Numero 8/9 - 2004

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il piano regolatore intercomunale della Valle dell'Irno


Isidoro Fasolino


 

Nel maggio del 1971, il Consiglio di amministrazione dell’Università di Salerno stabilì la localizzazione della nuova sede nella Valle dell’Irno. Le trasformazioni e gli effetti positivi che l’Università avrebbe prodotto, indusse la Regione Campania a dare avvio alla formazione del piano regolatore intercomunale. Isidoro Fasolino ne descrive il processo di formazione che durò dal 1977 al 1981 e che fu suddiviso in due fasi. Purtroppo alla prima fase, coincidente con la presentazione dello Schema direttore, non seguì mai la seconda che avrebbe dovuto riguardare la stesura definitiva del piano

 

 

 

 

La nascita dell’insediamento universitario nella Valle dell’Irno e l’esigenza di un’iniziativa urbanistica coordinata

 

Nel maggio del 1971, dopo un ampio dibattito, a volte anche con punte molto accese, tra coloro che proponevano il nuovo insediamento universitario nella città di Salerno e coloro che invece ne prospettavano la realizzazione lungo l’asse Salerno-Avellino, il Consiglio di amministrazione dell’Università di Salerno stabilì la localizzazione della nuova sede nella Valle dell’Irno1. Più precisamente, l’area universitaria fu prescelta all’interno dei territori comunali di Mercato San Severino (inizialmente, ma poi, di fatto, non direttamente interessato), Fisciano e Baronissi. La zona vincolata investiva un’area di notevoli dimensioni (ben 640 ettari) interessando terreni ad alta produttività agricola.

Nell’ottobre del 1972 venne bandito il concorso nazionale per la progettazione della nuova sede, poi espletato nel giugno del 1975.

Si ricorda come, negli anni ’60 e ’70, il dibattito sull’università si innestava nella più generale questione meridionale, sull’idea cioè che, per risollevare le sorti del Mezzogiorno, si dovesse intervenire per poli di sviluppo. L’idea del campus universitario ben si coniugava con una simile politica di grandi insediamenti produttivi e grandi opere; interventi, tra l’altro, per i quali non si era solito porsi il problema del consenso preventivo da parte dei loro destinatari.

Il modello di sviluppo assunto dalla Regione Campania nell’ambito delle proprie ipotesi di assetto territoriale aveva, inoltre, come obiettivo di fondo proprio quello del riequilibrio fra zone interne e conurbazione costiera, e l’insediamento universitario era idoneo a svolgere un ruolo di rilievo nel raccordo tra le due suddette realtà.

Il progettato insediamento universitario nella Valle dell’Irno avrebbe certamente determinato effetti indotti, sia positivi che negativi, per cui fu avvertita da più parti l’esigenza di ricercare, da parte dei comuni interessati, una iniziativa coordinata e unitaria sul terreno della pianificazione urbanistica.

Le trasformazioni che una funzione territoriale di enorme importanza, quale l’università, avrebbe prodotto in un ambito sociale, economico e culturale di rilevante valenza strategica, come quello della Valle dell’Irno, lasciava prefigurare conseguenze di notevole impatto per quanto concerne i rapporti spaziali e territoriali a scala provinciale e regionale. Il prevedibile indotto (funzioni universitarie; attività di servizio: trasporti, residenza, attività direzionali, terziario sociale, tempo libero, ecc.; propensione all’investimento; occupazione) avrebbe inevitabilmente determinato profonde e radicali modificazioni nei meccanismi economici dell’area.

In funzione di tale specifico obiettivo, nel dicembre del 1976, la regione2 dava formalmente l’avvio al processo di formazione del piano regolatore intercomunale (Pri), definendone l’ambito e, sostanzialmente, decretando l’obbligo di redazione del Pri per i comuni in esso compresi3. Tale ambito, oltre a comprendere i tre Comuni di Mercato S. Severino, Fisciano e Baronissi, includeva anche i Comuni di Pellezzano, Calvanico (tutti in Provincia di Salerno) e Montoro Inferiore (quest’ultimo appartenente alla Provincia di Avellino), i cui territori comunali erano contigui a quello in cui era previsto l’insediamento universitario, e quindi, più direttamente da questo influenzabili. È in questa area che, presumibilmente, sarebbe stata maggiormente avvertita l’influenza del nuovo polo a forte centralità urbana e territoriale. Essa, infatti, è fortemente interessata dal flusso di relazioni intercorrenti tra il polo di Avellino (a nord), quello di Salerno (a sud) e l’area particolarmente attiva dell’agro nocerino sarnese (a ovest).

La regione, con il provvedimento di cui sopra, non fa altro, in definitiva, che prendere atto di un’esigenza già sorta e maturata nel corso di un acceso dibattito intorno ai problemi riguardanti lo sviluppo della città di Salerno che, fin dal 1970, aveva visto impegnate tutte le forze politiche e sociali. D’altro canto, come emergeva proprio da talune piattaforme programmatiche di partiti politici e organizzazioni democratiche dell’epoca, la stessa questione Salerno era ritenuta strettamente legata alle sorti della Valle dell’Irno.

Le procedure di redazione e di adozione del Pri prevedevano la nomina, da parte della Regione Campania, di un comune pilota che redigesse il Pri e poi lo sottoponesse, per l’approvazione, agli altri comuni. Tale procedura, sicuramente praticabile all’epoca di emanazione della legge, in cui il Podestà era unico arbitro delle decisioni, risultava assolutamente improponibile in una epoca diversa, in cui la Costituzione repubblicana attribuisce ai Consigli comunali ampia autonomia deliberativa.

 

Il processo di formazione del piano regolatore intercomunale (Pri) della Valle dell’Irno

 

 

L’area del piano intercomunale

 

L’area dei sei comuni individuati, posta a nord di Salerno, presenta una superficie territoriale complessiva di circa 12.780 ha, a morfologia estremamente varia. In essa è presente la collina, la montagna e, in minor misura, la pianura di fondo valle.

La valle fusiforme si estende da nord a sud per una lunghezza di circa 13 km e, nella sua parte centrale (piana di Mercato-Fisciano), si dilata nel senso trasversale tanto che in quel punto la larghezza misura circa 4 km. La pianura, di formazione alluvionale, è costituita da due bacini fluviali: quello del torrente Solofrana che, attraversando l’agro nocerino, confluisce nel sistema del Sarno e quindi sversa nel golfo di Napoli; e quello del fiume Irno che sfocia nel golfo di Salerno.

L’area è racchiusa quasi completamente da una sequenza di versanti montani e collinari e, in particolare, dalle catene dei monti Picentini e Lattari (a nord-est e a ovest)4, con una penetrazione valliva verso l’agro nocerino sarnese (a ovest) e la valle del Sabato (a nord) e uno sbocco a differenti sistemi insediativi; la continuità dei versanti è appena intaccata a sud (varco di Fratte) e a ovest (varco di Codola) dalle solcature del fiume Irno e del torrente Solofrana. Tale conformazione porta a separare le gravitazioni interne al sub-sistema, da quelle esterne.

Due assi di viabilità veloci interessano direttamente la valle e il cui tracciato dà luogo alla morfologia insediativa del comprensorio di piano: il pendolo autostradale Salerno-Avellino e l’autostrada A30 Caserta-Mercato S. Severino-Fisciano, aprendola a tutte le direttrici geografiche di carattere nazionale. La struttura industriale della zona risultava, all’epoca, caratterizzata dalla presenza di due sistemi, uno tradizionale ed uno più recente, costituitisi in tempi e con funzioni diverse5.

Ma i fattori sostanzialmente condizionanti erano (e sono) rappresentati dalla situazione geo-morfologica dei luoghi e dal sistema delle comunicazioni viarie, data la struttura economica-insediativa fortemente connessa all’ambiente fisico.

Era, dunque, chiaro che i fattori esogeni che avrebbero caratterizzato lo sviluppo socio-economico-urbanistico dell’area erano costituiti dall’insediamento universitario e dall’agglomerato del Consorzio delle aree di sviluppo industriale.

Per quanto concerne i rapporti tra area di piano e poli esterni, l’area risultava esposta a rischi riconducibili alla presenza di quattro principali fattori:

- la posizione che l’area era venuta ad assumere rispetto alle due direttrici a più forte sviluppo (la Napoli-Bari a nord; la Napoli-Battipaglia a sud);

- il grado di accessibilità dell’area determinato daIl’attraversamento degli assi di viabilità principale di (allora) recente formazione (la Salerno-Caserta e la Salerno Avellino) e della ripristinanda linea ferrata (la Salerno-Mercato-Codola);

- l’insediamento, nella zona, dell’Università per le induzioni che essa era destinata a produrre nel terziario;

- la debolezza della struttura socio-economica della zona che, per questa stessa caratteristica, si candidava ad assumere il ruolo di area di supporto alla produzione e allo scambio.

 

 

Ambiti sub-comprensoriali di appartenenza dell’area

 

È chiaro che i comuni dell’area risultavano influenzati dal processo programmatorio in atto ed erano legati alle linee di sviluppo della regione e a enti, anche esterni alla Valle, aventi compiti di programmazione settoriale.

II Pri, quindi, non poteva non tenere presente le indicazioni che emergevano da altri strumenti para-urbanistici, che incidevano sull’ambito di piano, interessandolo, in tutto o in parte, quali: i piani delle comunità montane, dei distretti scolastici, delle unità di servizio socio-sanitarie locali (Usl) e, inoltre, dei comprensori commerciali, dei consorzi delle aree industriali e, non ultimi, le zone dei comprensori omogenei così come all’epoca prefigurati dalla regione.

Tali distrettualizzazioni interessavano, nella quasi totalità dei casi, un’area più vasta di quella del Pri, con sistemi gravitazionali di tipo diverso da quelli pensabili all’interno del Pri stesso6.

Da evidenziare, in proposito, che, con riferimento alle varie delimitazioni di ambito, i sei comuni non appartengono ad alcuna area omogenea. Quattro comuni, infatti, vanno considerati come costituenti una sub-zona, ancorché marginale, di una delle quattro zone regionali, di fondamentale importanza agricola con rilevanti suscettività di sviluppo intersettoriale, mentre gli altri due appartengono a realtà territoriali diverse a cui corrispondono problematiche specifiche: a quelle della montagna (Calvanico) e a quella della fascia costiera urbanizzata (Pellezzano)7.

L’appartenenza a diversi distretti scolastici o unità sanitarie era conseguenza del rispetto rigoroso dei limiti amministrativi delle province con cui si era operato nel distrettualizzare la regione, dato che le province conservano ancora competenze in tali settori8.

La comunità montana della Valle dell’Irno9 comprendeva, nel suo ambito di competenza, solo quattro dei sei comuni del Pri10; Mercato S. Severino e Pellezzano non appartenevano, infatti, ad alcuna comunità montana. Essa, tuttavia, pur avendone all’epoca competenza, non si era dotata di un piano urbanistico comunitario e solo da poco aveva espresso, in un documento di indirizzi, alcune opzioni in ordine alle linee di sviluppo che intendeva perseguire11.

Altri enti non avevano competenza sulla totalità dei territori comunali, ma solo per parti ben specificate di essi, quali i Consorzi di bonifica, montana e integrale12, e il Consorzio delle aree di sviluppo industriale (Asi)13.

La riflessione andava comunque condotta sugli ambiti minimi ottimali idonei a dare significato alle relazioni intercorrenti tra area di piano e sub-sistemi esterni, per cui il principale ambito da considerare era rappresentato dal sub-sistema afferente all’insediamento universitario. Ipotizzando, quindi, che la massima fruizione dell’Università sarebbe avvenuta entro un cerchio di raggio pari ad una distanza copribile in 45’, veniva individuato un ambito cui facevano capo 38 comuni (compresi, ovviamente, i sei comuni del Pri).

 

 

Lo strumento del piano regolatore generale intercomunale

 

Come noto, ai piani regolatori generali intercomunali (Prgi) fa riferimento l’art. 12 della legge urbanistica 1150/194214, il quale stabilisce che può procedersi alla loro formazione quando, per caratteristiche di sviluppo degli aggregati edilizi di due o più comuni contermini, si riconosce opportuno il coordinamento delle direttive riguardanti l’assetto urbanistico degli stessi15.

È un piano, quindi, avente il carattere di un piano consortile, nel quale ogni comune ha veste paritaria con possibilità di adottare decisioni e di procedere alla deliberazione dello stesso. Esso ha lo scopo di risolvere, in un unico disegno, problemi di sviluppo di abitati che si presentino nella realtà come un tutto unitario, avendo come limite non il territorio comunale ma quello relativo all’insieme di più comuni. Ma, in buona sostanza, l’oggetto del Pri è identico a quello del piano regolatore generale (Prg), attenendo cioè alle previsioni di sviluppo della residenza e alla previsione e localizzazione dei relativi servizi.

Le aree per le quali si è pensato ai piani intercomunali sono soprattutto quelle di grandi città che, dal punto di vista dei servizi e dello sviluppo urbanistico, si estendono oltre la circoscrizione comunale e interessano, con la loro espansione, una serie di comuni di corona.

Due dei pochi esperimenti di piano intercomunale intrapresi in Italia, il piano intercomunale milanese e il piano intercomunale torinese, dopo iter lunghissimi16 e varie vicissitudini politiche e tecniche, e polemiche riguardanti spesso l’accusa di mancata partecipazione nella progettazione da parte dei comuni di cintura nei confronti del comune capoluogo cui la progettazione era affidata, non ebbero pratica attuazione.

Lo strumento del Prgi è, inoltre, rivolto alle aree di comuni contigui che, essendo nelle stesse condizioni quanto ad assetto urbanistico, devono essere riorganizzati con previsioni unitarie, onde evitare che scelte di diversa sistemazione di alcuni possano ripercuotersi anche sugli altri.

Ma un Prgi può riguardare, infine, anche aree complementari, cioè che nell’insieme hanno uno sviluppo unitario ma con differente caratterizzazione nelle sue parti, per cui i comuni devono coordinare il proprio sviluppo urbanistico se non vogliono creare squilibri nell’utilizzazione del territorio. Ed è a quest’ultima tipologia di condizione al contorno che può essere ascritta l’esperienza del Pri della Valle dell’Irno Il Prgi svolge, quindi, le stesse funzioni di un Prg su un territorio costituito da più comuni che, in presenza di particolari condizioni e di omogeneità nei caratteri territoriali, decidono di darsi una disciplina urbanistica unitaria.

Tale tipo di strumento ha però avuto scarso successo in quanto, essendo la sua formazione una facoltà dei comuni, motivazioni legate all’autonomia politica delle singole amministrazioni ne hanno impedito una diffusione che sarebbe stata in più casi auspicabile.

 

 

Il processo di formazione del piano

 

Dopo l’emissione del decreto regionale, nel quale il Comune di Mercato S. Severino veniva designato comune pilota, si pose immediatamente il problema della gestione del Pri della Valle dell’Irno. Furono convocate varie riunioni per definire, in accordo con i rappresentanti delle altre amministrazioni comunali interessate, le modalità e i criteri per la redazione del piano17.

La progettazione del Pri riguardò 5 anni di lavoro, dal 1977 al 1981, ed era, per convenzione, suddivisa in due fasi.

La prima fase si concludeva con la presentazione dello Schema direttore che, in buona sostanza, può essere considerato l’equivalente della cosiddetta prima bozza di piano prevista dal disciplinare d’incarico; la seconda fase riguardava la stesura definitiva del piano.

Figura 1 - Manifesto del piano regolatore intercomunale della Valle dell’Irno

 

La distinzione in due tempi del processo di formazione del Pri nasceva da due considerazioni: la prima era data dall’esigenza di predisporre, nell’immediato, un quadro di riferimento per i provvedimenti di natura urbanistica che le amministrazioni locali avrebbero dovuto pur continuare a predisporre in esecuzione degli strumenti vigenti; la seconda era dovuta alla consapevolezza che contenuti e tempi di predisposizione e di approvazione del Pri sarebbero dipesi non solo dal raggiungimento degli obiettivi posti nella prima fase, ma anche dalla sopravvenienza, o meno, di iniziative politico-amministrative o meramente urbanistiche che, per loro natura, potevano incidere sulla formazione del Pri.

I comuni della Valle, tra l’altro, avrebbero potuto decidere di limitare il coordinamento dei loro strumenti urbanistici alla sola connessione degli aggregati urbani ricadenti nei loro territori, non fosse altro che per aderire scrupolosamente ad un orientamento giurisprudenziale, interpretativo in senso restrittivo dell’art. 12 della legge 1150/1942; in tal caso la formazione del Pri sarebbe stata relativamente più agevole.

La prima fase può essere, a sua volta, suddivisa in due periodi:

- il biennio 1977-1978;

- il triennio 1979-1981.

Nel primo periodo (biennio 1977-1978) la collaborazione tra amministrazioni comunali è stretta e continua e il lavoro procede con relativa assiduità, tanto che i tecnici incaricati, in collaborazione con il Comitato di coordinamento, sono in grado di preparare la relazione preliminare. Nel secondo periodo (triennio 1979-1981), invece, tale rapporto progressivamente si affievolisce e sempre più rare diventano le occasioni d’incontro degli stessi rappresentanti delle amministrazioni comunali e la stesura dello Schema direttore avviene senza ricevere alcun contributo da parte del Comitato di coordinamento. Quest’ultimo, espressione dei Consigli comunali e vero tramite tra progettisti e amministrazioni, non partecipa più ai lavori del gruppo di progettazione e, dopo le elezioni amministrative del giugno 1980, non viene rinnovato dai Consigli comunali né riattivato.

La relazione preliminare, consegnata l’11.10.1978, prima base di discussione e di confronto, descriveva i metodi da seguire nella elaborazione del Pri nonché i nodi da sciogliere attraverso un dibattito, il più largo possibile, che avrebbe dovuto coinvolgere in primo luogo i Consigli comunali, ma anche le forze politiche, culturali, sindacali, associative comunque presenti e attive nel territorio del piano.

Si voleva rispondere, così, alla necessità “che le amministrazioni locali hanno di dar corso, durante il processo di redazione del piano intercomunale, ad un esteso dibattito con tutte le forze che esprimono istanze e valori sociali, culturali ed economici. Sicché il momento della partecipazione rappresenti la garanzia democratica delle scelte da compiere”.

Le amministrazioni comunali, ricevuta la relazione preliminare, non sono però in grado di esprimere in poco tempo il loro parere, né di raccogliere pareri o consensi esterni. Nel settembre del 1979 a Pellezzano e a Mercato S. Severino inizia la discussione che solo in parte riesce a coinvolgere le istanze politiche, culturali e professionali della Valle dell’Irno. L’iniziativa non viene ripresa dalle amministrazioni comunali di Calvanico, Fisciano e Montoro Inferiore e quella di Baronissi la ripropone limitandola, però, alle sole forze politiche rappresentate in consiglio. A partire dal febbraio del 1980, comunque, i Consigli comunali approvano, con talune annotazioni, la relazione preliminare.

Tale fase era destinata a concludersi con la predisposizione di un primo quadro di coordinamento dell’attività urbanistica dei comuni, prima tappa di un’unica strategia all’interno della quale vi era il perseguimento di parziali e particolari obiettivi che ciascun comune si sarebbe ritrovato nel proprio strumento urbanistico generale.

Si trattava di una scelta questa che i comuni liberamente andavano ad assumere, per cui i risultati del lavoro svolto nella prima fase sarebbero stati formalizzati, se ritenuto opportuno, con l’adozione di nuovi strumenti urbanistici, preferibilmente Prg a carattere interlocutorio, le cui adozioni avrebbero consentito di esaltare gli indirizzi del Pri.

I Prg dei sei comuni si sarebbero configurati, pertanto, come strumenti di minima pianificazione, con poche ma efficaci direttive attinenti solamente alla residenza e ai relativi servizi, con la deliberata esclusione di ogni altro tipo di indicazione in ordine alle destinazioni d’uso.

Figura 2 - Inquadramento regionale dei comuni appartenenti alla Valle dell’Irno compresi nel piano regolatore intercomunale

 

 

Nei nuovi strumenti si sarebbe dovuto trasfondere un sistema di vincoli appositamente definito sia per consolidare accertate e definite destinazioni d’uso, sia per evitare fenomeni la cui irreversibilità avrebbero compromesso la messa a punto di razionali modelli futuri.

Andavano, pertanto, vincolati non solo ambiti territoriali obiettivamente pregevoli per caratteristiche ambientali o sicuramente soggetti a rischi potenziali, ma altresì tutelati, conservandone rigorosamente l’utilizzo, tutte le zone prossime ai centri abitati, all’insediamento universitario, al nucleo industriale e ai principali nodi della rete cinematica, in quanto elementi tutti destinati a giocare un ruolo rilevante nelle ipotesi definitive dell’assetto del territorio in esame.

Le conclusioni di un confronto così largo sarebbero state indubbiamente oggetto di riflessione, discussione e di risoluzioni definitive dei Consigli comunali dei sei comuni. Solo allora le risoluzioni delle assemblee elettive, previo incontro con gli organismi tecnico-politici della regione, avrebbero potuto essere formalizzate in un quadro di coordinamento di prima fase a cui riferire i primi Prg comunali tra loro coordinati.

 

 

La politica urbanistica dei comuni della Valle

 

Fino a quando la legge ponte non era intervenuta a limitare l’attività edilizia nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici, i sei comuni della Valle dell’Irno avevano controllato la scarsa edificazione con il richiamo ai contenuti di poche e scarne norme18.

Baronissi e Pellezzano, cogliendo le opportunità offerte dalla legge 167/1962, si avviavano per primi a formare i relativi piani di zona (PdiZ) per l’edilizia economica e popolare. Questo rappresenta il primo tentativo, sostanzialmente fallito, di creare, mediante la pianificazione urbanistica, una prospettiva di rinascita della Valle, poiché sempre più crescente era divenuto il fenomeno del doppio esodo, di nuclei operai e di attività produttive, dalla Valle verso la vicina fascia costiera, relativamente più attiva.

I sei comuni, costretti a superare i rigori della legge ponte, si danno infine un regolamento edilizio (Re) con annesso programma di fabbricazione (PdiF).

Rielaborazioni continue delle proposte formulate e crisi amministrative avevano rappresentato le cause principali, per taluni comuni, del forte ritardo nei tempi di adozione di tali strumenti. Le approvazioni definitive, comunque, avvengono nell’arco temporale che va dal 1968 al 1973, per cui, all’epoca, i sei comuni erano tutti dotati di PdiF, e alcuni di essi avevano già provveduto o stavano per provvedere a formulare proposte di varianti agli strumenti vigenti19.

Impostati e approvati in anni diversi, gli strumenti urbanistici dei sei comuni muovevano da autonome valutazioni delle esigenze locali e dei fenomeni presenti nell’area di piano; i criteri di fondo, tuttavia, risultavano alquanto omogenei, soprattutto per quanto concerne la generalmente sovradimensionata previsione insediativa teorica.

I comuni avvertivano l’esistenza nella Valle dell’Irno di un flusso di domanda esterna di case e servizi. Tale sensazione si traduceva in una stima in eccesso sia del patrimonio abitativo da risanare che dell’incremento della popolazione (nonostante i tassi negativi registrati negli anni precedenti) fatta per rendere verosimili le previsioni di espansione nel decennio considerato dai piani.

Tale domanda, non controllabile né quantizzabile, era sostenuta dall’imminente costruzione dell’Università, da una attendibile previsione di insediamento di nuovi impianti produttivi nella Valle, dall’effetto della crisi che attanagliava Salerno, dalla oggettiva baricentricità e accessibilità dell’area rispetto ai vicini sub-comprensori a sviluppo complesso e contraddittorio.

I piani, tuttavia, sarebbero risultati decisamente inadeguati se la lettura avesse tenuto conto solo di quanto si era verificato nei comuni confinanti con Salerno e, in generale, dei fenomeni in atto nell’intera area salernitana.

Da un’analisi comparativa degli strumenti vigenti, le disomogeneità più vistose attengono a quattro questioni:

1. la politica e la gestione delle zone di completamento;

2. l’insediamento diffuso nelle zone agricole;

3. il livello e la qualità degli standards urbanistici;

4. la tipologia e l’incidenza degli strumenti attuativi.

La spinta ad esaurire le zone di completamento in un tempo più breve di quello preventivato, è da mettere in relazione anche alla difficoltà di intervenire nelle zone esistenti dei centri urbani, nelle quali non mancava, certo, una domanda di miglioramento dello standard abitativo, ma per i quali i comuni non avevano ancora tentato di impostare piani attuativi ad hoc mediante l’articolazione delle norme secondo differenziate modalità d’intervento, per classi e fasi temporali, il che avrebbe potuto, salvaguardando particolari valori ambientali, rendere concreta la rivitalizzazione e il recupero di tali zone20.

La questione delle zone agricole si presentava molto più complessa. Essa andava posta non solo sotto il profilo di una migliore aderenza della norma alla modificata struttura aziendale rinvenibile nelle campagne, ma anche tenendo conto che tutti gli interventi finivano per impegnare, di preferenza, le zone più accessibili, meno acclivi e, perciò stesso, più produttive dal punto di vista agricolo21.

Figura 3 - Schema delle relazioni intercorrenti fra i comuni compresi nel Pri

 

La questione degli standards urbanistici imponeva, poi, una riflessione critica sia sui criteri adottati per la più idonea individuazione delle relative aree, sia sulle concrete possibilità e convenienza di loro effettiva realizzazione. Ma, innanzitutto, e questa rappresenta una delle questioni centrali per cui si ritiene ancora oggi fondamentale un coordinamento degli strumenti urbanistici dei comuni nell’area di influenza dell’ateneo, si poneva la necessità di verificare la qualità degli standards previsti per riconsiderarli in un auspicabile sistema delle attrezzature a scala sovracomunale, in cui le attrezzature stesse, opportunamente dimensionate, risultassero tra loro interconnesse e relazionate all’insediamento universitario e alle attrezzature di livello superiore esterne all’area. Con ciò si sarebbero evitate diseconomiche sovrapposizioni nella previsione di taluni tipi di attrezzature e inutili opzioni su aree marginali o comunque inadeguate.

Per quanto concerne la tipologia e l’incidenza degli strumenti attuativi, la tendenza era quella di privilegiare l’espansione più che il recupero dell’esistente; tale indirizzo è rinvenibile nella generalità degli strumenti urbanistici. La causa di ciò è da attribuire soprattutto alla carenza di leggi nazionali e regionali volte ad agevolare gli interventi nei centri esistenti, per cui era possibile intervenire solo attraverso piani particolareggiati di esecuzione. Si rendevano, quindi, necessari piani che, data la struttura proprietaria esistente in tali centri, solo l’iniziativa pubblica poteva promuovere e attuare sul costruito (i piani di recupero sarebbero stati introdotti dalla legge 457/1978). Invece, soprattutto nei comuni a più intenso sviluppo edilizio, le amministrazioni locali erano intervenute esclusivamente nelle zone di espansione, sia con i piani di zona, di loro competenza22, sia stimolando le lottizzazioni private, sia, infine, in qualche caso, addirittura con lottizzazioni di ufficio.

Da una tale politica è conseguita, da una parte, l’apparente esaurimento delle aree di espansione previste nei piani e, dall’altra, l’esigenza di provvedere, in variante degli strumenti urbanistici vigenti, a reperire nuove zone di espansione. Le proposte di varianti cui ricorrevano i comuni già all’indomani dell’approvazione definitiva degli strumenti urbanistici erano, quindi, dettate dall’esigenza di superare le inadeguatezze dovute alla insufficiente aderenza delle norme di attuazione alle peculiari situazioni esistenti nei comuni.

 

 

Lo schema direttore (e sua necessità attuale)

 

Lo schema direttore era, quindi, considerato non il Prg dell’insieme (o dell’unione) dei sei comuni della Valle dell’Irno, ma piuttosto come “un programma di ipotesi, una sorta di documento di riferimento per le future iniziative di sviluppo, uno strumento, a maglie sufficientemente elastiche, per misurare correlazioni e interferenze di futuri programmi d’intervento, attivati dai numerosi enti che agiscono nel territorio. Non un disegno rigidamente vincolante, ma uno strumento indicativo di esecuzione soltanto per gli elementi sostanziali dello schema proposto: le infrastrutture del sub-sistema; le aree da vincolare a riserva; l’area di concentrazione delle funzioni urbane”.

Il principio dello schema direttore e del conseguente schema normativo è che “debbano essere tenuti distinti i due livelli della pianificazione: il primo livello, quello sovracomunale, come momento della formulazione degli obiettivi di carattere generale, nonché del quadro di indirizzi normativi; il secondo livello, quello comunale, quale sede delle specificazioni spazio-temporali e, quindi, più squisitamente esecutive delle ipotesi di primo livello.

Condizione essenziale per assicurare la necessaria coerenza al nesso che esiste tra i due livelli è che le normative attuative, sia degli strumenti a scala comunale che di quelli attuativi dei primi, siano conformi alle linee del quadro normativo dello schema direttore”.

Ritengo sia ancora oggi utile, se non indispensabile, riproporre per l’area in oggetto un modello di intervento (messo a punto per un’area particolare, quale quella della Valle dell’Irno, in cui, di lì a qualche mese sarebbe sorta una delle più grandi università italiane) che, per certi versi, anticipava concettualmente la Lr Toscana 5/1995, circa la necessità di separare una componente strutturale (di medio-lungo termine) ed una operativa (di breve termine).

Si tratterebbe di redigere un master plan per la Valle dell’Irno, un piano strutturale per quest’area, così come si è delineato nelle recenti legislazioni regionali in materia di governo del territorio. Esso non sarebbe altro che uno stralcio, una specificazione di dettaglio, di un piano strutturale sovraordinato qual è il piano territoriale di coordinamento provinciale, ancorché non vigente per la Provincia di Salerno.

Come per quella esperienza degli anni ’70, un nuovo schema direttore per la Valle dell’Irno fornirebbe indicazioni strategiche, rinviando ai singoli Prg comunali la definizione di tutti quegli aspetti concernenti la specificazione delle scelte localizzative di dettaglio e degli strumenti operativi (il piano operativo delle legislazioni regionali).

Negli strumenti comunali, quindi, sarebbero specificati, in termini operativi, le indicazioni che promanano dallo schema direttore in ordine a cinque aspetti: le attrezzature e i servizi per l’intera area in una logica di integrazione territorio-università; lo schema relazionale; la nuova residenza; l’agricoltura, le aree protette e i vincoli a tutela; le localizzazioni produttive. Naturalmente, anche le norme di attuazione dei futuri strumenti urbanistici comunali dovrebbero essere impostate con criteri omogenei e coerenti con gli indirizzi normativi dello schema direttore.

Anche oggi, in definitiva, l’obiettivo di uno strumento di questa natura, mediante la messa a punto di uno schema flessibile, potrebbe essere quello di gettare le basi per innescare un processo volto al superamento dei vigenti strumenti urbanistici e a favorire la progressiva convergenza delle politiche urbanistiche dei sei comuni verso un unico strumento di pianificazione strategica.

 

 

L’epilogo

 

Ad un anno dal devastante terremoto del 23 novembre 1980 in Campania e Basilicata la fase dell’emergenza si era conclusa; nei centri abitati e nelle campagne della Valle dell’Irno i danni meno gravi erano stati riparati, con (o senza) il contributo dello Stato, e i senza-tetto, almeno in parte, avevano trovato sistemazione negli insediamenti provvisori (le famigerate aree prefabbricati) e iniziava la fase più complessa della ricostruzione.

Alcune amministrazioni, in applicazione della legge 219/1981 per la ricostruzione post-sisma, già predisponevano programmI o strumenti che, in carenza di un disegno di un più complessivo sviluppo della valle, si sarebbero rivelati poco incisivi ai fini di un reale rilancio socio-economico dei comuni.

Lo schema direttore del piano intercomunale della Valle dell’Irno, illustrato a Penta la sera del 21 novembre 1980, due giorni prima del sisma, avrebbe potuto costituire un sufficiente quadro di riferimento per il coordinamento degli strumenti urbanistici che i comuni erano chiamati a predisporre tempestivamente.

Un documento di indirizzi, capace di orientare e unificare almeno i piani di sviluppo urbanistico, avrebbe potuto fare della ricostruzione il punto di partenza di un programma di ampio respiro, capace di creare le migliori opportunità di utilizzo delle risorse disponibili, a cominciare dai contributi esterni che per diversi canali cominciavano ad affluire nella zona.

L’ultima versione del Pri teneva conto delle situazioni modificate dal sisma: un anno dopo l’evento, recuperato il materiale cartografico e ripresi i contatti con le amministrazioni comunali, furono raccolte e analizzate le informazioni disponibili riguardanti i danni e gli interventi di emergenza e, alla luce delle nuove risultanze nonché dei contenuti programmatici, procedurali e finanziari della legge per la ricostruzione, lo schema fu rielaborato.

Si concludeva così, nel maggio 1982, la prima fase di un lavoro lungo, complesso e discontinuo, con eventi che, non poche volte, avevano causato prolungati momenti di attesa, esclusi naturalmente gli accadimenti che si possono definire eccezionali, quali elezioni amministrative e terremoto.

Alla prima, non sarebbe mai seguita la seconda fase.

 

Figura 4 - Il territorio della Valle dell’Irno

 

 

Note

 

1 Il toponimo Valle dell’Irno, secondo un uso già invalso da tempo, si riferisce geograficamente a tutta l’area che, da Fratte a Mercato S. Severino, comprende il composito sistema di valli appartenenti a due distinti bacini imbriferi.

2 Con Dpr del 15.1.1972, n. 8, le competenze relative ai piani intercomunali sono state trasferite, a far data dall’1.4.1972, dallo Stato (Ministero dei lavori pubblici) alle regioni.

3 La Regione Campania, per dotare di adeguati strumenti urbanistici i comuni della Valle dell’Irno, nel cui ambito viene a collocarsi la nuova struttura quaternaria, con decreto di giunta n. 428 del 28.12.1976, impone ai Comuni di Mercato S. Severino (designato comune pilota), Calvanico, Fisciano, Montoro lnferiore, Baronissi e Pellezzano di dotarsi di un piano regolatore intercomunale.

4 Spiccano le propaggini montuose del Monte Salto, del Pizzo S. Michele, del Monte Monna, del Monte Stella e del Monte Decimari.

5 Da una parte, il sistema per così dire tradizionale, legato prevalentemente alle industrie di trasformazione dei prodotti agricoli, per le connessioni geografiche con l’area nocerina, e a quello del legno; dall’altra il sistema delle più recenti localizzazioni, determinatasi dalla fine degli anni ’60 a seguito dell’azione del Consorzio dell’area di sviluppo industriale (Asi) e, successivamente, del tratto autostradale Caserta-Mercato S. Severino, basato su produzioni estranee alla tradizione dell’area e, sostanzialmente, appartenenti al settore delle industrie meccaniche.

6 Nel caso in cui tali piani di ambito si trovavano ad essere operanti, sarebbe stato opportuno considerare le loro previsioni quali vincoli esistenti sul territorio, rispetto ai quali era necessario calibrare e definire il progetto del Pri. Laddove, viceversa, tali piani erano ancora non operanti, il Pri avrebbe dovuto essere recepito da quegli strumenti di pianificazione operanti, del tutto o in parte, sulla stessa area, con le ovvie integrazioni territoriali.

7 Infatti, i sei comuni non appartengono ad una stessa area o regione agraria tra quelle in cui solitamente, o per l’intervento programmato o per l’indagine statistica, viene suddiviso il territorio regionale. Baronissi, Fisciano, Mercato S. Severino e Montoro Inferiore appartengono alla zona agricola omogenea o regione agraria n. 12, cioè all’agro nocerino sarnese pompeiano. Calvanico appartiene alla realtà territoriale dei Picentini (regione agraria n. 6) e Pellezzano, infine, a quelle del litorale di Salerno (regione agraria n. 13).

8 La Usl n. 20 e il distretto scolastico n. 6 della Provincia di Salerno, coincidenti, cioè aventi una identica delimitazione territoriale, comprendono cinque comuni del piano: Mercato S. Severino, Baronissi, Fisciano, Calvanico e Pellezzano (gli altri sono Castel S. Giorgio, Roccapiemonte e Castiglione del Genovesi); Monitoro Inferiore, invece, appartiene al distretto scolastico n. 6 e alla Usl n. 18, entrambi della Provincia di Avellino.

9 Istituita con Lr 14.1.1974, n. 3, aveva competenza sul territorio di dieci comuni: cinque della Provincia di Avellino (Monteforte Irpino, Forino, Solofra, Monitoro Superiore e Montoro Inferiore) e cinque della Provincia di Salerno (Giffoni Sei Casali, Castiglione del Genovesi, Baronissi, Fisciano e Calvanico).

10 All’epoca era costituita da 5 comuni della Provincia di Avellino (Monteforte Irpino, Forino, Solofra, Montoro Superiore e Montoro Inferiore) e 5 della Provincia di Salerno (Giffoni Sei Casali, Castiglione dei Genovesi, Baronissi, Fisciano, Calvanico).

11 Il documento affrontava tre questioni, tutte in buona sostanza orientate al turismo: il bosco, la viabilità montana, lo sviluppo della montagna. Esso elencava i finanziamenti necessari per il sostegno della produzione fruttifera dei boschi, per il miglioramento e il completamento della viabilità interna, per l’incentivazione al recupero e al riuso a fini turistici delle case rurali abbandonate nonché alla costruzione di seconde case nei villaggi turistici previsti nei programmi di fabbricazione. Solo successivamente, nel 1984, fu predisposto il progetto di massima del piano territoriale urbanistico.

12 Due erano gli interventi di bonifica nell’area del piano: il primo, di bonifica integrale, operava nei Comuni di Baronissi (sul 20% del territorio), Fisciano (95%) e Mercato S. Severino (100%); il secondo, di bonifica montana, operava nelle sezioni montane del bacino dell’Irno e, quindi, nei Comuni di Baronissi (26%) e Fisciano (15%).

13 Nell’ambito del piano interveniva solo il Consorzio di Salerno, dato che quello di Avellino non comprendeva il Comune di Montoro Inferiore. Il piano regolatore del Consorzio, vigente dal 25.8.1966, prevedeva la formazione di quattro agglomerati tra cui quello di Mercato S. Severino-Fisciano di circa 298 ettari di estensione.

14 Legge 17.8.1942, n. 1150 – Legge urbanistica nazionale

Art. 12 - Piani regolatori generali intercomunali

Quando per le caratteristiche di sviluppo degli aggregati edilizi di due o più comuni contermini si riconosca opportuno il coordinamento delle direttive riguardanti l’assetto urbanistico dei comuni stessi, il Ministro per i lavori pubblici può, a richiesta di una delle amministrazioni interessate o di propria iniziativa, disporre la formazione di un piano regolatore intercomunale.

In tal caso il Ministro, sentito il parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, determina:

- l’estensione del piano intercomunale da formare;

- quale dei comuni interessati debba provvedere alla redazione del piano stesso e come debba essere ripartita la relativa spesa.

Il piano intercomunale deve, a cura del comune incaricato di redigerlo, essere pubblicato nei modi e per gli effetti di cui all’art. 9 in tutti i comuni compresi nel territorio da esso considerato.

Deve inoltre essere comunicato ai sindaci degli stessi comuni perché deliberino circa la sua adozione.

Compiuta l’ulteriore istruttoria a norma del regolamento di esecuzione della presente legge, il piano intercomunale è approvato negli stessi modi stabiliti dall’art. 10 per l’approvazione del piano generale comunale.

15 Alcune delle più recenti leggi regionali di governo del territorio, confermano la necessità di prevedere esplicitamente un ambito intercomunale per il corretto assetto urbanistico del territorio: Lr Friuli-Venezia Giulia 52/1991; Lp Trento 22/1991; Lr Provincia Bolzano 13/1997; Lr Liguria 36/1997; Lr Puglia 20/2001; Lr Veneto 11/2004. Altre leggi regionali, viceversa, ignorano tale ambito: Lr Marche 34/1992; Lr Toscana 5/1995; Lr Umbria 31/1997; Lr Valle d’Aosta 11/1998; Lr Basilicata 23/1999; Lr Lazio 38/1999; Lr Emilia Romagna 20/2000; Lr Calabria 9/2002.

16 Il Comune di Milano avanzò la prima proposta di Prgi nel febbraio 1951, ma il suo primo schema, il famoso piano del modello a turbina, fu presentato nel luglio 1963. Il Comune di Torino presentò la prima proposta nel gennaio 1952 e il piano fu adottato nel 1964.

17 Progettisti del Pri furono designati: Carmine Colucci, Giovanni Giannattasio, Giacinta Jalongo, Gino Kalby, Enrico Petti e Roberto Visconti.

18 Per lo più le norme erano derivate dal Codice civile, ad eccezione di quelle di Baronissi e di Pellezzano, i quali si rifacevano, il primo, ad un Regolamento edilizio mai adeguato alla legge urbanistica, il secondo, ad un vecchio Regolamento d’igiene varato nel 1903.

19 Fisciano perviene alla adozione del Re con annesso Pdif nel 1968; Mercato S. Severino e Baronissi nel 1971; Montoro Inferiore e Pellezzano nel 1972; Galvanico nel 1973.

20 Si trattava, tra l’altro, di porre come obiettivo di piano la riduzione a 1 abitante/stanza gli elevati indici di affollamento calcolati al 1977.

21 La norma per le zone agricole nel Pdif di Fisciano stimolava l’insediamento diffuso nelle campagne non sempre a residenza rurale. L’edificazione, era infatti consentita nel solo rispetto dell’indice fondiario pari a 0,20 mc/mq, senza alcuna limitazione in ordine all’estensione minima del fondo.

22 Il documento di Pri si poneva, in proposito, l’obiettivo di conseguire, nelle nuove localizzazioni, un avvicinamento dei comparti di Pdiz agli esistenti centri urbani, del capoluogo o delle frazioni, con i quali ricercare la massima connessione possibile; ove, invece, si sarebbe dovuto promuovere l’ampliamento dei Pdiz, questi dovevano investire aree già individuate nei vigenti Pdif come zone di espansione e, quindi, non in variante dello strumento urbanistico vigente.

 

 

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