Nuovi paesaggi, nuove condizioni, le
tendenze
I casi di Barcellona e Bologna appaiono esemplificazioni molto interessanti
dei processi di metropolizzazione del
territorio (Indovina, 2003), cioè di quei
processi, frutto di autorganizzazione, che
tendono a costruire un nuovo paesaggio
territoriale che superano, in un certo
senso, la diffusione territoriale di
abitazioni, attività e servizi in una
prospettiva metropolitana. Un processo
questo che tende ad affermare la domanda di
città (per così dire fuori dalle mura)
nella dimensione territoriale, superando,
sul piano del vissuto individuale, la
frammentazione, che ha fatto proprie le
possibilità offerte dalla crescente mobilità
e che è determinata dalle modifiche dei
processi produttivi, dalle innovazione
tecnologiche e dai mutamenti negli stili di
vita.
Tali processi, in misura maggiore che la città diffusa (Indovina,
1990), incarnano il bisogno di città,
e alle condizioni dell’oggi costituiscono la
forma territoriale assunta dalla dialettica
tra individuo e società che ha
trovato la massima espressione nella
condizione urbana. In un certo senso la
frammentazione costituisce l’affermazione
dell’individualismo (spesso esasperato),
mentre il processo di ricomposizione
metropolitana esprime il bisogno di società.
Il processo di metropolizzazione spontaneo, che costituisce una
tendenza sia dei territori diffusi che di
quelli aventi carattere di area
metropolitana, se da una parte determina
condizioni non sostenibili, dall’altra non
riesce a soddisfare a pieno il bisogno di
città. Infatti la condizione urbana
non è l’esito del manifestarsi spontaneo
delle forze individuali, ma piuttosto un
risultato intenzionale, che utilizza
le pratiche sociali condizionandole
all’interesse generale (Indovina, 1977).
Se guardassimo le cose dal punto di vista degli individui potremmo
affermare che la fuga dalla città per la sua
insostenibilità (di tipo economico,
ambientale, sociale e psicologico, ecc.) fa
ricadere gli stessi individui in nuove
situazioni di insostenibilità (costi
privati, aumento della mobilità, isolamento,
insicurezza, ecc.), per dirla con un
proverbio “dalla padella nella brace”1.
Nei territori diffusi i costi ambientali in termini di consumo di suolo ed
energetici, inquinamento, ecc. risultano
superiori a quelli della città concentrata,
così come i costi economici e pubblici
appaiono fino a quattro volte superiore
sempre nei confronti della città concentrata
(Camagni, Gibelli, Rigamonti, 2002); nel
diffuso si affermano stili di vita dissipati
(non solo in termini di consumo di suolo,
per esempio il consumo di acqua risulta tre
volte superiore).
Queste condizioni spingerebbero, quasi naturalmente, ad affermare la
necessità di un ritorno alla città
concentrata. Una soluzione tanto ovvia
quanto difficile. Va infatti assunto che i
processi di frammentazione (più o meno
spinti) hanno alla loro origine una modifica
delle forze produttive, l’affermarsi di
nuovi mezzi e possibilità tecnologiche, una
nuova struttura dei costi di produzione e,
non meno rilevante, la modifica degli stili
di vita (per l’analisi di questi processi
rimando a Indovina, 2003). Essi cioè si
presentano come fortemente condizionati
dalle modifica delle condizioni materiali,
tuttavia, e questo non sembri in
contraddizione con quanto affermato, le
modifiche delle condizioni materiali
spingono ad una sorta di correzione,
per così dire, dei processi di diffusione e
frammentazione più spinti, quella che
appunto si è individuato come un processo
autorganizzato di metropolizzazione del
territorio.
Ai più avveduti studiosi e ai più responsabili amministratori sembra
impossibile che si accetti passivamente il
processo di diffusione e frammentazione
anche se corretto da tendenze spontanee alla
metropolizzazione. Il che fare
costituisce un tarlo anche perché mette in
discussione consolidati convinzioni. Due
soluzioni tendono a emergere.
Ad alcuni sembra che le tendenze spontanee spingano verso una struttura
territoriale fondata sul policentrismo;
una struttura, cioè, che negando la
necessità e l’opportunità di grandi città
si fondi, piuttosto, su una molteplicità di
medie città che, proprio per la loro
dimensione, si presentano con un’alta
qualità della vita, qualsiasi cosa si
intenda con questa locuzione. Le obiezioni
che si possono formulare a questo proposito
sono di due tipi: la prima riguarda la
tendenza attuale di organizzazione sia
territoriale che economica che delle
relazioni, la seconda fa riferimento ad un
uso, storico, del policentrismo come
struttura territoriale che meglio permette
il controllo politico sulle popolazioni.
Esemplare, di questo ultimo caso, è la politica attuata dalla Democrazia
cristiana (Dc) nel Veneto. La formazione
di un grande polo industriale (Portomarghera)
con diecina di miglia di operai, la
costituzione di una classe operaia cosciente
di sé e operativamente attiva a difendere i
propri interessi e conseguentemente il
rafforzamento dei partiti di sinistra, ha
indicato alle forze moderate (la Dc) la
strada per evitare la diffusione di idee,
strutture e organizzazione che potessero
mettere in discussione la loro egemonia
nell’intero Veneto. A partire da una
struttura di centri piccoli e medi, di una
molto diffusa presenza di strutture
ecclesiastiche e dall’esistenza di una
maglia consistente di strutture di credito
locale (Savino, 1999) si è puntato sul
rafforzamento del policentrismo: una
crescita produttiva fondata sulla piccola e,
al massimo, media industria (una fabbrica
sotto ogni campanile), una struttura
territoriale fondata sull’autonomia di ogni
centro e su un progetto locale di sviluppo,
ma insieme di una società locale chiusa.
Insomma un’operazione moderata di pieno successo politico fino ad anni più
recenti. Che poi questo indirizzo abbia dato
luogo ad un intenso sviluppo economico, un
modello esaltato e assunto come
paradigmatico per un’alternativa allo
sviluppo fondato sulla grande impresa2,
che ha saputo e potuto utilizzare al massimo
il capitale sociale con la formazione di una
struttura industriale distrettuale, ecc. non
contraddice il tono moderato della gestione
del potere, né all’esclusione della
popolazione dalle opportunità offerte dalla
grande città.
Se sul precedente punto sia possibile avere opinioni diverse (anche per le
implicazioni politiche e ideologiche),
l’accordo rispetto all’altra obiezione che è
possibile avanzare nei riguardi di
un’ipotesi policentrica, dovrebbe essere più
ampio e solido. Il policentrismo, si può
sostenere, si caratterizza per un elemento
di autonomia forte di ogni centro, mentre al
contrario le nuove condizioni spingono verso
processi di integrazione diffusa,
intendendo con questi termini i processi di
integrazione che non necessitano di
prossimità. Inoltre le esigenze della
popolazione sono cresciute e sempre più la
domanda è per servizi di livello
metropolitano, che appunto in quanto tali
necessitano di un bacino di utenti (o
clienti, secondo i casi) di dimensione
(quantitativa) di tipo metropolitano. Non è
casuale, cioè, che i processi di
autorganizzazione sembrano indicare quella
che è stata definita la tendenza verso la
metropolizzazione.
Costringere questi processi, che sono economici, sociali, culturali e di
stile di vita, dentro la gabbia del
policentrismo sembra impossibile. Si
osservi, inoltre, che i processi di
metropolizzazione, se da una parte trovano
la loro origine in strutture territoriali di
area metropolitana, in altri casi
costituiscono il tentativo di rompere
proprio il policentrismo. La rottura della
crosta moderata (non solo in senso politico,
ma anche economico, culturale e sociale)
appare come un elemento di crescita e
contemporaneamente una risposta alle spinte
offerte dalle nuove possibilità
tecnologiche, dalle condizioni economiche
determinate dall’allargamento dei mercati,
dalle nuove e più consapevoli esigenze
culturali e di stile di vita.
La seconda soluzione, che appare come la più fruttuosa sul piano della
crescita economica, sociale, culturale e
ambientale, asseconda il processo di
metropolizzazione autorganizzato fornendo ad
esso una guida. All’autorganizzazione dei
processi, per loro natura ciechi rispetto
all’insieme, fornisce gli occhi di una
intenzione e di una strategia. La
costruzione consapevole di un nuovo
paesaggio urbano che denominiamo
arcipelago metropolitano.
È possibile interpretare la crescita di nuovi paesaggi urbani come una
rottura del modello di città storicamente
definito. La città moderna si è dilatata, è
cresciuta, ha spostato i confini sempre più
verso l’esterno, è anche cresciuta a macchia
d’olio, ma ha sempre mantenuto la sua
caratteristica: la condizione urbana
(densità, intensità e assenza di soluzione
di continuità sul piano fisico; occasioni,
socializzazione, opportunità, diritti di
cittadinanza, partecipazione politica, ecc.,
sul piano sociale) era inscritta dentro le
sue mura (reali o metaforici che
fossero). Questo modello non pare
oggi funzionare più, si prospetta una
rottura rispetto al passato: la condizione
urbana si tende a ricostruirla, per così
dire, fuori le mura; la morfologia urbana,
in un certo senso è negata ma si riafferma
la società urbana. Non si tratta di un
processo lineare, né esso appare privo di
contraddizioni e di fratture, ma esso tende
a prevalere anche perché la dimensione
sociale non risulta più di livello urbano ma
piuttosto metropolitano. Si intende
sostenere che i bisogni che la
popolazione esprime sono sempre più di tipo
metropolitano, che non è solo una dimensione
più grande ma di diversa qualità e
spesso nuovi, così come, ovviamente, di tipo
metropolitano sono, per così dire, i mezzi e
le strutture per soddisfare tali domande.
L’arcipelago metropolitano
Questo nuovo modello, la città contemporanea, ci appare nella figura dell’arcipelago
metropolitano. Le isole di un
arcipelago, ciascuna delle quali ha un
proprio connotato e si potrebbe dire una
propria personalità, costituiscono una unità
determinata non tanto da una descrizione
geografica, ma piuttosto da loro
relazioni (originarie e geologiche, naturali
e ambientali, ma anche funzionali,
economiche, sociali, ecc.), così
nell’arcipelago metropolitano ciascuna unità
(che con linguaggio disciplinare
tradizionale potremmo chiamare città, borgo,
nucleo, ecc., secondo dimensione e
caratterizzazione) presenta una sua propria
connotazione ma la cui valenza sociale e
operatività è strettamente legata alle
relazioni esistenti con tutte le altre3.
Quello che sembra emergere è una tendenza ad una specializzazione
territorialmente articolata: il
territorio si organizza attraverso micro
poli specializzati (per esempio per il
commercio, per il tempo libero, per la
sanità, per l’istruzione superiore, ecc.),
poli la cui fruizione non è strettamente
locale, delle popolazioni che vivono
nello spazio circostante stretto, ma hanno
piuttosto fruizione a carattere
territoriale, cioè di area vasta4.
Tali polarità, inoltre, non presentano che
limitati processi di agglomerazione.
|
1 |
Quello che appare rilevante è come la gerarchizzazione di una territorio
metropolitano, o la frammentazione di un
territorio a urbanizzazione diffusa e povero
di strutture, convergono verso una
moltiplicata polarità, che da una parte
affievolisce le gerarchie e dall’altra
integra i territori. Relazioni strettamente
funzionali e preferenziali finiscono per
stendere sul territorio un fitto reticolo di
connessioni.
Si può convenire che forte sia l’effetto della molteplicità delle reti
informatiche5, ma va colto, come
elemento controintuitivo, che le relazioni
di lunga distanza (le famose reti di
città) non sono le sole ad essere
influenzate, ma anzi l’effetto maggiore si
ha a livello locale, data la difficoltà di
moltissime singole città a svolgere un ruolo
di qualche significato a livello
internazionale. L’intensificazione delle
relazioni è l’integrazione di territori che,
mentre affermano la loro individualità,
costruiscono rapporti sempre più stretti
funzionali, economici e sociali, sembra la
cifra caratteristica di questo processo di
metropolizzazione, senza dire che è anche
questa la strada per poter svolgere un ruolo
internazionale come complesso
territoriale (Indovina, 2001).
Causa ed effetto del processo di metropolizzazione è l’infrastrutturazione
del territorio (viabilità e trasporti
principalmente, ma anche reti, servizi
sanitari, ecc.). Bisogna notare che la
infrastrutturazione del territorio è
risultata, molto spesso, indotta dai
processi di autorganizzazione; sono questi
quelli che hanno tirato quella. È
mancata, cioè, una funzione trainante delle
infrastrutture che avrebbe potuto
determinare esiti migliori (minore
frammentazione e dispersione, per esempio),
la politica delle infrastrutture non ha
avuto un ruolo strategico per determinare
esisti territoriali, ma al contrario si è
rilevata di tipo adattativa.
I caratteri specifici dell’arcipelago metropolitano (in tendenza)
sono: diffusione, densificazione,
specializzazione articolata,
multipolarità di eccellenza,
integrazione, ciascuno dei quali si
declina con proprie peculiarità a secondo
della struttura territoriale di partenza. Si
osservi che la contraddizione che può
osservarsi nei termini descrittivi usati,
non appartiene al linguaggio usato ma alla
realtà territoriale, questa, infatti, non
presenta ogni suo punto omologo ad ogni
altro, ma si caratterizza per diversità,
il dato forte e costitutivo, tuttavia, è una
crescente integrazione.
Questi fenomeni mettono in evidenza quella che sembra una significativa
modifica strutturale nell’organizzazione
dello spazio, non è più la città concentrata
ad essere la polarità di attrazione, ma
piuttosto è il territorio il contenitore
di tutto, al suo interno convivono varie
forme di insediamento: città concentrate di
media e grandi dimensione; centri urbani di
piccola dimensione; aggregati residenziali
senza centro; abitazioni diffuse e isolate;
zone di insediamenti produttivi; fabbriche e
laboratori isolati e dispersi; distretti
produttivi; grandi attrezzature di servizio;
poli per il divertimento e il tempo
libero; poli di eccellenza; centri della
logistica; depositi; ecc. Una struttura
territoriale nella quale assumono grande
rilievo i flussi di mobilità delle
persone; sia quelli obbligatori (lavoro
e studio) che quelli opzionali (per motivi
diversi: sport, acquisti, spettacoli,
relazioni sociali, ballo, cinema, ecc.),
risultano pluridirezionali e pluricentrici e
sono costitutivi della natura metropolitana
del territorio. Va anche sottolineata
l’importanza crescente dei flussi
immateriali: flussi di comando e di
relazione (amministrativi, politici,
finanziari, di ricerca, scientifici,
culturali, di informazione, sociali, ecc.).
Il territorio è attraversato sia da
crescenti flussi fisici (persone e merci),
che si adattano al nuovo contesto e nello
stesso tempo determinano la nuova realtà
territoriale, sia da flussi immateriali che
si sommano ai primi. Una situazione
questa che mette sotto tensione, per la
crescita e il modificarsi dei flussi di
massa (persone e merci) e per il rilievo
assunto dai flussi di potenza
(informazioni), la gerarchia del territorio
e produce articolazioni di specializzazioni.
Tali processi valorizzano complessivamente il territorio, mentre, come è
ovvio, la distribuzione dei valori risulta
differenziata al suo interno. Le opportunità
localizzative e insediative si moltiplicano
in funzione dei diversi valori dei suoli;
mappando i valori dei suoli in un
immaginario plastico tridimensionale, la
superbia di questo sotto le mani si
presenterebbe rugosa, non omogenea, con
picchi e valli, ma di altezza e profondità
limitata. In sostanza, se i valori potessero
essere assunti come indicatori di gerarchie,
si sarebbe in presenza di un territorio con
una gerarchia molto articolata, sia nel suo
insieme considerata, sia analizzandola per
settori specifici di funzioni. Quello che
sembra prevalere è l’emergere di territori a
gerarchia soft; i singoli luoghi di
questo territorio, proprio nella loro
varietà, costituiscono le tessere di un
mosaico6. La dizione
arcipelago metropolitano pare descrivere
meglio le caratteristiche di questa
struttura territoriale, insieme mette in
luce la qualità metropolitana del
territorio e il suo articolarsi in unità
integrate.
È importante sottolineare che in questo territorio si incontra un nuovo
cittadino, che vive in ambiti spaziali
diversi. L’esperienza individuale e
collettiva, per i suoi aspetti di lavoro,
funzionali, culturali, affettivi, sociali,
di consumo, politici, ecc., si svolge a due
livelli: per ambiti locali, cioè più
spazialmente e socialmente ristretti,
ripetitivi e, forse, conformisti o comunque
soggetti ad un forte controllo sociale (un
ambito che solo apparentemente assume
connotato di comunità) e per
ambiti metropolitani, allargati,
differenziati, occasionali, non ripetitivi,
più liberi, ecc. Questa doppia esperienza,
che proietta a livello territoriale quella
dell’abitante della grande città,
costituisce un altro connotato specifico (il
più importante?) dell’arcipelago
metropolitano e determina, una nuova
personalità, che declina insieme,
combinandole, due esperienze che
precedentemente erano separate e non
sommabili. L’una e l’altra, in questa
situazione, finiscono per essere normali,
portatori di rilevanti gradi di libertà
comportamentali7.
Pare possibile definire l’identità di questo cittadino come una identità
liquida, che come l’acqua non ha propria
forma ma si adatta secondo le circostanze,
che gode dei luoghi frequentati senza
pregiudizi, che considera il suo
territorio come composto da occasioni
differenti da esperire e sperimentare e nel
quale la diversità (di persone e
luoghi) viene assunta come una valenza
positiva (forse più tollerante). “Ama o si
identifica con più di una piazza, con più di
un paesaggio, con più di un luogo, secondo
momenti, occasioni e, anche, proprie
necessità; coglie nelle relazioni multiple,
nella conseguente innovazione,
nell’imprevisto, una modalità di essere
della propria identità, che appare sempre
più individuale (e non individualista) e
relazionata ad un contesto sociale (non di
gruppo). La formazione di questa identità
liquida non è istantanea ma dipende
dalla pratica nell’arcipelago
metropolitano, costituisce l’esito
inconscio di esperienze, ma anche
l’esercizio di una costruzione sociale; non
costituisce una pacificazione, con se
stesso e con gli altri, essa impone,
infatti, continuamente una scelta,
non è escluso sia carica di solitudine e di
angoscia, ma è anche portatrice di libertà e
di senso di sé, fino alla costituzione di
identità progettuali (Castells, 1997) in
grado di opporsi all’assunto
deterministico del processo di
trasformazione elaborando progetti adeguati”
(Indovina, 2003)8.
Della pianificazione di area vasta
La tendenza messa in luce costituisce, come più volte ripetuto, l’esito di
un processo prevalentemente di
autorganizzazione, il risultato è un
territorio scaturito, in misura rilevante,
dagli sforzi, dalle decisioni e dalle
azioni, non coordinate, di singoli portatori
di interesse, finalizzate alla realizzazione
di propri obiettivi.
L’organizzazione del territorio che ne deriva può rispondere solo
parzialmente a esigenze reali (determinate
dalle trasformazioni tecnologiche,
economiche, culturali e nelle abitudini di
vita), esso infatti risulta privato da
soluzioni coordinate e dotate di
un’ottica generale e comune.
Lo testimonia l’abnorme consumo di suolo, un
crescente inquinamento, un conflitto
crescente tra usi alternativi o vicini dello
spazio, l’utilizzazione impropria dello
spazio, la crisi dello spazio pubblico,
la crescente congestione, l’alto consumo
energetico, ecc. Inoltre a livello sociale
si presentano, anche se la densificazione
più recente appare come un correttivo
(spontaneo), fenomeni di isolamento, di
scarsa socialità, ecc.
In sostanza appare evidente la necessità di governare le tendenze in
atto, con l’ottica del governo pubblico
delle trasformazioni, cioè di un
interesse generale che legittimi e faciliti
le azioni di trasformazione dei singoli
interessi. Vanno, cioè, colte le tensioni in
atto, le aspettative, i processi di
trasformazione, le innovazioni, le
resistenze, per realizzare un progetto di
interesse generale, che garantisca
l’efficienza e l’efficacia
dell’organizzazione del territorio (è questa
la strada che permette di raggiungere gli
obiettivi dei portatori di interesse senza
ledere gli interessi terzi e collettivi). È
soltanto la pianificazione territoriale che
può garantire crescita economica,
innovazione tecnologica, avanzamento
culturale ed equilibrio sociale, nel nuovo
contesto dell’arcipelago metropolitano. È
evidente che il livello di pianificazione
adeguato all’arcipelago metropolitano
sembra essere quella di area vasta.
La pianificazione di area vasta, nel nuovo contesto, diventa, in un
certo senso, una sorta di pianificazione
urbana per il nuovo modello di città.
In questa nuova dimensione, infatti, non
basta sia attenta alle condizioni
ambientali, né finalizzata
all’identificazione delle invarianze o a
pianificazione le grandi infrastrutture e la
localizzazione della localizzazione dei
maggiori complessi economici e di servizio,
essa deve anche assumere un ruolo
strategico per la costruzione della
condizione urbana allargata, deve aiutare a
definire le polarità articolate dell’intero
territorio dell’arcipelago e deve,
ancora, contenere tutte le politiche
pubbliche (in termini di definizione e di
attivazione) necessarie a realizzare quell’obiettivo.
La pianificazione di area vasta, inoltre, deve determinare una
dimensione (massa) efficace per la
collocazione dei territori considerai nel
contesto internazionale globalizzato. La
dimensione in sé non ha valenza positiva,
tuttavia, costituisce una premessa
necessaria a determinare quelle condizioni
economiche che riescano a evitare
l’emarginazione del territorio considerato.
A questo scopo deve contribuire a
determinare efficienti livelli di
integrazione economica, tecnologica e
funzionale tra le attività economiche
dell’area e a facilitare i rapporti tra
l’area e l’esterno. Si potranno, così, al
meglio, valorizzare potenzialità e risorse
locali, facendo acquisire ad esse un maggior
peso (la valorizzazione delle specificità
locali costituisce una tra le possibile
linee di resistenza all’omologazione dettata
dalla globalizzazione). Può promuovere e
realizzare un’organizzazione del
territorio efficiente ed efficace
(virtuosi usi del suolo, salvaguardia
ambientale, riduzione dell’inquinamento e
della congestione, ecc.) che costituiscono
premessa per la crescita economica. Si fa
riferimento, cioè, non al piano di area
vasta, ma piuttosto alla
pianificazione di area vasta, cioè un
insieme di azioni e di politiche, compreso
il piano, finalizzato a obiettivi definiti
in modo chiaro ed esplicito.
In assenza di istituzioni di governo diretto dell’arcipelago metropolitano
la pianificazione di area vasta deve
fondarsi sulla capacità di promuovere la
collaborazione interistituzionale (il caso
di Barcellona, in questo senso insegna
qualcosa), che deve puntare, per avere
margini ragionevoli di successo, non tanto
sulla buona volontà quanto piuttosto
sulla messa in evidenza di interessi comuni
e di vantaggi specifici. È noto che la
collaborazione interistituzionale trova
minori ostacoli nella gestione di alcuni
servizi in comune (servizi a rete, gestione
dei rifiuti, ecc.) tuttavia quello che
appare rilevante, nel nuovo contesto dell’arcipelago
metropolitano, è raggiungere il consenso
su una linea strategica valida per tutto il
territorio, sia circa gli sviluppi futuri,
sia per l’integrazione e interdipendenza,
che per la sua organizzazione.
|
2 |
Le principali linee strategiche della pianificazione di area vasta che
devono trovare l’accordo e la collaborazione
attiva di tutte le amministrazioni, in modo
estremamente semplificato, possono indicarsi
in:
- equità sociale, tra le diverse zone e le diverse forze sociali
attivando un’equilibrata crescita dei
servizi collettivi;
- riduzione della trasformazione del territorio, anche attraverso
politiche di freno alla crescita insediativi
e di localizzazione promuovendo accordi di
compensazione tra le diverse comunità, o
politiche passive di resistenza, ecc.;
- densificazione, una linea di indirizzo che tende a realizzare un
uso meno compromissorio ed esteso del
territorio e che eviti isolamento,
sfrangiamento spaziale, guasti ambientali,
ecc.;
- controllo sul consumo delle risorse, soprattutto di quelle non
rinnovabili, con processi sostitutivi, messa
in comune di servizi, ecc.;
- promozione della crescita economica e sociale, attraverso la
creazione di nuove opportunità, con la
valorizzazione di risorse locali, processi
di adeguamenti professionali, ecc.;
- diffusione dell’innovazione scientifica e tecnologica, la
diffusione dell’innovazione deve essere
facilitata e promossa, una integrazione
pubblica ai meccanismi di diffusione di
mercato costituisce un rilevante contributo
alla crescita economica;
- avanzamento culturale della popolazione, la crescita culturale
costituisce la condizione necessaria per lo
sviluppo futuro; non possono allo scopo non
essere assunte iniziative premianti, la
realizzazione di nuove strutture, ecc. La
società della conoscenza necessita di
alti livelli culturali di massa;
- infrastrutturazione del territorio che tenga conto delle relazioni
interne all’arcipelago metropolitano; la
realizzazione delle infrastrutture devono
essere utilizzate in modo strategico per
condizionare gli sviluppi futuri delle
trasformazioni del territorio. Lo sviluppo
di efficienti servizi collettivi di
trasporti determinerà spontaneamente
processi di densificazione, così come costi
differenziati dei servizi a rete potranno
scoraggiare la diffusione territoriale (Gibelli,
2004);
- recupero e risanamento del patrimonio, sia storico e culturale,
sia naturale, che edilizio, un processo di
valorizzazione dell’insieme.
Insomma si tratta di una pianificazione (piano e politiche) in grado di
affermare la condizione urbana estesa a
tutto il territorio e in grado di essere
vissuta da tutti gli abitanti.
I casi, che qui si presentano, di Barcellona e Bologna, pur nella loro
diversità sia storica, che di peso
economico, che di organizzazione del
territorio, mostrano un tratto comune: il
tentativo di governare le trasformazioni del
loro territorio (verso la formazione di un
possibile arcipelago metropolitano)
con un riferimento costante a piani di area
vasta.
Le esperienze sono diverse, anche le storie non solo del territorio e delle
relative strutture economiche e sociali sono
diverse, ma anche diversa è la storia delle
relative istituzioni. C’è, tuttavia,
qualcosa che le associa: la mancanza di una
istituzione forte in grado di
governare il territorio allargato, e quindi
i costanti e continui tentativi di
promuovere accordi interistituzionali,
tentativi spesso messi in mora sia da azioni
politiche avverse di ogni politica di
autonomia non circoscritta, sia
dall’avversità dei rispettivi maggiori
centri urbani a cedere una loro diretta
egemonia sui territori circostanti. Non
essendo chiaro, ai rispettivi
amministratori, che, da una parte, era
proprio il rispettivo successo, per
così dire, all’origine del processo di
dispersione, di peggioramento delle
condizioni di efficienza e di efficacia del
territorio ampio e quindi di una riduzione
del loro potere egemonico, e che, dall’altra
parte, quello che era all’ordine del giorno
non era tanto una gara per l’egemonia, ma
piuttosto una politica di integrazione
larga. Infatti solo facendo emergere il
potenziale economico, sociale, culturale, di
intraprendenza e di valenza ambientale del
territorio largo (facendo, cioè,
massa integrata) sarà possibile emergere a
livello internazionale (affermazione che non
disconosce le differenze dei due casi), ma
che mette in evidenza, pur nelle differenze
di peso e di iniziative, come nelle nuove
condizioni internazionali neanche una grande
città è al riparo di emarginazione.
L’arcipelago metropolitano non si governa sulla base di poteri
predefiniti ma piuttosto attraverso la
collaborazione e la disponibilità di
ciascuna unità territoriale a giocare un
ruolo in un’organizzazione territoriale più
complessa. In sostanza, non si tratta di
sottoporre un territorio ad una più o meno
consistente egemonia di una grande città, ma
piuttosto di organizzare e pianificare il
potenziale economico-territoriale nel suo
complesso.
Se questa fosse l’esigenza non si potrebbe non rilevare che la
pianificazione di area vasta (come
dimostrano le diverse esperienze) non pare
essere consolidata né sul piano teorico, né
su quello disciplinare, né su quello della
pratica. Inoltre è la dimensione prospettica
dell’arcipelago metropolitano che
tale pianificazione deve assumere per
correggere da una parte, le tendenze di
autorganizzazione negative, e per dare,
dall’altra parte, una prospettiva di
valorizzazione complessiva del territorio.
Si può forse affermare che c’è molto lavoro
metodologico da sviluppare ed esperienze
pratiche da esperire.
Note
1
Forse, ma è questione che qui non si può
trattare, bisognerebbe accettare la città
come luogo delle contraddizioni, dalle
grandi possibilità, ma anche di gravi
aspetti negativi, dove maturano condizioni
di oppressione ma anche possibilità di
libertà, dove la povertà può essere estrema
ma dove si sviluppa anche un risarcimento
sociale dei più svantaggiati, dove si
affermano, attraverso strutture operative, i
diritti di cittadinanza. Non un Eden, ma
piuttosto un territorio di tensioni che
esaltano la dinamica sociale, la crescita
economica e culturale, le possibili
rivendicazioni di un mondo migliore.
2
Si tratta di un modello molto studiato anche
a livello internazionale (numerosa la
bibliografia), del cui successo di lungo
periodo, tuttavia, si hanno fondati dubbi
dati i più recenti avvenimenti in
conseguenza delle sempre più allargato
mercato mondiale.
3
Alla nuova struttura territoriale si fa
riferimento anche con l’appellativo di
città di città (Nel-lo, 2001); il
concetto di città di città pare
assimilabile a quello di arcipelago
metropolitano, tuttavia questa ultima
dizione, anche se meno elegante della
precedente, pare da preferirsi perché allude
direttamente alla dimensione metropolitana,
che come si detto non è solo questione di
dimensione, ma di differente qualità di
servizi, di strutture, di bisogni, di
interazione, ecc.
4
Anche in questo caso non sono rari i
fraintendimenti politici e pianificatori; un
caso esemplare, da questo punto di vista,
pare quello della diffusione di
università. La percezione, forse non
consapevole ma pur viva, del processo di
metropolizzazione e quindi di una tendenza
alla specializzazione diffusa spinge
molte amministrazioni di medie città a
promuovere nel loro territorio qualche
facoltà decentrata da qualche grande
università, le quali per una visione un po’
antiquata di egemonia e per una più recente
di concorrenza, aderisco alla richiesta. Si
tratta di un processo di svilimento della
funzione universitaria; una università non è
solo una sede dove si tengono delle lezioni,
ma una struttura complessa fatta di servizi,
di biblioteche, di centri di ricerche, di
integrazioni tra apporti disciplinari spesso
molto distanti tra di loro ma pur reagenti,
ecc.; si tratta, cioè, di un ambiente,
che non è realizzabile da una facoltà molto
spesso povera di strutture. Non si tratta,
in questi casi, di una specializzazione
diffusa, quanto piuttosto di un
impoverimento della funzione.
5
M. Castells in un recente saggio (2004)
sintetizza i suoi precedenti studi e avanza
in modo concentrato le proprie conclusioni
sul tema. Si tratta di rilievi molto
interessanti (a mio parere non completamente
condivisibili, è nella natura dello studioso
una tendenza a estremizzare) che tentano di
mettere capo ad una nuova teoria della città
fondata sulle conseguenze e sulle nuove
esperienze individuali a seguito
dell’affermarsi della comunicazione a
distanza. Relativamente all’organizzazione
dello spazio, l’elaborazione proposta,
chiamata regione metropolitana, non
sembra molto distante dall’arcipelago
metropolitano, tuttavia quello che non pare
convincente, proprio perché si tratta di un
contributo di peso nella determinazione
della nuova forma di città, è la connessione
messa in evidenza tra individualismo e
comunitarismo a livello del vissuto
individuale, a questa connessione mi pare si
debba preferire quella della identità
liquida. Il saggio, comunque, è ricchissimo
di spunti di grande interesse utili ad
alimentare la ricerca, che accomuna
ricercatori di diverse tendenze, tesa a
tentare di definire la nuova condizione
urbana.
6
Quanto prima messo in luce si riferisce alla
situazione dell’Europa (troppo diverse
essendo le situazioni del terzo mondo e
delle stesse americhe), inoltre si fa
riferimento ad una tendenza non ad un
fenomeno consolidato.
7
È ovvio che la condizione economico-sociale
ha un peso rilevante nella possibilità di
cogliere le opportunità offerte dalla
situazione descritta.
8
Vanno segnalati possibili reazioni a questa
condizione e la formazione di identità
resistenziali (Castells, 1997) che sulla
base del recupero di “materiali grezzi
tratti dalla storia, dalla geografia, dalla
lingua e dall’ambiente” si oppongono alle
trasformazioni.
Bibliografia
Camagni R., Gibelli M. C., Rigamonti P. (2002), I costi collettivi delle
città dispersa, Alinea, Firenze.
Castells M. (1997), The Information Age:
Economy, Society and Culture, Blackwell,
Oxford (trad.
Italiana
2003, Il potere delle identità,
Università Bocconi, Milano).
Castells M. (2004), Spazio fisico e spazio di flussi. Materiali per
un’urbanistica della società
dell’informazione, in idem, “La città
delle reti”, Marsilio, Venezia.
Gibelli M. C. (2004), I costi economici e sociali della città a bassa
densità (mimeo, di prossima
pubblicazione).
Indovina F. (1990) (a cura di), La città diffusa, Daest, Venezia.
Indovina F. (1997), Nuove condizioni ed esigenze per il governo urbano,
in Bertuglia C. S., Vaio F. (a cura di), “La
città e le sue scienze: la programmazione
della città”, FrancoAngeli, Milano.
Indovina F. (2001), Economia locale e internazionale nella
rivalorizzazione della città, in
“Urbanistica e pianificazione del
territorio”, Bollettino del dipartimento di
Urbanistica e Pianificazione del territorio,
Università di Firenze, n. 1-2.
Indovina F. (2003), La metropolizzazione del territorio. Nuove gerarchie
territoriali, in “Economia e società
regionale”, n. 3, FrancoAngeli, Milano.
Nel-lo O. (2001), Ciutat de ciutata, Editorial Empùries, Barcellona.
Savino M. (1999), Veneto. Il successo controverso del policentrismo,
in “Genio rurale”, n. 3.
Le fotografie 1 e 2 sono tratte da “La città infinita” a cura di Aldo
Bonomi e Alberto Abruzzese, Paravia Bruno
Mondadori Editori, 2004. |