Al giro di boa della prima metà del decennio
che sta scivolando sotto di noi, si comincia
ad apprezzare come le cose siano veramente
cambiate e da quel secolo breve,
teoricamente dichiarato concluso da oltre
quindici anni, solo ora si avverta sempre
più nettamente il distacco.
Naturalmente, parliamo di ambiente e città,
di amministrazione dell’urbanistica o,
aggiornando il linguaggio, di governo del
territorio, finendo col riferirci a quasi
tutto possa accadere ad una comunità e ai
suoi singoli componenti.
Ciò che è sicuramente cambiata è la politica
e, quindi, la politica del territorio.
Qui non si fa riferimento agli orientamenti
diversi che i governi succedutisi dal
dopoguerra in poi hanno fatto registrare sul
tema e alle disposizioni normative che li
hanno supportati, ma ad un modo diverso di
intendere il territorio e alle forme della
sua salvaguardia.
L’interminabile fase storica sostanzialmente
centrista, nella quale sono da includere i
governi di centro-sinistra dell’ultimo
quinquennio degli anni ’90, avevano
considerato il territorio come un bene da
tutelare e da fare sviluppare
equilibratamente, adottando il metodo della
pianificazione.
Ciò è riprovato, almeno in larga parte, dal
complesso della legislazione approvata a
valle della legge 1150/1942 che, pur
generata in un particolare periodo, aveva
arato il solco profondo che sarebbe rimasto
di guida per l’operato del nuovo regime
democratico che di lì a poco si sarebbe
affermato in Italia.
I risultati hanno ampiamente deluso le
aspettative, come è sotto gli occhi di
tutti, sebbene il linguaggio sia rimasto,
negli anni, improntato al rigore che
caratterizza il difensore dei patrimoni
culturali e ambientali di cui è disseminato
il bel paese.
Oggi è cambiato anche il linguaggio e, in
coerenza ad esso, opera la politica.
Negli anni trascorsi, qualsiasi
amministratore pubblico avrebbe ritenuto
indecoroso e sicuramente disconosciuto la
paternità, ad esempio, di una lottizzazione
per villette lungo la costa, salvo
brigare per consentirne la realizzazione,
magari cercando di far passare il tutto
sotto silenzio.
Bisogna riconoscere che fra il
pronunciamento formale delle istituzioni e
il sentire comune della popolazione è sempre
esistito un distacco più o meno ampio, per
cui l’uomo qualunque, anche quando
non dedito alla speculazione edilizia, non
riusciva a comprendere perché non si potesse
costruire, sempre e comunque, sull’area di
proprietà.
Ancora oggi, gran parte della popolazione
italiana non si meraviglierebbe a vedere
palazzine crescere nei pressi di battigie
sabbiose o colline a bosco.
La politica ha avuto, quindi, una funzione
educativa e gli italiani sono stati
costretti a crederci, pur fra i mugugni o la
decisione di risolvere i problemi in piena e
abusiva autonomia, scelta peraltro
opzionata da una moltitudine.
Vi era stata, quindi, per oltre mezzo
secolo, una convenzio fra le forze
politiche in base alla quale il territorio,
bene oggettivamente scarso quantitativamente
e pregiato qualitativamente, andasse
salvaguardato senza tentennamenti, almeno a
parole.
E, sicuramente, nelle leggi della
Repubblica.
Si potrebbe chiamare, questo atteggiamento,
senso dello Stato, con a corredo le
umane debolezze proprie della nostra
tradizione, improntata a cristiana
tolleranza.
Il primo condono edilizio, nel 1985, andava
a sanare una marea di abusi e di devastanti
manomissioni dell’ambiente, anche se,
formalmente, la legge 47 era declinata come
una riforma ampia e capillare nel settore
del controllo del territorio, in prospettiva
della piena eliminazione del fenomeno
dell’abusivismo edilizio. Insomma, un passo
indietro sicuro, ma due passi avanti
possibili. Ancora una riprova del senso
dello Stato, fra tante incertezze.
Già allora, si prefigurava una prima latente
emersione di quel senso comune o,
meglio, di quella parte di opinione pubblica
che avrebbe voluto emergere e trovare
rappresentanza politica e culturale.
Quel condono fu ideato dal tandem
Craxi-Nicolazzi, il primo presidente del
Consiglio dei ministri, il secondo Ministro
dei lavori pubblici.
Il secondo condono edilizio, nel 1994, fu
partorito dal vecchio-nuovo tandem
Belusconi-Radice, in analoghe responsabilità
di governo.
Il senso comune, in fase di
progressivo, anche se lento, accreditamento,
comincia a mettere radici e nonostante sia
trascorso quasi un decennio, punta ancora
sulla gestione del territorio per definire
un proprio intervallo di esistenza.
Trascorrono ulteriori dieci anni e si
perviene al terzo condono edilizio
Berlusconi-Tremonti (-Lunardi-Mattioli), di
nuovo Presidente del consiglio dei ministri
e Ministro dell’economia (-Ministro delle
infrastrutture-Ministro dell’ambiente).
Non è più il parto improvvisato di un
Berlusconi di ispirazione craxiana, come lo
aveva definito l’ex Presidente del consiglio
dei ministri Massimo D’Alema; si comincia,
infatti, a delineare una politica del
territorio ben più esplicita, facendo
affiorare la chiave di lettura, più
convincente, di un Craxi pre-berlusconiano.
La prima legislatura del 2000, porta, nel
governo del territorio, un immaturo ed
egoistico senso comune al potere.
***
Sono in molti a sostenere che sia stata solo
una questione di cassa, l’idea di
varare il terzo condono edilizio con il
decreto legge 260/2003, ma, a ben vedere,
solo all’inizio, in quanto non lo era prima
né lo è stato dopo.
Sul prima, si deve ricordare come diversi
candidati sindaci, in occasione della
tornata elettorale del 2001, a cominciare
dalle città di Roma e Napoli, ebbero a
spezzare una lancia nei confronti degli
abusivisti di quei territori, dichiarando
che, vincenti loro, si sarebbe dovuto
costruirle le case e non certo demolirle.
È questo un passaggio importante verso la
creazione di un blocco sociale,
elettoralmente forte, già svezzato dal
secondo condono edilizio del 1994.
Ma quegli aspiranti sindaci rimasero tali.
Anche le ruspe, in talune occasioni,
rimasero parcheggiate un ché di troppo, ma
non furono dismesse, a testimonianza della
posizione formale delle istituzioni.
Quel blocco sociale, che dal 1994 si era
accresciuto di ulteriori adepti e aveva dato
fiducia ai nuovi governanti, contribuendo al
loro successo, doveva essere premiato.
L’occasione è stata la necessità di fare
cassa per sostenere un’altra
affermazione del senso comune: la
riduzione del carico fiscale senza se e
senza ma.
Ma subito dopo, per altro a raggiungimento
ormai fallito dell’ammontare dei 3,6
miliardi di euro di gettito preventivato, si
riprende la strada di un governo del
territorio sbilanciato sul senso comune.
Si passa così ad un altro condono,
riguardante gli sconfinamenti su aree
demaniali, varato con legge 212/2003,
secondo il quale le porzioni di aree
appartenenti al patrimonio e al demanio
dello Stato, interessate dallo sconfinamento
di opere eseguite entro il 31 dicembre 2002
su fondi attigui di proprietà altrui, sono
alienate a cura della filiale dell’Agenzia
del demanio territorialmente competente
mediante vendita diretta in favore del
soggetto legittimato che ne faccia
richiesta.
L’impatto della norma è mitigato dalla
necessità che le suddette opere siano
urbanisticamente legittime, non ricadano nel
demanio marittimo o siano gravate da vincolo
paesaggistico (Tabella 1).
Si è in presenza di un aspetto di dettaglio
nella generale problematica del distorto uso
del suolo, in questo caso a danno diretto
dello Stato e dei suoi beni, ma
paradigmatico di un nuovo rapporto fra
pubblico e privato, in cui gli interessi di
quest’ultimo sono tendenzialmente prevalenti
rispetto a quelli del primo.
È vero che, nella fattispecie, si tratta di
opere urbanisticamente conformi agli
strumenti urbanistici vigenti, anche se
illegittimamente autorizzate per mancanza di
titolo a richiedere l’atto abilitativo.
Chi opera nel settore edilizio sa bene che
occupare un pezzo di proprietà pubblica
passa spesso sotto silenzio e, in molti
casi, non se ne viene neanche a conoscenza.
Nutrendo grande considerazione per la
preparazione professionale dei tecnici
comunali, l’ipotesi che, probabilmente, i
suddetti sconfinamenti siano stati spesso
più che consapevoli, se non in qualche caso
premeditati, non peccherebbe di
atteggiamento eccessivamente sospettoso.
Infine, che lo Stato debba e non
possa alienare i beni sottratti, per
altro a prezzi del tutto convenienti – si
fissa, in zona agricola, l’importo di 10
euro/mq – e non gravati da alcuna componente
che dia conto, in qualche modo, di un
atteggiamento sanzionatorio, conferma la
tesi iniziale.
La stima del possibile ricavato
dell’aliquota di immobili che saranno messi
a disposizione si aggira sui 250-300 milioni
di euro al massimo, contro gli 1,2 miliardi
che erano stati preventivati, dal Governo,
sotto la copertura, ormai politicamente
sempre più stretta, di voler fare unicamente
cassa.
Ottenuta la coppia, si punta al tris,
conseguito con l’approvazione della
normativa sulle aree percorse dal fuoco,
contenuto nella legge 350/2003, in base alla
quale, “le zone boscate e i pascoli i cui
soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco
non possono avere una destinazione diversa
da quella preesistente all’incendio per
almeno quindici anni”, modificativa della
precedente normativa, la legge 353/2000 in
materia di incendi boschivi. che prevedeva
unicamente la non edificabilità delle
stesse.
In sostanza, tali zone non sono più
inedificabili per i successivi quindici anni
dall’evento, a patto che non lo fossero già
prima, secondo gli strumenti urbanistici
vigenti.
Ma che genere di strumenti: recenti piani
regolatori o vecchi programmi di
fabbricazione; in pianura o in collina;
nell’entroterra o sulla costa?
Certo se il fuoco divora il terreno, ci sarà
un bosco, una macchia o un pascolo, come
riconosce la stessa norma, e non un suolo
sterrato o incolto, percorrendo il quale si
sarebbe ben presto annichilito.
E come faceva ad essere edificabile un suolo
coperto da vegetazione rigogliosa?
Almeno, la norma abrogata consentiva una
moratoria entro la quale si sarebbe potuto
verificare l’idoneità della precedente
destinazione urbanistica e proporne una più
consona alla salvaguardia delle preesistenze
arboree, imponendo comunque il ripristino
della configurazione naturale andata
distrutta.
Infine, il poker arriva con il condono
ambientale, contenuto nella legge 308/2004,
all’interno del provvedimento di delega in
materia di riordino della relativa
disciplina.
In realtà, i condoni sono due: il primo
determina una sanabilità ordinaria degli
abusi commessi in zone gravate da vincolo
paesaggistico, realizzati in assenza o in
difformità rispetto alla prevista
autorizzazione; il secondo, consente una
sanatoria straordinaria per i lavori
effettuati, senza autorizzazione
paesaggistica, entro il 30 settembre 2004.
La suddetta norma prevede che l’accertamento
della compatibilità paesaggistica, a seguito
di apposita domanda da presentarsi entro il
31 gennaio 2005, estingue il reato penale
commesso, senza entrare negli aspetti
amministrativi del condono (Tabella 2).
Nel primo caso, invece, la condonabilità è
permanente “qualora l’autorità
amministrativa competente accerti la
compatibilità paesaggistica nel caso di …
lavori, realizzati in assenza o difformità
dall’autorizzazione paesaggistica, che non
abbiano determinato creazione di superfici
utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati; … per l’impiego
di materiali in difformità
dall’autorizzazione paesaggistica; ...
configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria …”.
Anche in questo caso, il rapporto fra Stato
e cittadino si flessibilizza, ma
determinando l’aumento dell’entropia del
sistema, in termini di maggiore confusione
comportamentale.
Ciò determinerà, con ogni probabilità, una
tendenza a non rispettare l’autorizzazione
paesaggistica ottenuta o a non richiederla
affatto, essendo sempre possibile sanare le
difformità, qualora accertate dalla pubblica
amministrazione, senza oneri aggiuntivi per
chi ha violato la norma (Tabella 3).
***
La costruzione di un blocco sociale è,
tuttavia, molto più facile a ottenersi sulle
aspettative che sulle risposte concrete che
si riescono a dare tentando di organizzare
una macchina amministrativa efficiente.
Il condono edilizio del 2003, il terzo della
serie, infatti, ha registrato una rilevante
censura della Corte costituzionale che ha
smontato l’approccio neocentralista del
Governo, riconoscendo alle regioni la
facoltà di legiferare in modo ampio sui
destini urbanistici dei propri territori.
In particolare, rientrano nelle competenze
dello Stato la definizione dei “contenuti di
principio” della sanatoria, del “titolo
abilitativo edilizio”, dei profili penali
del condono, del limite temporale massimo di
realizzazione delle opere condonabili e,
infine, la determinazione delle relative
volumetrie massime.
Alle regioni, la sentenza 196/2004 della
Corte costituzionale riconosce “per tutti i
restanti profili … un ruolo rilevante …
nella articolazione e specificazione” delle
disposizioni dettate dal legislatore
statale, in merito agli aspetti
amministrativi del condono.
Le regioni possono, quindi, stabilire limiti
volumetrici inferiori, determinando “la
possibilità, le condizioni e le modalità per
l’ammissibilità alla sanatoria di tutte le
tipologie di abusi edilizi”, essendo lo
spazio di manovra delle regioni a statuto
speciale ancora maggiori.
In definitiva, lo Stato può solo costruire
lo scenario di massima tolleranza
entro il quale è ammessa una sanatoria
edilizia.
Più in generale, la Corte costituzionale
ritiene giustificato il suo operato in base
alla dichiarata “opportunità che si preveda
ancora una volta un intervento straordinario
di condono edilizio nelle contingenze
particolari della recente entrata in vigore
del testo unico delle disposizioni in
materia edilizia, nonché dell’entrata in
vigore del nuovo Titolo V della seconda
parte della Costituzione, che consolida
ulteriormente nelle regioni e negli enti
locali la politica di gestione del
territorio”.
Sotto il profilo tecnico-urbanistico, non si
vede come il nuovo codice dell’edilizia
possa centrare qualcosa con il fenomeno
dell’abusivismo edilizio o abbia determinato
un momento di incertezza nei cittadini,
responsabile di averli confusi talmente da
richiedersi un atto di riallineamento delle
basi di partenza, quale è, generalmente, un
provvedimento di condono di qualsiasi tipo
esso sia.
Il richiamo al nuovo Titolo v della
Costituzione è, poi, del tutto
incomprensibile, rimanendo sensato solo il
riconoscimento allo Stato a provvedere in
materia penale.
Ben altro era stato lo stile della sentenza
416/1995, su ricorso della sola Regione
Emilia Romagna, sull’art. 39 della legge
724/1994, relativo al secondo condono
edilizio.
Vale la pena di riportare per esteso un suo
passaggio fondamentale nel quale si afferma
che “ben diversa sarebbe, invece, la
situazione in caso di altra reiterazione di
una norma del genere, soprattutto con
ulteriore e persistente spostamento dei
termini temporali di riferimento del
commesso abusivismo edilizio.
Conseguentemente differenti sarebbero i
risultati della valutazione sul piano della
ragionevolezza, venendo meno il carattere
contingente e del tutto eccezionale della
norma (con le peculiari caratteristiche
della singolarità e ulteriore
irripetibilità) in relazione ai valori in
gioco, non solo sotto il profilo della
esigenza di repressione dei comportamenti
che il legislatore considera illegali e di
cui mantiene la sanzionabilità in via
amministrativa e penale, ma soprattutto
sotto il profilo della tutela del territorio
e del correlato ambiente in cui vive l’uomo.
La gestione del territorio sulla base di una
necessaria programmazione sarebbe certamente
compromessa sul piano della ragionevolezza
da una ciclica o ricorrente possibilità di
condono-sanatoria con conseguente
convinzione di impunità, tanto più che
l’abusivismo edilizio comporta effetti
permanenti (qualora non segua la demolizione
o la rimessa in pristino), di modo che il
semplice pagamento di oblazione non restaura
mai l’ordine giuridico violato, qualora non
comporti la perdita del bene abusivo o del
suo equivalente almeno approssimativo sul
piano patrimoniale”.
Non si vede perché non abbia la Corte
costituzionale ripreso tali argomentazioni
per bocciare in toto il terzo condono
edilizio.
È qui accaduto un evento inedito per
l’Italia. Molte regioni hanno ristretto le
maglie dell’ammissibilità del condono
governativo, riducendolo, in taluni casi, a
interventi edilizi marginali e ininfluenti
per l’assetto del proprio territorio.
Inoltre, Toscana, Emilia Romagna, Umbria,
Marche, Veneto, Lombardia, Campania hanno
legiferato in modo talmente distante da
quanto il Governo si aspettasse, tanto da
determinare quest’ultimo a impugnare, di
rimando, le rispettive normative innanzi
alla Corte costituzionale.
Alcune delle regioni citate sono, peraltro,
amministrate da compagini politiche omologhe
a quella governativa, facendo emergere
ancora più forte la novità.
In buona sostanza, gli enti di governo più
vicini alle popolazioni, quali sono le
regioni, in controtendenza con quanto è
consuetudine, hanno assunto atteggiamenti
più rigorosi e repressivi nei confronti dei
cittadini rispetto a quelli dallo Stato
centrale che, essendo più distante da essi,
attua, generalmente, azioni meno propense al
compromesso e meno sensibili al consenso.
Al blocco sociale del senso comune,
in costruzione da parte del Governo, si è
così contrapposta la resistenza di un altro
blocco sociale, trasversale ai diversi
orientamenti politici, che ricomprende
amministratori, funzionari e tecnici delle
regioni e degli enti locali, i quali sono di
molto impensieriti, per la loro stessa
sopravvivenza politica e amministrativa,
dall’incedere di una terza ondata di condoni
edilizi e dal conseguente stabilizzarsi del
fenomeno dell’abusivismo, alimentato, dalla
iterazione progressiva dell’adagio popolare
non c’è due senza tre.
***
L’aspetto maggiormente inquietante della
complessiva vicenda dei ripetuti e
diversificati condoni edilizi, quale
strategia di lungo periodo per la
costruzione di un blocco sociale,
generatore, in prospettiva, di specifico
consenso elettorale, sta nella mancata
comprensione della disastrosa saldatura fra
gestione del territorio e fuoriuscita da
condizioni prevalenti di legalità delle
popolazioni insediate, in particolare nel
Mezzogiorno.
La riprova è fornita non solo dalla
distribuzione del fenomeno dell’abusivismo
edilizio e dal suo incremento percentuale
fra il 2002 e il 2003, conseguente alle
aspettative generate dal Governo
nell’opinione pubblica (Tabella 4).
Le regioni meridionali mantengono saldamente
sia il primato del maggior numero di abusi
commessi, sia l’incremento percentuale più
alto fra le due annualità.
Ma anche dalla propensione all’emersione
dell’intero comparto edilizio.
A riprova di tale tesi, si possono
analizzare i dati sulle ristrutturazioni di
immobili per le quali sono stati richiesti
gli sgravi fiscali accordati dalla normativa
vigente.
Le popolazioni meridionali non solo non
fruiscono di tale interessante opportunità,
ma arretrano nel suo utilizzo, con il
passare degli anni (Tabella 5).
Che le dinamiche edilizie possano essere più
contratte al sud rispetto al centro-nord è
del tutto comprensibile, quale frutto del
crescente divario socio-economico esistente
tra le due realtà, ma ciò non assolutamente
verificabile in modo così eclatante (Figura
1).
|
1 -
Fonte: Agenzia delle entrate, 2004 |
Al sud, gli interventi sul preesistente
patrimonio edilizio non sono trascurabili in
termini di diffusione e numerosità, ma
vengono prevalentemente effettuati al
nero, in modo da sfuggire al complesso
delle regole e delle responsabilità fiscali,
contributive, amministrative, urbanistiche.
Il diretto corollario di tale situazione e
l’affermarsi di un’imprenditoria edilizia
occulta e, come tale, facile preda della
malavita organizzata.
Mentre l’abusivismo edilizio è
prevalentemente animato da ceti sociali
marginali e suburbani, la ristrutturazione
edilizia, operando prevalentemente nella
città consolidata, su tessuti edificati in
larga parte legittimi sotto il profilo
urbanistico, tendenzialmente abitati da ceti
sociali medio-alti, vede coinvolta l’intera
popolazione urbana in atteggiamenti e derive
che privilegiano la scorciatoia illegittima
rispetto alla legalità.
Anche in una fase come l’attuale, che vede
il massimo della semplificazione procedurale
nel settore edilizio.
***
Nella contesa fra un territorio da
sfruttare, in un’ottica anarco-liberista,
frontiera estrema e rampante del
neoconservatorismo nordamericano, rispetto
ad un ambiente da tutelare, in modo da
poterlo trasferire nelle migliori condizioni
possibili alle generazioni future, la
politica governativa continua a segnare
altri punti a vantaggio della prima
posizione.
Ne è ulteriore riprova l’impugnazione
innanzi alla Corte costituzionale della
legge regionale sarda 8/2004, cosiddetta
salvacoste, concernente norme urgenti
di provvisoria salvaguardia per la
pianificazione paesaggistica e la tutela del
territorio regionale.
L’ipotesi della impugnazione é che il
Consiglio regionale sia andato al di là
delle proprie competenze, invadendo quelle
dello Stato, che ai sensi dell’art. 117
della Costituzione sono esclusive in materia
di ambiente e beni culturali.
A tale censura ha replicato la stessa
amministrazione regionale sarda, facendo
presente che la pianificazione paesistica
spetta alla Regione e non allo Stato.
L’impugnativa riguarda anche il blocco delle
pale eoliche, perché la legge regionale
violerebbe il decreto legislativo 387/2003
che recepisce una Direttiva europea sulla
promozione dell’energia prodotta da fonti
rinnovabili, laddove prevede che tali fonti
siano considerate di pubblica utilità.
Appare evidente come, anche in questo caso,
lo scontro sia ancora fra il senso comune,
cavalcato da una parte politica, ed una
prospettiva di governo organico del
territorio, auspicata dall’altra, in quanto
le leggi regionali sarde contestate non
chiudono definitivamente determinate
prospettive di utilizzo del suolo ma lo
subordinano alla predisposizione di appositi
strumenti di pianificazione urbanistica.
Ma, ancora, appare sorprendente, a denotare
un effettivo profondo mutamento di clima
culturale e politica, come il ruolo del
Governo non sia stato quello di sopperire ad
una mancanza di tutela del territorio da
parte di una regione, ma di vanificarne gli
sforzi nel cercare di farlo in modo
razionale. |