Il turismo nautico è attualmente uno dei
settori economici con maggiori prospettive
di espansione; il suo sviluppo comporta
ricadute positive sul territorio sia
direttamente, attraverso le attività
economiche collegate al movimento dei
diportisti – ricovero e manutenzione delle
imbarcazioni, ristorazione, spettacoli e
visite turistiche – sia indirettamente per i
riflessi sull’industria della nautica, la
quale non può che ricevere benefici dalla
disponibilità di posti barca e dalla
maggiore sicurezza nella navigazione
connessa all’esistenza di strutture portuali
non troppo distanti fra loro.
Inoltre, a differenza di molti altri settori
turistici, concentrati in un ristretto
periodo dell’anno, il turismo nautico è
associato a una richiesta di servizi che non
cessa del tutto neanche nella stagione
relativamente più debole. All’incremento di
movimento nel periodo estivo si associa,
infatti, una più forte necessità di ricovero
invernale delle imbarcazioni da parte dei
proprietari residenti in vicinanza di un
porto; questa domanda è, quindi, massima
proprio quando la presenza turistica
propriamente detta è minima.
In questo senso la nautica sembra essere una
carta vincente non solo per i paesi più
sviluppati, ma soprattutto per le aree
depresse del Mezzogiorno d’Europa e del Nord
Africa.
Questa importante possibilità tuttavia non è
senza rischi, poiché anche sul turismo
nautico – come sugli altri settori turistici
– incombono i rischi e i limiti derivanti
dall’impatto con l’ambiente.
Tutte le attività turistiche sembrano
portare con sé il limite della propria
espansione, poiché l’affollamento delle zone
in cui esse si svolgono ne comporta
inevitabilmente il degrado e la diminuzione
di interesse – basti pensare alla condizione
delle stazioni sciistiche durante le vacanze
invernali o delle spiagge più popolari nei
mesi di luglio e agosto. La vastità del
mare, per la verità, è tale da rendere
impensabile, anche nelle ipotesi di sviluppo
più sfrenato, la saturazione delle superfici
disponibili al largo. Va tuttavia tenuto
presente che la gran parte delle attività
nautiche si svolge a poche miglia (o a poche
centinaia di metri!) dalle coste e
soprattutto gran parte dello stazionamento
delle imbarcazioni si svolge all’ormeggio in
un porto o in un rimessaggio a terra.
L’infrastruttura principale per lo sviluppo
del turismo nautico – il porto turistico –
ne costituisce, dunque, l’aspetto critico
dal punto di vista delle conseguenze
ambientali e, quindi, della sua
accettabilità e in ultima analisi della sua
stessa desiderabilità.
Parte essenziale della pianificazione dello
sviluppo di questa attività è l’analisi
dell’influenza che i porti possono avere sui
litorali circostanti. Ciò è tanto più
importante in quanto ai pericoli e ai danni
reali si aggiunge spesso una percezione
erronea, perché esagerata e distorta, di
questa influenza. Ciò può avere conseguenze
sociali ed economiche gravi per un paese
come l’Italia, e ancora di più per i paesi
mediterranei in via di sviluppo dove il
turismo balneare è una delle risorse più
importanti; è essenziale, quindi, che la
costruzione e l’esercizio dei porti
turistici non contribuisca in nessun modo al
degrado delle spiagge.
In questo articolo si esaminano da una parte
l’importanza economica e le prospettive di
sviluppo del turismo nautico, e dall’altro i
rischi – reali o percepiti – di impatto del
sistema portuale turistico sull’ambiente e,
in particolare, sull’equilibrio dei litorali
sabbiosi adiacenti, che di questo impatto
costituisce l’aspetto di gran lunga più
rilevante.
Il turismo nautico
Il turismo nautico, in Italia, ha raggiunto
un livello di maturità per quanto attiene la
domanda e l’offerta del mezzo nautico, la
domanda dei servizi connessi e la domanda
dei luoghi di stazionamento.
L’offerta corrispondente a questi ultimi due
punti, l’infrastruttura portuale
specializzata, è invece ancora
approssimativa e per molti aspetti
embrionale.
La situazione della portualità turistica
italiana presenta un notevole ritardo
rispetto alla maggior parte dei paesi a
economia avanzata del bacino Mediterraneo ed
è caratterizzata da una disomogenea
distribuzione di posti barca attrezzati
lungo le coste e da una loro concentrazione
limitata, principalmente, a poche aree del
centro-nord.
Nelle regioni meridionali del nostro paese,
poi, si registra un ritardo ancora maggiore
e la concorrenza di altri paesi del bacino
Mediterraneo, quali Tunisia, Grecia e
Turchia, diviene sempre più forte e
organizzata.
Non troppo complessa è la quantificazione
dell’offerta, espressa in termini di posti
barca, in virtù della disponibilità di dati
ufficiali attendibili. Non altrettanto
accade per la stima della domanda, il cui
parametro fondamentale è il numero delle
immatricolazioni, per la quale, invece,
mancano dati ufficiali di riferimento.
Infatti, la normativa vigente, rendendo
obbligatoria l’immatricolazione delle sole
imbarcazioni di lunghezza superiore ai 10 m,
preclude la conoscenza di quel vasto,
maggioritario, segmento di imbarcazioni che
grava sulle coste italiane.
Tuttavia, prima di affrontare la stima della
domanda, utile a quantificare il fenomeno
del turismo nautico in Italia, è necessaria
una riflessione sull’infrastruttura
portuale, a partire dall’assunto che essa
rappresenta un’opportunità di sviluppo per
il proprio contesto di appartenenza.
Come si è detto in premessa, il settore
della nautica genera un indotto rilevante,
inerente sia alle attività di produzione e
commercializzazione di scafi e attrezzature
sia alle attività terziarie rivolte agli
armatori (ristorazione, prodotti alimentari
e non, ecc.) o legate al turismo (musei,
siti archeologici, aree protette, ecc.).
Occorre, tuttavia, sottolineare che tale
indotto non è relativo a tutte le
imbarcazioni, bensì a quelle di medie e
grandi dimensioni (lunghezza superiore ai 7
m fuori tutto), che rappresentano, pertanto,
la domanda di qualità. Il rimanente segmento
di imbarcazioni, quelle di dimensioni
piccole (al di sotto di 7 m l.f.t.) produce
un impatto sullo sviluppo delle attività
nautiche e sui settori collegati non
consistente, in quanto necessita di un
minore impiego di spazi e di servizi
(marcata autonomia del diportista, minore
spesa per le attrezzature, carburante e
cambusa, dovuta alle dimensioni della barca
che all’uso giornaliero della stessa).
In questa ottica, dunque, occorre favorire
la specializzazione della infrastrutture
portuali in relazione alla domanda di
qualità, favorendo l’impianto di porti a
secco per la gestione del parco nautico di
piccole dimensioni.
I porti a secco (dry storage) sono
strutture di accoglienza predisposte a
terra, caratterizzate da un basso costo di
impianto e manutenzione, ovviamente da
inserire in maniera adeguata nell’ambiente
circostante.
Facendo riferimento al criterio che
classifica le diverse tipologie di utenza
nautica in base al periodo di utilizzo del
porto, la domanda di qualità che
l’infrastruttura portuale specializzata deve
soddisfare è quella relativa al diporto
stanziale e di transito.
Il diporto stanziale, che interessa l’utenza
che raggiunge il porto via terra, è generato
in parte da un’utenza locale, con estensione
comunale o regionale in funzione del grado
di sviluppo dei collegamenti viari, che
utilizza la barca nel tempo libero con una
frequenza piuttosto elevata durante tutto
l’anno. È inoltre generato da un’utenza
extra regionale e, talvolta, extra nazionale
stimolata dalla presenza di efficienti reti
di trasporto a medio/lungo raggio
(autostrade, ferrovia e aeroporti), dalla
presenza di strutture e attività di servizio
all’imbarcazione e, infine, dalla
localizzazione favorevole del porto rispetto
alle mete turistiche e alle aree di vacanza.
Il diporto di transito, relativo alla
categoria di utenza che raggiunge il porto
via mare, è generato dal traffico di matrice
turistica per periodi brevi durante i mesi
estivi. Il transito dà vita a una
particolare categoria di turismo, il turismo
nautico, differente da quello tradizionale.
Esso è favorito dalla presenza, nelle
vicinanze del porto interessato, di siti
turistici, di aree idonee alla balneazione
e, in generale, da un contesto ambientale
gradevole, ma è anche stimolato dalla
presenza di strutture di accoglienza dotate
di un’ampia offerta di servizi.
Dunque, la stima offerta/domanda di qualità,
secondo quanto espresso finora, si
differenzia da quella più generale di tipo
tradizionale, ed è caratterizzata da un
livello di complessità/articolazione
maggiore dovuta in parte alla revisione dei
termini relativi ai parametri tradizionali,
in parte all’introduzione di nuovi
parametri.
Significativi, rispetto al numero dei posti
barca e al numero delle immatricolazioni,
considerati parametri originali, sono:
- in relazione alla domanda, il recupero del
cosiddetto segmento di qualità non
registrato, corrispondente a quelle
imbarcazioni, di lunghezza compresa tra 7 e
10 m di lunghezza, la cui esistenza, in
virtù delle successive modifiche della legge
11 febbraio 1957, non è più documentata
dalle fonti ufficiali;
- in relazione all’offerta, l’esclusione del
segmento dei natanti di lunghezza inferiore
ai 7 m l.f.t., per il quale si auspica la
realizzazione dei porti a secco.
Si accenna soltanto, in merito alla
dotazione dei servizi offerti dal porto,
all’opportunità di introdurre una
distinzione tra servizi base, attinenti
all’attività nautica in senso stretto, e
servizi accessori, ossia il terziario
menzionato in precedenza.
Per illustrare, dunque, la dimensione del
turismo nautico, nell’ottica
dell’infrastruttura portuale specializzata,
è utile considerare gli esiti delle stime
numeriche relative all’offerta, alla domanda
e al rapporto tra loro intercorrente, che
rappresentano uno stralcio di un lavoro più
ampio e innovativo (Tabella 1).
Da tali dati si evince che la domanda di
qualità insoddisfatta è decisamente
consistente. Inoltre, è importante osservare
come è la stessa offerta a trainare la
domanda in un inseguirsi di cifre che vedono
nella possibilità di stazionamento sicuro un
forte incentivo all’acquisto o
all’accrescimento nelle dimensioni della
propria imbarcazione. Tale affermazione,
riscontrabile nelle valutazioni relative a
regioni mature dal punto di vista
infrastrutturale, quali la Liguria e la
Toscana, è ben descritta dallo sviluppo di
coste ad alta/altissima incidenza di porti
turistici, quali la Costa Azzurra o il
fiordo di Southampton, dimostratisi negli
anni prima località all’avanguardia nel
settore poi sviluppatosi di una utenza
nazionale e infine attrattori su vasta scala
di utenza internazionale.
Un esempio di rete nazionale dei porti
turistici
La rete nazionale dei porti turistici, in
questo orizzonte, è un progetto organico
teso allo sviluppo del settore della
portualità turistica attuabile in un arco di
tempo compatibile con le attese di sviluppo
del tessuto socio-economico correlato ed è
promossa dal Ministero dell’economia e dal
Ministero delle infrastrutture.
Per l’attuazione del progetto è stata
costituita e adeguatamente finanziata da
Sviluppo Italia una società per azioni
denominata Italia Navigando.
Al termine del programma novennale, nel
2011, il sistema portuale, promosso e
sviluppato da Italia Navigando, avrà una
consistenza complessiva di circa 25.000
posti barca, di cui il 10% (2.500 posti
barca) interesserà le imbarcazioni al di
sotto dei 7 m l.f.t. Tale consistenza
rappresenterà, a quell’epoca, il 16%
dell’offerta relativa alle infrastrutture
portuali specializzate del paese. Quel 10%
relativo all’imbarcazioni di piccole
dimensioni troverà ospitalità in apposite
strutture all’asciutto (dry stack storage).
La rete costruita da Italia Navigando
soddisferà soltanto una quota parte delle
esigenze, ma funzionerà da stimolo e da
modello per altre iniziative.
Gli interventi saranno realizzati attraverso
specifiche intese con regioni e comuni
mediante stipula di convenzioni con gli enti
locali per la programmazione e realizzazione
degli interventi e costituzione di società
di scopo a livello locale in eventuale
partnership con enti locali territoriali e
operatori privati, nonché acquisizione di
partecipazioni in società già operative
nella gestione di porti turistici.
Il complesso degli investimenti necessari
per collegare in rete le prime cinquanta
realtà portuali specializzate è di circa 600
milioni di euro provenienti sia da risorse
pubbliche dedicate (non più del 30%) che da
investimenti privati e bancari o da
autofinanziamento.
Il ritorno occupazionale atteso da questa
realizzazione è imponente, a fronte
dell’investimento pubblico previsto, sia in
termini di nuova occupazione sia diretta che
indiretta. Rispettivamente 5.000 unità e
3.000 unità pari a un rapporto di un nuovo
posto di lavoro per ogni 20.000 euro circa
di investimento pubblico atteso.
I porti turistici e l’evoluzione del
litorale
I litorali sabbiosi sono in continuo
movimento: anche l’osservatore occasionale
può notare – su una spiaggia a lui familiare
– il sensibile mutamento della posizione
della battigia nel corso di un anno,
solitamente tra estate e inverno, o
addirittura in corrispondenza di una singola
forte mareggiata.
Le oscillazioni più o meno casuali derivanti
dall’azione del mare mostrano una certa
regolarità annuale, per cui le spiagge in
estate sono più estese che in inverno.
Questa relativa regolarità si sovrappone a
tendenze di più lungo periodo – e di origine
generalmente incerta – che possono essere di
accrescimento oppure di erosione.
La percezione più comune però – sia dei
profani sia di gran parte degli studiosi del
ramo – è che la tendenza prevalente in
Italia sia quella erosiva, cioè verso la
progressiva riduzione o addirittura
scomparsa delle spiagge. Le spiegazioni di
questo fenomeno generale abbondano: si va
dalle variazioni climatiche, che possono
influenzare il clima marino, alla variazione
del livello medio del mare, alla
realizzazione di dighe e briglie a monte
delle foci fluviali e naturalmente alla
costruzione di porti e difese costiere.
Ogni variazione nell’equilibrio di questi
fattori produce immediati effetti sul
litorale e la ricerca di un nuovo equilibrio
naturale, in accrescimento o in erosione.
Nella storia sono presenti esempi di cause
anche molto lontane dai litorali medesimi
che hanno prodotto sensibili effetti, anche
di lunga durata, sui litorali.
Uno fra tutti l’evoluzione del litorale
laziale alla foce del Tevere che ha segnato
cospicui protendimenti nei periodi di
benessere e potenza economica di Roma a
causa delle deforestazioni del bacino
imbrifero umbro-laziale del Tevere ed
erosioni nei periodi bui del primo e secondo
medioevo caratterizzati da riforestazione
spontanea.
In molti casi a questa mutazioni reali si
sovrappone l’effetto psicologico della
nostalgia. Quali che siano le tendenze in
atto e quali che ne siano i motivi, naturali
o indotti dall’uomo, il litorale è comunque
una realtà in sensibile mutamento rispetto
ai tempi della vita umana. La reazione
comune a questo mutamento è il desiderio che
tutto torni come era prima, anche se
l’immagine che individualmente ognuno
conserva di una spiaggia è solo un istante
di quello che, su una scala dei tempi anche
non troppo lunga, è in realtà un processo
fortemente dinamico. È assai verosimile, ad
esempio, che in passato – tra il XIX e la
prima metà del XX secolo quando l’effetto
del disboscamento connesso alle costruzioni
e all’impiego su larga scala del carbone di
legna si faceva già sentire con il
conseguente incrementato apporto di
sedimenti, ma non si avvertivano ancora le
conseguenze degli interventi di sistemazione
fluviale – si sia verificata una fase di
relativa abbondanza di litorali sabbiosi.
Questo momento storico evidentemente non
tornerà mai più, ma è ormai fissato nella
memoria di generazioni.
In ogni caso, anche nelle situazioni in cui
questo arretramento delle spiagge non si
verifica in senso generale, sono comunque
presenti forti oscillazioni temporali e
spaziali della linea di spiaggia su periodi
di tempo dell’ordine degli anni. Queste
possono essere causate tra l’altro dalle
variazioni annuali del moto ondoso
incidente, ma è interessante notare che
l’instabilità morfologica della linea di
costa è in molti casi un effetto intrinseco,
poiché la linea di costa è soggetta a
instabilità propria anche indipendentemente
dalle variazioni climatiche e dall’apporto
solido fluviale e dalla presenza di
interventi antropici. Questo aspetto, fino a
tempi recenti oggetto di osservazione
empirica da parte degli operatori e degli
studiosi del settore, ha trovato una
dimostrazione formale riportata recentemente
su Nature (Ashton et alii).
Tutte queste fluttuazioni, quale ne sia
l’origine, provocano come è naturale,
allarme e preoccupazione tra gli esercenti e
gli utenti degli stabilimenti balneari. È
evidente, infatti, che mentre la riduzione
della larghezza di spiaggia disponibile può
mettere a rischio o fare scomparire
l’attività turistica, il suo accrescimento
oltre un certo limite non comporta nessun
vantaggio. Quando il litorale è fortemente
occupato da attività legate al turismo e al
tempo stesso la sua estensione varia
continuamente, si ha come risultato la
creazione continua di situazioni di crisi e
di scontento, anche se l’area totale
balneabile non varia.
A titolo di esempio si può considerare
l’analisi elaborata nel corso di uno studio
svolto dell’Università della Calabria (Giarrusso
et alii) su un tratto della costa tirrenica
della Calabria compresa tra il Comune di
Amantea a nord e quello di Gizzeria a sud.
Nel corso di tale studio sono state
analizzate le variazioni sopravvenute nelle
linee di costa storiche tra il 1934 e 1992 e
si è evidenziato, esaminando il bilancio
delle variazioni, che l’erosione complessiva
in tale zona nel lungo periodo considerato è
stata assai limitata (Figura 1).
|
Figura 1 - Bilancio dei volumi tra i
promontori di Coreca e di Suvero |
È evidente, quindi, che in questo caso i
fenomeni erosivi con i danni effettivamente
riscontrati e il relativo allarme tra le
popolazioni sono dovuti alle variazioni
spaziali e temporali su più piccola scala
del fenomeno. Può, infatti, accadere che un
solo episodio di poche ore (mareggiata)
possa provocare una rilevante modifica del
profilo trasversale di una spiaggia, ma
nell’arco di una o più stagioni la
perturbazione conseguente viene largamente
mascherata dall’evoluzione a medio termine
della linea di battigia, ed è questo
certamente il caso calabrese in esame.
Alla luce di quanto riportato risulta chiaro
che il fenomeno della diminuzione delle
spiagge è dovuto a un insieme di cause
spesso non facilmente isolabili l’una
dall’altra; il disboscamento, le
sistemazioni montane, le variazioni
climatiche, la costruzione di invasi, la
realizzazione di porti e altre opere
costiere intervengono in varia maniera su un
regime dei litorali che risulta
complessivamente caotico e, quindi, poco
prevedibile almeno sotto l’aspetto
strettamente quantitativo.
Quando si guardi il fenomeno su scala
temporale e spaziale più ridotta si nota
però che l’effetto di singole cause è più
immediato e più facilmente identificabile;
le zone immediatamente a ridosso di un
intervento litoraneo, ad esempio, sono
notoriamente influenzate dagli ostacoli
posti al trasporto dei sedimenti lungo la
costa.
All’esempio di prima si può contrapporre
quello, quasi da manuale, della costa
compresa tra il fiume Basento e Sapri (Figura
2) in cui la costruzione di un porto
turistico in località Santa Marina ha
influenzato in maniera vistosa il regime
litoraneo.
|
Figura 2 - Accumulo di sedimenti a ridosso
di un porto e area erosa |
In questo sito la direzione prevalente delle
mareggiate al largo è da ovest, all’incirca
parallela alla direzione della costa.
Esiste, quindi, in questo caso, come in
molti analoghi, una forte tendenza al
trasporto di sedimenti lungocosta che, in
condizioni indisturbate, in parte si
disperde verso il largo e in parte può
restare intrappolato nei fondali
relativamente profondi localizzati lungo il
lato est del litorale.
In passato la perdita veniva bilanciata
dall’apporto solido proveniente dal fiume
Basento. Questo apporto è venuto meno per
due ragioni: la costruzione di una diga
lungo il corso del fiume e la realizzazione
del porto turistico. È difficile – oltre che
inutile in questo contesto – distinguere
l’importanza relativa di questi due fattori.
È però evidentissimo l’ostacolo causato dal
molo di sopraflutto del porto, in
corrispondenza del quale si è formato un
accumulo di materiale sabbioso. Solo il
materiale più sottile può oltrepassare tale
sbarramento. Lo squilibrio così creatosi
causa la situazione erosiva a ovest –
testimoniata tra l’altro dalle numerose
opere di protezione realizzate nel corso
degli anni.
Non c’e motivo di ritenere che questo
meccanismo debba arrestarsi in futuro.
Un ulteriore esempio che vale la pena di
segnalare è il caso della baia di Cala
Galera in Provincia di Grosseto (Figura 3
e 4).
|
Figura 3 - Baia di Cala Galera |
La baia situata all’apice occidentale della
falcata sabbiosa del tombolo della Feniglia
fungeva da naturale polmone di compenso alla
medesima spiaggia. A seguito della
costruzione, sulla porzione più meridionale
della baia, di un approdo turistico, il
naturale flusso e riflusso delle sabbie si è
ovviamente arrestato producendo un
progressivo interrimento della porzione di
baia non portuata. Il materiale ivi deposto
(oggi oltre 2.000.000 m³) è stato ovviamente
sottratto all’equilibrio della Feniglia.
|
Figura 4 - Baia di Cala Galera |
Dopo quasi trenta anni e verificato
purtroppo de visu il degrado
ambientale dell’ansa residua della baia – un
acquitrino melmoso – (Figura 5),
l’insabbiamento dell’imboccatura portuale
della Marina di Cala Galera e l’erosione
della porzione centrale della falcata
sabbiosa della Feniglia. Appare evidente la
necessità di un intervento di protezione e
ripristino che potrebbe essere realizzato
attraverso la modellazione del vertice di
Poggio Pertuso e il ripascimento con le
sabbie dragate della parte centrale della
spiaggia della Feniglia. Le popolazioni
locali, tuttavia, rese diffidenti dagli
effetti negativi degli interventi
precedenti, non sono ancora convinte
dell’opportunità di realizzare queste opere
di protezione e ripristino.
La pianificazione dello sviluppo costiero
deve, tra le altre cose, anche riscattare
l’eredità negativa dello sviluppo
incontrollato degli anni passati.
|
Figura 5 - Baia di Cala Galera |
La pianificazione portuale come elemento di
freno al degrado
Contributo fondamentale alla limitazione
degli impatti sul territorio, con
particolare riguardo a quello litoraneo, è
offerto da un processo di pianificazione
degli interventi che seguono le leggi della
domanda e dell’offerta e sono rispettosi dei
limiti imposti dall’ingegneria marittima.
Ogni comunità costiera nazionale ritiene di
ottenere grandi ritorni in termini economici
e di immagine dalla realizzazione di un
approdo turistico, prescindendo dalle
fondamentali leggi della domanda e
dell’offerta e dalla stessa fattibilità
tecnica delle diverse iniziative.
L’assenza fino a oggi di una valida
pianificazione della portualità turistica in
Italia ha prodotto alcune centinaia di opere
incomplete, abbandonate o mal gestite con
una mancata resa di denaro pubblico/privato
in termini di ricaduta socio-economica sui
territori interessati. Questi interventi, in
molti casi, non solo rappresentano esempi di
inefficienza degli investimenti ma producono
anche gravi disastri ambientali con perdita
di litorali balneari, inquinamenti diversi,
ecc. in una spirale negativa dall’effetto
deleterio su amministrazioni e popolazioni
locali.
Nonostante in Italia gli esempi negativi
siano svariate decine e superino di gran
lunga le situazioni positive specialmente al
centro sud, prosegue la corsa delle
amministrazioni locali a questo suicidio
annunciato.
È ormai evidente che in Italia basterebbe
rendere efficienti o completare parte di
quelle strutture secondo un piano rigoroso
di qualità del servizio reso e di
distribuzione lungo la costa per soddisfare
la domanda interna e anche buona parte della
potenziale domanda internazionale. Questo si
è verificato solo in pochi casi (come in
Campania e in Sicilia), dove gli enti
territoriali hanno dimostrato volontà e
capacità di intervenire per regolare e
pianificare in maniera coerente lo sviluppo
e l’utilizzo dei porti.
Esistono poi possibilità di intervento assi
meno impattanti di un porto classico, che
pure offrono buone prospettive di sviluppo;
ad esempio, in qualche caso di interesse dal
punto di vista economico, ma privo di
connotati tecnici e ambientali per la
realizzazione di un porto turistico di
standard elevato, è possibile introdurre il
concetto di porto a secco e cioè una
struttura dedicata a imbarcazioni di
dimensioni minori fino a 7 m lft) con
stazionamento prevalente in apposite
rastrelliere multipiano a terra e alaggio e
varo su richiesta del cliente.
Tale genere di struttura ha impatto
pressoché nullo sui litorali, in quanto
utilizza un semplice banchinamento alla foce
di un corso d’acqua o un pontile dal quale
effettuare le operazioni di alaggio e varo
con appositi fork-lifts modificati.
Questa metodologia, ancora sviluppata
artigianalmente in Italia (es. Marinella a
Palermo, Canale Santa Liberata a Orbetello,
ecc.) ha un’affermazione notevole negli
Stati Uniti e nel centro-sud America, dove
le si riconoscono, oltre alla mancanza di
effetti negativi sui litorali, un modesto
costo di primo impianto (1/5 rispetto a un
porto tradizionale) e una ridotta
manutenzione delle imbarcazioni così
stivate, pari a circa il 50% di quanto
necessario per il mantenimento di una eguale
imbarcazione ormeggiata tradizionalmente in
un bacino protetto.
Conclusioni
Lo sviluppo delle infrastrutture per la
nautica da diporto è una delle realtà
economiche di maggior interesse per il
Mezzogiorno d’Italia e per molti paesi del
Mediterraneo.
L’effetto della costruzione di un porto in
vicinanza di un litorale esposto sabbioso
presenta conseguenze quasi sempre negative
per le spiagge circostanti; dall’altro canto
il regime complessivo di un litorale su
tempi medio lunghi è in ogni caso fortemente
dinamico e a oggi quantitativamente
imprevedibile.
Chi deve pianificare e gestire lo sviluppo
di un sistema portuale si trova nella
scomoda situazione di dover affrontare non
solo gli effetti realmente dannosi degli
interventi, ma anche una percezione
eccessiva e falsata di tali effetti da parte
dell’opinione pubblica e dei portatori di
interessi.
Non esiste una ricetta unica per affrontare
questi problemi; emergono tuttavia due
distinte linee di azione. La prima è più
specifica e consiste nel prescrivere ai
gestori di ciascun singolo intervento le
contromisure locali per ridurre l’ostacolo
al movimento dei sedimenti: contromisure che
si riducono sostanzialmente al by-pass
ottenuto attraverso impianti fissi o
mobili di escavo per il ripristino
dell’equilibrio del trasporto solido
longitudinale.
Il secondo ambito è, invece, quello della
pianificazione e manutenzione complessiva,
su aree vaste, del litorale sabbioso. Sulla
necessità di questa azione pianificatoria
sembra esserci accordo generale, mentre
regnano confusione e vaghezza estreme sulla
forma che essa dovrà effettivamente
assumere.
La pianificazione in questo ambito non può
essere intesa come un atto progettuale e
creativo attraverso cui, in un certo
istante, si pretenda di determinare il
futuro della fascia litoranea che, come si è
detto, è soggetta a un’evoluzione
complessiva prevedibile spesso solo in via
qualitativa. Essa deve consistere, invece,
nella gestione dinamica di una realtà
continuamente mutevole attraverso le
tecnologie più diverse, quali le opere di
protezione, il recupero delle sabbie al
largo, il ripascimento e il dragaggio di
manutenzione.
Nella difesa della costa, come del resto in
tutti i settori della difesa del suolo, si
devono abbandonare concetti illusori e
contraddittori tra di loro come quelli della
sistemazione definitiva, della
messa in sicurezza, della
rinaturalizzazione, accettando invece
non solo il fatto che l’intervento umano è
un’azione innaturale, in una situazione che
comunque naturale non è, ma anche che
occorre entrare in un’ottica di gestione
continua e di manutenzione, piuttosto che di
intervento risolutorio.
Ovviamente quest’ultima considerazione è
vera anche a prescindere dalla presenza
delle opere portuali; un nuovo sistema di
infrastrutture turistiche può, quindi,
essere l’occasione per affrontare in maniera
positiva e dinamica il trito problema della
gestione dei litorali.
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