ai progetti volti alla creazione di una scuola che rilanci l’artigianato della pietra può essere utile, ad esempio, pensare alla possibilità di creare un parco tematico sull’area della cava di pietra che, insieme ad altri elementi fisici, rappresenti un sistema di testimonianze della storia reale del centro.

L’alternativa è più semplice da perseguire: un territorio ricco di testimonianze può essere utilizzato in maniera indifferenziata se la memoria collettiva si annulla nel presente. In questo modo le motivazioni contingenti prendono il sopravvento su quelle di prospettiva, al punto che qualunque utilizzo del territorio diviene lecito.

I fenomeni si appesantiscono quando i processi avvengono a cavallo di confini amministrativi, ossia quando l’appartenenza ad una regione o ad un’altra diviene fonte di differenze sempre più marcate tra i cittadini e le comunità.

È il caso di Sant’Andrea di Conza e della sua decisione di non ammettere la possibile utilizzazione a cava di un’area che, oltrepassato il confine regionale con la Basilicata, è utilizzata a questo fine. In termini puramente teorici in casi del genere dovrebbe poter sussistere un minimo di coerenza nelle scelte effettuate dalle due amministrazioni, in termini di indirizzi generali, di coinvolgimento delle popolazioni locali, di impatto paesistico e geomorfologico.

La mancanza di scambio informativo rende reali situazioni paradossali: un comune appartenente ad una regione autorizza una cava in un’area considerandone neutri gli impatti ambientali (ammesso che ci sia stata una valutazione di questo genere), mentre un altro comune appartenente ad un’altra regione vieta la possibilità di creare una cava in aree limitrofe considerandone negativo l’impatto in relazione alla vicinanza al centro abitato e alla presenza di vincoli e problematiche idrogeologiche.

Ma, valendo questo ragionamento, anche sulla cava esistente la seconda amministrazione potrebbe avere qualcosa da obiettare. Dal che si deduce che l’autorizzazione di cave in aree di confine viene effettuata come se oltre il confine ci fosse il nulla. Un atteggiamento miope che normalmente non emerge finché sussiste la decisione da una parte e il silenzio dall’altra. Quando però si prende coscienza degli impatti negativi il problema viene a galla e con esso il possibile conflitto tra amministrazioni appartenenti a regioni diverse, conflitto che dovrebbe essere evitato con un corretto approccio analitico relativo agli impatti potenziali sul territorio visto nella sua unitarietà, ossia indipendentemente dai confini amministrativi, notoriamente indifferenti alle problematiche ambientali e paesaggistiche.

 

 

Conclusioni

 

Tutto ciò è connesso strettamente con la mancanza di consuetudine alla pianificazione, riscontrabile – in Campania come nel resto del Mezzogiorno – soprattutto a livello di pianificazione territoriale. Questa mancanza di disciplina territoriale rende difficoltoso e accidentato qualunque processo di uso del territorio, soprattutto per quelle funzioni ad alto impatto territoriale e ambientale tra le quali si annoverano le cave, capaci di generare conflitti spesso molto negativi.

Un territorio pianificato è un territorio ben governato o, almeno, sul quale si cerca di porre rimedio ai “mali dello sviluppo” (Scandurra, 2000). L’avvio del processo di pianificazione a livello regionale (piano territoriale regionale) e a livello provinciale (piano territoriale di coordinamento provinciale) può rappresentare un momento fondamentale di presa di coscienza delle vocazioni e delle specificità del territorio, soprattutto se i rispettivi livelli territoriali, pur nello spirito di cooperazione e di sussidiarietà oggi continuamente invocato, sapranno assumersi le proprie responsabilità e svolgere i propri compiti con attenzione ed efficienza, creando nel territorio le premesse per realizzare reali forme di perequazione in ambiti estesi (si veda l’esperienza in corso in Emilia-Romagna, Provincia di Modena, 2002), tali da rendere possibile un effettivo riconoscimento dei costi e dei benefici insediativi.

Le responsabilità di tali enti risiedono anche nella messa in moto di una reale cooperazione istituzionale con la definizione di momenti e organismi che si occupino delle problematiche relative ai territori posti in prossimità dei limiti amministrativi. La necessità di attuare azioni di coordinamento nel campo della pianificazione che superino i confini amministrativi è già presente in una serie di norme. La normativa comunitaria, in particolare la Direttiva 42/2001 relativa alla valutazione ambientale strategica di piani e programmi, prevede una fase di consultazione per la redazione di piani che possono incidere sul territorio di altri Stati membri. Questo principio potrebbe essere adottato anche nella programmazione di interventi in aree a cavallo tra due regioni.

La stessa legge urbanistica della Regione Basilicata (Lr 23/1999) sottolinea la necessità che, per una serie di problematiche, si realizzino azioni di collegamento con le regioni contermini. In particolare, in relazione al quadro strutturale regionale (il piano territoriale), la Regione Basilicata prevede (art. 12, c. 4) che “al fine di rendere coerenti le previsioni del Qsr con quelle delle regioni contermini, il Qsr viene loro trasmesso ufficialmente, invitandole a formulare eventuali osservazioni entro il termine di 30 giorni”. Allargando il ragionamento, è evidente che la rilevanza di alcuni processi di utilizzazione del territorio impone momenti pianificatori sovraregionali che rendano coerenti le scelte localizzative.

Per quanto concerne le problematiche paesaggistiche, si vuole sottolineare il fatto che la percezione di ciò che si considera paesaggio è sempre temporanea e che le sue trasformazioni sono continue nel corso del tempo e si basano sia su aspetti visivi che naturalistici che culturali (Zanchini, 2004). Il sorgere della necessità di tutela di un paesaggio è dovuto alla combinazione di questi aspetti e ha lo scopo di rendere impossibili modifiche profonde della struttura di un paesaggio, pur in presenza di modificazioni limitate.

Tutelare un paesaggio significa assegnare ad esso un valore di opzione (Pireddu, 2002), ossia un valore (che può essere anche monetizzato) che le future generazioni si ritroveranno a poter spendere se nel frattempo la percezione del paesaggio venisse a mutare. L’utilizzazione e il depauperamento di un ambiente crea sì ricchezza nel tempo presente, ma essa si esaurisce nell’arco di qualche anno e, una volta esaurita, esclude una possibile alternativa da parte di chi verrà dopo. Chi ci ha preceduto ha usato (senza saperlo) il territorio in modo sostenibile, creando cultura e civiltà, ed ha lasciato a noi la possibilità di continuare a utilizzare quel bene. Sta a noi decidere cosa lasciare ai nostri figli.

 

 

Bibliografia

 

Chieffi L. (1998), Il quadro normativo, in G. Mazzeo (ed.), “Saper vedere … le trasformazioni urbane e territoriali”, DiPiST, Università di Napoli “Federico II”, Giannini Editore, Napoli, pp. 275-279.

Legambiente (2004), Ambiente: sette cave sequestrate a Caserta, comunicato stampa, 3 dicembre.

Pireddu G. (2002), Economia dell’ambiente, Apogeo, Milano.

Provincia di Avellino (2004), Studi propedeutici per la redazione del piano territoriale di coordinamento provinciale, De Angelis Editore, Avellino.

Provincia di Modena, Inu Emilia-Romagna (2002), Perequazione territoriale, esperienze in corso alla luce della legge regionale 20/2000, Modena.

Regione Campania (2004), Proposta di piano territoriale regionale.

Scandurra E. (2000), Come urbanisti siamo saggi?, in “Urbanistica Informazioni” n. 171, pp. 28-29.

Zanchini E. (2004), Nuovi scenari ambientali per territori in trasformazione, in “Urbanistica” n. 123, pp. 104-110.

Zassi M. (2000), La retorica ambientale dei piani urbanistici, in “Paesaggio urbano” n. 5-6, pp. 72-77.

 

 

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