La nascita dell’insediamento universitario
nella Valle dell’Irno e l’esigenza di
un’iniziativa urbanistica coordinata
Nel maggio del 1971, dopo un ampio
dibattito, a volte anche con punte molto
accese, tra coloro che proponevano il nuovo
insediamento universitario nella città di
Salerno e coloro che invece ne prospettavano
la realizzazione lungo l’asse
Salerno-Avellino, il Consiglio di
amministrazione dell’Università di Salerno
stabilì la localizzazione della nuova sede
nella Valle dell’Irno1. Più
precisamente, l’area universitaria fu
prescelta all’interno dei territori comunali
di Mercato San Severino (inizialmente, ma
poi, di fatto, non direttamente
interessato), Fisciano e Baronissi. La zona
vincolata investiva un’area di notevoli
dimensioni (ben 640 ettari) interessando
terreni ad alta produttività agricola.
Nell’ottobre del 1972 venne bandito il
concorso nazionale per la progettazione
della nuova sede, poi espletato nel giugno
del 1975.
Si ricorda come, negli anni ’60 e ’70, il
dibattito sull’università si innestava nella
più generale questione meridionale,
sull’idea cioè che, per risollevare le sorti
del Mezzogiorno, si dovesse intervenire per
poli di sviluppo. L’idea del campus
universitario ben si coniugava con una
simile politica di grandi insediamenti
produttivi e grandi opere; interventi, tra
l’altro, per i quali non si era solito porsi
il problema del consenso preventivo da parte
dei loro destinatari.
Il modello di sviluppo assunto dalla Regione
Campania nell’ambito delle proprie ipotesi
di assetto territoriale aveva, inoltre, come
obiettivo di fondo proprio quello del
riequilibrio fra zone interne e conurbazione
costiera, e l’insediamento universitario era
idoneo a svolgere un ruolo di rilievo nel
raccordo tra le due suddette realtà.
Il progettato insediamento universitario
nella Valle dell’Irno avrebbe certamente
determinato effetti indotti, sia positivi
che negativi, per cui fu avvertita da più
parti l’esigenza di ricercare, da parte dei
comuni interessati, una iniziativa
coordinata e unitaria sul terreno della
pianificazione urbanistica.
Le trasformazioni che una funzione
territoriale di enorme importanza, quale
l’università, avrebbe prodotto in un ambito
sociale, economico e culturale di rilevante
valenza strategica, come quello della Valle
dell’Irno, lasciava prefigurare conseguenze
di notevole impatto per quanto concerne i
rapporti spaziali e territoriali a scala
provinciale e regionale. Il prevedibile
indotto (funzioni universitarie; attività di
servizio: trasporti, residenza, attività
direzionali, terziario sociale, tempo
libero, ecc.; propensione all’investimento;
occupazione) avrebbe inevitabilmente
determinato profonde e radicali
modificazioni nei meccanismi economici
dell’area.
In funzione di tale specifico obiettivo, nel
dicembre del 1976, la regione2
dava formalmente l’avvio al processo di
formazione del piano regolatore
intercomunale (Pri), definendone
l’ambito e, sostanzialmente, decretando
l’obbligo di redazione del Pri per i comuni
in esso compresi3. Tale ambito,
oltre a comprendere i tre Comuni di Mercato
S. Severino, Fisciano e Baronissi, includeva
anche i Comuni di Pellezzano, Calvanico
(tutti in Provincia di Salerno) e Montoro
Inferiore (quest’ultimo appartenente alla
Provincia di Avellino), i cui territori
comunali erano contigui a quello in cui era
previsto l’insediamento universitario, e
quindi, più direttamente da questo
influenzabili. È in questa area che,
presumibilmente, sarebbe stata maggiormente
avvertita l’influenza del nuovo polo a forte
centralità urbana e territoriale. Essa,
infatti, è fortemente interessata dal flusso
di relazioni intercorrenti tra il polo di
Avellino (a nord), quello di Salerno (a sud)
e l’area particolarmente attiva dell’agro
nocerino sarnese (a ovest).
La regione, con il provvedimento di cui
sopra, non fa altro, in definitiva, che
prendere atto di un’esigenza già sorta e
maturata nel corso di un acceso dibattito
intorno ai problemi riguardanti lo sviluppo
della città di Salerno che, fin dal 1970,
aveva visto impegnate tutte le forze
politiche e sociali. D’altro canto, come
emergeva proprio da talune piattaforme
programmatiche di partiti politici e
organizzazioni democratiche dell’epoca, la
stessa questione Salerno era ritenuta
strettamente legata alle sorti della Valle
dell’Irno.
Le procedure di redazione e di adozione del
Pri prevedevano la nomina, da parte della
Regione Campania, di un comune pilota
che redigesse il Pri e poi lo sottoponesse,
per l’approvazione, agli altri comuni. Tale
procedura, sicuramente praticabile all’epoca
di emanazione della legge, in cui il Podestà
era unico arbitro delle decisioni, risultava
assolutamente improponibile in una epoca
diversa, in cui la Costituzione repubblicana
attribuisce ai Consigli comunali ampia
autonomia deliberativa.
L’area del piano intercomunale
L’area dei sei comuni individuati, posta a
nord di Salerno, presenta una superficie
territoriale complessiva di circa 12.780 ha,
a morfologia estremamente varia. In essa è
presente la collina, la montagna e, in minor
misura, la pianura di fondo valle.
La valle fusiforme si estende da nord a sud
per una lunghezza di circa 13 km e, nella
sua parte centrale (piana di
Mercato-Fisciano), si dilata nel senso
trasversale tanto che in quel punto la
larghezza misura circa 4 km. La pianura, di
formazione alluvionale, è costituita da due
bacini fluviali: quello del torrente
Solofrana che, attraversando l’agro nocerino,
confluisce nel sistema del Sarno e quindi
sversa nel golfo di Napoli; e quello del
fiume Irno che sfocia nel golfo di Salerno.
L’area è racchiusa quasi completamente da
una sequenza di versanti montani e collinari
e, in particolare, dalle catene dei monti
Picentini e Lattari (a nord-est e a ovest)4,
con una penetrazione valliva verso l’agro
nocerino sarnese (a ovest) e la valle del
Sabato (a nord) e uno sbocco a differenti
sistemi insediativi; la continuità dei
versanti è appena intaccata a sud (varco di
Fratte) e a ovest (varco di Codola) dalle
solcature del fiume Irno e del torrente
Solofrana. Tale conformazione porta a
separare le gravitazioni interne al
sub-sistema, da quelle esterne.
Due assi di viabilità veloci interessano
direttamente la valle e il cui tracciato dà
luogo alla morfologia insediativa del
comprensorio di piano: il pendolo
autostradale Salerno-Avellino e l’autostrada
A30 Caserta-Mercato S. Severino-Fisciano,
aprendola a tutte le direttrici geografiche
di carattere nazionale. La struttura
industriale della zona risultava, all’epoca,
caratterizzata dalla presenza di due
sistemi, uno tradizionale ed uno più
recente, costituitisi in tempi e con
funzioni diverse5.
Ma i fattori sostanzialmente condizionanti
erano (e sono) rappresentati dalla
situazione geo-morfologica dei luoghi e dal
sistema delle comunicazioni viarie, data la
struttura economica-insediativa fortemente
connessa all’ambiente fisico.
Era, dunque, chiaro che i fattori esogeni
che avrebbero caratterizzato lo sviluppo
socio-economico-urbanistico dell’area erano
costituiti dall’insediamento universitario e
dall’agglomerato del Consorzio delle aree di
sviluppo industriale.
Per quanto concerne i rapporti tra area di
piano e poli esterni, l’area risultava
esposta a rischi riconducibili alla presenza
di quattro principali fattori:
- la posizione che l’area era venuta ad
assumere rispetto alle due direttrici a più
forte sviluppo (la Napoli-Bari a nord; la
Napoli-Battipaglia a sud);
- il grado di accessibilità dell’area
determinato daIl’attraversamento degli assi
di viabilità principale di (allora) recente
formazione (la Salerno-Caserta e la Salerno
Avellino) e della ripristinanda linea
ferrata (la Salerno-Mercato-Codola);
- l’insediamento, nella zona,
dell’Università per le induzioni che essa
era destinata a produrre nel terziario;
- la debolezza della struttura
socio-economica della zona che, per questa
stessa caratteristica, si candidava ad
assumere il ruolo di area di supporto alla
produzione e allo scambio.
Ambiti sub-comprensoriali di appartenenza
dell’area
È chiaro che i comuni dell’area risultavano
influenzati dal processo programmatorio in
atto ed erano legati alle linee di sviluppo
della regione e a enti, anche esterni alla
Valle, aventi compiti di programmazione
settoriale.
II Pri, quindi, non poteva non tenere
presente le indicazioni che emergevano da
altri strumenti para-urbanistici, che
incidevano sull’ambito di piano,
interessandolo, in tutto o in parte, quali:
i piani delle comunità montane, dei
distretti scolastici, delle unità
di servizio socio-sanitarie locali (Usl)
e, inoltre, dei comprensori commerciali, dei
consorzi delle aree industriali e, non
ultimi, le zone dei comprensori omogenei
così come all’epoca prefigurati dalla
regione.
Tali distrettualizzazioni interessavano,
nella quasi totalità dei casi, un’area più
vasta di quella del Pri, con sistemi
gravitazionali di tipo diverso da quelli
pensabili all’interno del Pri stesso6.
Da evidenziare, in proposito, che, con
riferimento alle varie delimitazioni di
ambito, i sei comuni non appartengono ad
alcuna area omogenea. Quattro comuni,
infatti, vanno considerati come costituenti
una sub-zona, ancorché marginale, di una
delle quattro zone regionali, di
fondamentale importanza agricola con
rilevanti suscettività di sviluppo
intersettoriale, mentre gli altri due
appartengono a realtà territoriali diverse a
cui corrispondono problematiche specifiche:
a quelle della montagna (Calvanico) e a
quella della fascia costiera urbanizzata (Pellezzano)7.
L’appartenenza a diversi distretti
scolastici o unità sanitarie era
conseguenza del rispetto rigoroso dei limiti
amministrativi delle province con cui si era
operato nel distrettualizzare la regione,
dato che le province conservano ancora
competenze in tali settori8.
La comunità montana della Valle
dell’Irno9 comprendeva, nel suo
ambito di competenza, solo quattro dei sei
comuni del Pri10; Mercato S.
Severino e Pellezzano non appartenevano,
infatti, ad alcuna comunità montana. Essa,
tuttavia, pur avendone all’epoca competenza,
non si era dotata di un piano urbanistico
comunitario e solo da poco aveva espresso,
in un documento di indirizzi, alcune opzioni
in ordine alle linee di sviluppo che
intendeva perseguire11.
Altri enti non avevano competenza sulla
totalità dei territori comunali, ma solo per
parti ben specificate di essi, quali i
Consorzi di bonifica, montana e integrale12,
e il Consorzio delle aree di sviluppo
industriale (Asi)13.
La riflessione andava comunque condotta
sugli ambiti minimi ottimali idonei a dare
significato alle relazioni intercorrenti tra
area di piano e sub-sistemi esterni, per cui
il principale ambito da considerare era
rappresentato dal sub-sistema afferente
all’insediamento universitario. Ipotizzando,
quindi, che la massima fruizione
dell’Università sarebbe avvenuta entro un
cerchio di raggio pari ad una distanza
copribile in 45’, veniva individuato un
ambito cui facevano capo 38 comuni
(compresi, ovviamente, i sei comuni del Pri).
Lo strumento del piano regolatore generale
intercomunale
Come noto, ai piani regolatori generali
intercomunali (Prgi) fa riferimento
l’art. 12 della legge urbanistica 1150/194214,
il quale stabilisce che può procedersi alla
loro formazione quando, per caratteristiche
di sviluppo degli aggregati edilizi di due o
più comuni contermini, si riconosce
opportuno il coordinamento delle direttive
riguardanti l’assetto urbanistico degli
stessi15.
È un piano, quindi, avente il carattere di
un piano consortile, nel quale ogni comune
ha veste paritaria con possibilità di
adottare decisioni e di procedere alla
deliberazione dello stesso. Esso ha lo scopo
di risolvere, in un unico disegno, problemi
di sviluppo di abitati che si presentino
nella realtà come un tutto unitario, avendo
come limite non il territorio comunale ma
quello relativo all’insieme di più comuni.
Ma, in buona sostanza, l’oggetto del Pri è
identico a quello del piano regolatore
generale (Prg), attenendo cioè alle
previsioni di sviluppo della residenza e
alla previsione e localizzazione dei
relativi servizi.
Le aree per le quali si è pensato ai piani
intercomunali sono soprattutto quelle di
grandi città che, dal punto di vista dei
servizi e dello sviluppo urbanistico, si
estendono oltre la circoscrizione comunale e
interessano, con la loro espansione, una
serie di comuni di corona.
Due dei pochi esperimenti di piano
intercomunale intrapresi in Italia, il
piano intercomunale milanese e il
piano intercomunale torinese, dopo iter
lunghissimi16 e varie
vicissitudini politiche e tecniche, e
polemiche riguardanti spesso l’accusa di
mancata partecipazione nella progettazione
da parte dei comuni di cintura nei confronti
del comune capoluogo cui la progettazione
era affidata, non ebbero pratica attuazione.
Lo strumento del Prgi è, inoltre, rivolto
alle aree di comuni contigui che, essendo
nelle stesse condizioni quanto ad assetto
urbanistico, devono essere riorganizzati con
previsioni unitarie, onde evitare che scelte
di diversa sistemazione di alcuni possano
ripercuotersi anche sugli altri.
Ma un Prgi può riguardare, infine, anche
aree complementari, cioè che nell’insieme
hanno uno sviluppo unitario ma con
differente caratterizzazione nelle sue
parti, per cui i comuni devono coordinare il
proprio sviluppo urbanistico se non vogliono
creare squilibri nell’utilizzazione del
territorio. Ed è a quest’ultima tipologia di
condizione al contorno che può essere
ascritta l’esperienza del Pri della Valle
dell’Irno Il Prgi svolge, quindi, le stesse
funzioni di un Prg su un territorio
costituito da più comuni che, in presenza di
particolari condizioni e di omogeneità nei
caratteri territoriali, decidono di darsi
una disciplina urbanistica unitaria.
Tale tipo di strumento ha però avuto scarso
successo in quanto, essendo la sua
formazione una facoltà dei comuni,
motivazioni legate all’autonomia politica
delle singole amministrazioni ne hanno
impedito una diffusione che sarebbe stata in
più casi auspicabile.
Il processo di formazione del piano
Dopo l’emissione del decreto regionale, nel
quale il Comune di Mercato S. Severino
veniva designato comune pilota, si
pose immediatamente il problema della
gestione del Pri della Valle dell’Irno.
Furono convocate varie riunioni per
definire, in accordo con i rappresentanti
delle altre amministrazioni comunali
interessate, le modalità e i criteri per la
redazione del piano17.
La progettazione del Pri riguardò 5 anni di
lavoro, dal 1977 al 1981, ed era, per
convenzione, suddivisa in due fasi.
La prima fase si concludeva con la
presentazione dello Schema direttore
che, in buona sostanza, può essere
considerato l’equivalente della cosiddetta
prima bozza di piano prevista dal
disciplinare d’incarico; la seconda fase
riguardava la stesura definitiva del piano.
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Figura 1 - Manifesto del piano
regolatore intercomunale della Valle
dell’Irno |
La distinzione in due tempi del processo di
formazione del Pri nasceva da due
considerazioni: la prima era data
dall’esigenza di predisporre,
nell’immediato, un quadro di riferimento per
i provvedimenti di natura urbanistica che le
amministrazioni locali avrebbero dovuto pur
continuare a predisporre in esecuzione degli
strumenti vigenti; la seconda era dovuta
alla consapevolezza che contenuti e tempi di
predisposizione e di approvazione del Pri
sarebbero dipesi non solo dal raggiungimento
degli obiettivi posti nella prima fase, ma
anche dalla sopravvenienza, o meno, di
iniziative politico-amministrative o
meramente urbanistiche che, per loro natura,
potevano incidere sulla formazione del Pri.
I comuni della Valle, tra l’altro, avrebbero
potuto decidere di limitare il coordinamento
dei loro strumenti urbanistici alla sola
connessione degli aggregati urbani ricadenti
nei loro territori, non fosse altro che per
aderire scrupolosamente ad un orientamento
giurisprudenziale, interpretativo in senso
restrittivo dell’art. 12 della legge
1150/1942; in tal caso la formazione del Pri
sarebbe stata relativamente più agevole.
La prima fase può essere, a sua volta,
suddivisa in due periodi:
- il biennio 1977-1978;
- il triennio 1979-1981.
Nel primo periodo (biennio 1977-1978) la
collaborazione tra amministrazioni comunali
è stretta e continua e il lavoro procede con
relativa assiduità, tanto che i tecnici
incaricati, in collaborazione con il
Comitato di coordinamento, sono in grado
di preparare la relazione preliminare.
Nel secondo periodo (triennio 1979-1981),
invece, tale rapporto progressivamente si
affievolisce e sempre più rare diventano le
occasioni d’incontro degli stessi
rappresentanti delle amministrazioni
comunali e la stesura dello Schema
direttore avviene senza ricevere alcun
contributo da parte del Comitato di
coordinamento. Quest’ultimo, espressione dei
Consigli comunali e vero tramite tra
progettisti e amministrazioni, non partecipa
più ai lavori del gruppo di progettazione e,
dopo le elezioni amministrative del giugno
1980, non viene rinnovato dai Consigli
comunali né riattivato.
La relazione preliminare, consegnata
l’11.10.1978, prima base di discussione e di
confronto, descriveva i metodi da seguire
nella elaborazione del Pri nonché i nodi da
sciogliere attraverso un dibattito, il più
largo possibile, che avrebbe dovuto
coinvolgere in primo luogo i Consigli
comunali, ma anche le forze politiche,
culturali, sindacali, associative comunque
presenti e attive nel territorio del piano.
Si voleva rispondere, così, alla necessità
“che le amministrazioni locali hanno di dar
corso, durante il processo di redazione del
piano intercomunale, ad un esteso dibattito
con tutte le forze che esprimono istanze e
valori sociali, culturali ed economici.
Sicché il momento della partecipazione
rappresenti la garanzia democratica delle
scelte da compiere”.
Le amministrazioni comunali, ricevuta la
relazione preliminare, non sono però in
grado di esprimere in poco tempo il loro
parere, né di raccogliere pareri o consensi
esterni. Nel settembre del 1979 a Pellezzano
e a Mercato S. Severino inizia la
discussione che solo in parte riesce a
coinvolgere le istanze politiche, culturali
e professionali della Valle dell’Irno.
L’iniziativa non viene ripresa dalle
amministrazioni comunali di Calvanico,
Fisciano e Montoro Inferiore e quella di
Baronissi la ripropone limitandola, però,
alle sole forze politiche rappresentate in
consiglio. A partire dal febbraio del 1980,
comunque, i Consigli comunali approvano, con
talune annotazioni, la relazione
preliminare.
Tale fase era destinata a concludersi con la
predisposizione di un primo quadro di
coordinamento dell’attività urbanistica dei
comuni, prima tappa di un’unica strategia
all’interno della quale vi era il
perseguimento di parziali e particolari
obiettivi che ciascun comune si sarebbe
ritrovato nel proprio strumento urbanistico
generale.
Si trattava di una scelta questa che i
comuni liberamente andavano ad assumere, per
cui i risultati del lavoro svolto nella
prima fase sarebbero stati formalizzati, se
ritenuto opportuno, con l’adozione di nuovi
strumenti urbanistici, preferibilmente Prg a
carattere interlocutorio, le cui adozioni
avrebbero consentito di esaltare gli
indirizzi del Pri.
I Prg dei sei comuni si sarebbero
configurati, pertanto, come strumenti di
minima pianificazione, con poche ma efficaci
direttive attinenti solamente alla residenza
e ai relativi servizi, con la deliberata
esclusione di ogni altro tipo di indicazione
in ordine alle destinazioni d’uso.
Figura 2 - Inquadramento regionale
dei comuni appartenenti alla Valle
dell’Irno compresi nel piano
regolatore intercomunale |
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Nei nuovi strumenti si sarebbe dovuto
trasfondere un sistema di vincoli
appositamente definito sia per consolidare
accertate e definite destinazioni d’uso, sia
per evitare fenomeni la cui irreversibilità
avrebbero compromesso la messa a punto di
razionali modelli futuri.
Andavano, pertanto, vincolati non solo
ambiti territoriali obiettivamente pregevoli
per caratteristiche ambientali o sicuramente
soggetti a rischi potenziali, ma altresì
tutelati, conservandone rigorosamente
l’utilizzo, tutte le zone prossime ai centri
abitati, all’insediamento universitario, al
nucleo industriale e ai principali nodi
della rete cinematica, in quanto elementi
tutti destinati a giocare un ruolo rilevante
nelle ipotesi definitive dell’assetto del
territorio in esame.
Le conclusioni di un confronto così largo
sarebbero state indubbiamente oggetto di
riflessione, discussione e di risoluzioni
definitive dei Consigli comunali dei sei
comuni. Solo allora le risoluzioni delle
assemblee elettive, previo incontro con gli
organismi tecnico-politici della regione,
avrebbero potuto essere formalizzate in un
quadro di coordinamento di prima fase
a cui riferire i primi Prg comunali tra loro
coordinati.
La politica urbanistica dei comuni della
Valle
Fino a quando la legge ponte non era
intervenuta a limitare l’attività edilizia
nei comuni sprovvisti di strumenti
urbanistici, i sei comuni della Valle
dell’Irno avevano controllato la scarsa
edificazione con il richiamo ai contenuti di
poche e scarne norme18.
Baronissi e Pellezzano, cogliendo le
opportunità offerte dalla legge 167/1962, si
avviavano per primi a formare i relativi
piani di zona (PdiZ) per l’edilizia
economica e popolare. Questo rappresenta il
primo tentativo, sostanzialmente fallito, di
creare, mediante la pianificazione
urbanistica, una prospettiva di rinascita
della Valle, poiché sempre più crescente era
divenuto il fenomeno del doppio esodo, di
nuclei operai e di attività produttive,
dalla Valle verso la vicina fascia costiera,
relativamente più attiva.
I sei comuni, costretti a superare i rigori
della legge ponte, si danno infine un
regolamento edilizio (Re) con annesso
programma di fabbricazione (PdiF).
Rielaborazioni continue delle proposte
formulate e crisi amministrative avevano
rappresentato le cause principali, per
taluni comuni, del forte ritardo nei tempi
di adozione di tali strumenti. Le
approvazioni definitive, comunque, avvengono
nell’arco temporale che va dal 1968 al 1973,
per cui, all’epoca, i sei comuni erano tutti
dotati di PdiF, e alcuni di essi avevano già
provveduto o stavano per provvedere a
formulare proposte di varianti agli
strumenti vigenti19.
Impostati e approvati in anni diversi, gli
strumenti urbanistici dei sei comuni
muovevano da autonome valutazioni delle
esigenze locali e dei fenomeni presenti
nell’area di piano; i criteri di fondo,
tuttavia, risultavano alquanto omogenei,
soprattutto per quanto concerne la
generalmente sovradimensionata previsione
insediativa teorica.
I comuni avvertivano l’esistenza nella Valle
dell’Irno di un flusso di domanda esterna di
case e servizi. Tale sensazione si traduceva
in una stima in eccesso sia del patrimonio
abitativo da risanare che dell’incremento
della popolazione (nonostante i tassi
negativi registrati negli anni precedenti)
fatta per rendere verosimili le previsioni
di espansione nel decennio considerato dai
piani.
Tale domanda, non controllabile né
quantizzabile, era sostenuta dall’imminente
costruzione dell’Università, da una
attendibile previsione di insediamento di
nuovi impianti produttivi nella Valle,
dall’effetto della crisi che attanagliava
Salerno, dalla oggettiva baricentricità e
accessibilità dell’area rispetto ai vicini
sub-comprensori a sviluppo complesso e
contraddittorio.
I piani, tuttavia, sarebbero risultati
decisamente inadeguati se la lettura avesse
tenuto conto solo di quanto si era
verificato nei comuni confinanti con Salerno
e, in generale, dei fenomeni in atto
nell’intera area salernitana.
Da un’analisi comparativa degli strumenti
vigenti, le disomogeneità più vistose
attengono a quattro questioni:
1. la politica e la gestione delle zone di
completamento;
2. l’insediamento diffuso nelle zone
agricole;
3. il livello e la qualità degli standards
urbanistici;
4. la tipologia e l’incidenza degli
strumenti attuativi.
La spinta ad esaurire le zone di
completamento in un tempo più breve di
quello preventivato, è da mettere in
relazione anche alla difficoltà di
intervenire nelle zone esistenti dei centri
urbani, nelle quali non mancava, certo, una
domanda di miglioramento dello standard
abitativo, ma per i quali i comuni non
avevano ancora tentato di impostare piani
attuativi ad hoc mediante l’articolazione
delle norme secondo differenziate modalità
d’intervento, per classi e fasi temporali,
il che avrebbe potuto, salvaguardando
particolari valori ambientali, rendere
concreta la rivitalizzazione e il recupero
di tali zone20.
La questione delle zone agricole si
presentava molto più complessa. Essa andava
posta non solo sotto il profilo di una
migliore aderenza della norma alla
modificata struttura aziendale rinvenibile
nelle campagne, ma anche tenendo conto che
tutti gli interventi finivano per impegnare,
di preferenza, le zone più accessibili, meno
acclivi e, perciò stesso, più produttive dal
punto di vista agricolo21.
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Figura 3 - Schema delle relazioni
intercorrenti fra i comuni compresi
nel Pri |
La questione degli standards urbanistici
imponeva, poi, una riflessione critica
sia sui criteri adottati per la più idonea
individuazione delle relative aree, sia
sulle concrete possibilità e convenienza di
loro effettiva realizzazione. Ma,
innanzitutto, e questa rappresenta una delle
questioni centrali per cui si ritiene ancora
oggi fondamentale un coordinamento degli
strumenti urbanistici dei comuni nell’area
di influenza dell’ateneo, si poneva la
necessità di verificare la qualità degli
standards previsti per riconsiderarli in un
auspicabile sistema delle attrezzature a
scala sovracomunale, in cui le attrezzature
stesse, opportunamente dimensionate,
risultassero tra loro interconnesse e
relazionate all’insediamento universitario e
alle attrezzature di livello superiore
esterne all’area. Con ciò si sarebbero
evitate diseconomiche sovrapposizioni nella
previsione di taluni tipi di attrezzature e
inutili opzioni su aree marginali o comunque
inadeguate.
Per quanto concerne la tipologia e
l’incidenza degli strumenti attuativi,
la tendenza era quella di privilegiare
l’espansione più che il recupero
dell’esistente; tale indirizzo è rinvenibile
nella generalità degli strumenti
urbanistici. La causa di ciò è da attribuire
soprattutto alla carenza di leggi nazionali
e regionali volte ad agevolare gli
interventi nei centri esistenti, per cui era
possibile intervenire solo attraverso piani
particolareggiati di esecuzione. Si
rendevano, quindi, necessari piani che, data
la struttura proprietaria esistente in tali
centri, solo l’iniziativa pubblica poteva
promuovere e attuare sul costruito (i
piani di recupero sarebbero stati
introdotti dalla legge 457/1978). Invece,
soprattutto nei comuni a più intenso
sviluppo edilizio, le amministrazioni locali
erano intervenute esclusivamente nelle zone
di espansione, sia con i piani di zona,
di loro competenza22, sia
stimolando le lottizzazioni private, sia,
infine, in qualche caso, addirittura con
lottizzazioni di ufficio.
Da una tale politica è conseguita, da una
parte, l’apparente esaurimento delle aree di
espansione previste nei piani e, dall’altra,
l’esigenza di provvedere, in variante degli
strumenti urbanistici vigenti, a reperire
nuove zone di espansione. Le proposte di
varianti cui ricorrevano i comuni già
all’indomani dell’approvazione definitiva
degli strumenti urbanistici erano, quindi,
dettate dall’esigenza di superare le
inadeguatezze dovute alla insufficiente
aderenza delle norme di attuazione alle
peculiari situazioni esistenti nei comuni.
Lo schema direttore (e sua necessità
attuale)
Lo schema direttore era, quindi,
considerato non il Prg dell’insieme (o
dell’unione) dei sei comuni della Valle
dell’Irno, ma piuttosto come “un programma
di ipotesi, una sorta di documento di
riferimento per le future iniziative di
sviluppo, uno strumento, a maglie
sufficientemente elastiche, per misurare
correlazioni e interferenze di futuri
programmi d’intervento, attivati dai
numerosi enti che agiscono nel territorio.
Non un disegno rigidamente vincolante, ma
uno strumento indicativo di esecuzione
soltanto per gli elementi sostanziali dello
schema proposto: le infrastrutture del
sub-sistema; le aree da vincolare a riserva;
l’area di concentrazione delle funzioni
urbane”.
Il principio dello schema direttore e
del conseguente schema normativo è che
“debbano essere tenuti distinti i due
livelli della pianificazione: il primo
livello, quello sovracomunale, come momento
della formulazione degli obiettivi di
carattere generale, nonché del quadro di
indirizzi normativi; il secondo livello,
quello comunale, quale sede delle
specificazioni spazio-temporali e, quindi,
più squisitamente esecutive delle ipotesi di
primo livello.
Condizione essenziale per assicurare la
necessaria coerenza al nesso che esiste tra
i due livelli è che le normative attuative,
sia degli strumenti a scala comunale che di
quelli attuativi dei primi, siano conformi
alle linee del quadro normativo dello schema
direttore”.
Ritengo sia ancora oggi utile, se non
indispensabile, riproporre per l’area in
oggetto un modello di intervento
(messo a punto per un’area particolare,
quale quella della Valle dell’Irno, in cui,
di lì a qualche mese sarebbe sorta una delle
più grandi università italiane) che, per
certi versi, anticipava concettualmente la
Lr Toscana 5/1995, circa la necessità di
separare una componente strutturale
(di medio-lungo termine) ed una operativa
(di breve termine).
Si tratterebbe di redigere un master plan
per la Valle dell’Irno, un piano
strutturale per quest’area, così come si
è delineato nelle recenti legislazioni
regionali in materia di governo del
territorio. Esso non sarebbe altro che uno
stralcio, una specificazione di dettaglio,
di un piano strutturale sovraordinato qual è
il piano territoriale di coordinamento
provinciale, ancorché non vigente per la
Provincia di Salerno.
Come per quella esperienza degli anni ’70,
un nuovo schema direttore per la
Valle dell’Irno fornirebbe indicazioni
strategiche, rinviando ai singoli Prg
comunali la definizione di tutti quegli
aspetti concernenti la specificazione delle
scelte localizzative di dettaglio e degli
strumenti operativi (il piano operativo
delle legislazioni regionali).
Negli strumenti comunali, quindi, sarebbero
specificati, in termini operativi, le
indicazioni che promanano dallo schema
direttore in ordine a cinque aspetti: le
attrezzature e i servizi per l’intera area
in una logica di integrazione
territorio-università; lo schema
relazionale; la nuova residenza;
l’agricoltura, le aree protette e i vincoli
a tutela; le localizzazioni produttive.
Naturalmente, anche le norme di attuazione
dei futuri strumenti urbanistici comunali
dovrebbero essere impostate con criteri
omogenei e coerenti con gli indirizzi
normativi dello schema direttore.
Anche oggi, in definitiva, l’obiettivo di
uno strumento di questa natura, mediante la
messa a punto di uno schema flessibile,
potrebbe essere quello di gettare le basi
per innescare un processo volto al
superamento dei vigenti strumenti
urbanistici e a favorire la progressiva
convergenza delle politiche urbanistiche dei
sei comuni verso un unico strumento di
pianificazione strategica.
L’epilogo
Ad un anno dal devastante terremoto del 23
novembre 1980 in Campania e Basilicata la
fase dell’emergenza si era conclusa; nei
centri abitati e nelle campagne della Valle
dell’Irno i danni meno gravi erano stati
riparati, con (o senza) il contributo dello
Stato, e i senza-tetto, almeno in parte,
avevano trovato sistemazione negli
insediamenti provvisori (le famigerate
aree prefabbricati) e iniziava la
fase più complessa della ricostruzione.
Alcune amministrazioni, in applicazione
della legge 219/1981 per la ricostruzione
post-sisma, già predisponevano programmI o
strumenti che, in carenza di un disegno di
un più complessivo sviluppo della valle, si
sarebbero rivelati poco incisivi ai fini di
un reale rilancio socio-economico dei
comuni.
Lo schema direttore del piano
intercomunale della Valle dell’Irno,
illustrato a Penta la sera del 21 novembre
1980, due giorni prima del sisma, avrebbe
potuto costituire un sufficiente quadro di
riferimento per il coordinamento degli
strumenti urbanistici che i comuni erano
chiamati a predisporre tempestivamente.
Un documento di indirizzi, capace di
orientare e unificare almeno i piani di
sviluppo urbanistico, avrebbe potuto fare
della ricostruzione il punto di
partenza di un programma di ampio respiro,
capace di creare le migliori opportunità di
utilizzo delle risorse disponibili, a
cominciare dai contributi esterni che per
diversi canali cominciavano ad affluire
nella zona.
L’ultima versione del Pri teneva conto delle
situazioni modificate dal sisma: un anno
dopo l’evento, recuperato il materiale
cartografico e ripresi i contatti con le
amministrazioni comunali, furono raccolte e
analizzate le informazioni disponibili
riguardanti i danni e gli interventi di
emergenza e, alla luce delle nuove
risultanze nonché dei contenuti
programmatici, procedurali e finanziari
della legge per la ricostruzione, lo schema
fu rielaborato.
Si concludeva così, nel maggio 1982, la
prima fase di un lavoro lungo, complesso e
discontinuo, con eventi che, non poche
volte, avevano causato prolungati momenti
di attesa, esclusi naturalmente gli
accadimenti che si possono definire
eccezionali, quali elezioni amministrative e
terremoto.
Alla prima, non sarebbe mai seguita la
seconda fase.
Figura 4 - Il territorio della Valle
dell’Irno |
|
|
Note
1
Il toponimo Valle dell’Irno, secondo un uso
già invalso da tempo, si riferisce
geograficamente a tutta l’area che, da
Fratte a Mercato S. Severino, comprende il
composito sistema di valli appartenenti a
due distinti bacini imbriferi.
2
Con Dpr del 15.1.1972, n. 8, le competenze
relative ai piani intercomunali sono state
trasferite, a far data dall’1.4.1972, dallo
Stato (Ministero dei lavori pubblici) alle
regioni.
3
La Regione Campania, per dotare di adeguati
strumenti urbanistici i comuni della Valle
dell’Irno, nel cui ambito viene a collocarsi
la nuova struttura quaternaria, con decreto
di giunta n. 428 del 28.12.1976, impone ai
Comuni di Mercato S. Severino (designato
comune pilota), Calvanico, Fisciano,
Montoro lnferiore, Baronissi e Pellezzano di
dotarsi di un piano regolatore
intercomunale.
4
Spiccano le propaggini montuose del Monte
Salto, del Pizzo S. Michele, del Monte
Monna, del Monte Stella e del Monte Decimari.
5
Da una parte, il sistema per così dire
tradizionale, legato prevalentemente alle
industrie di trasformazione dei prodotti
agricoli, per le connessioni geografiche con
l’area nocerina, e a quello del legno;
dall’altra il sistema delle più recenti
localizzazioni, determinatasi dalla fine
degli anni ’60 a seguito dell’azione del
Consorzio dell’area di sviluppo industriale
(Asi) e, successivamente, del tratto
autostradale Caserta-Mercato S. Severino,
basato su produzioni estranee alla
tradizione dell’area e, sostanzialmente,
appartenenti al settore delle industrie
meccaniche.
6
Nel caso in cui tali piani di ambito si
trovavano ad essere operanti, sarebbe
stato opportuno considerare le loro
previsioni quali vincoli esistenti sul
territorio, rispetto ai quali era necessario
calibrare e definire il progetto del Pri.
Laddove, viceversa, tali piani erano ancora
non operanti, il Pri avrebbe dovuto
essere recepito da quegli strumenti di
pianificazione operanti, del tutto o in
parte, sulla stessa area, con le ovvie
integrazioni territoriali.
7
Infatti, i sei comuni non appartengono ad
una stessa area o regione agraria tra
quelle in cui solitamente, o per
l’intervento programmato o per l’indagine
statistica, viene suddiviso il territorio
regionale. Baronissi, Fisciano, Mercato S.
Severino e Montoro Inferiore appartengono
alla zona agricola omogenea o regione
agraria n. 12, cioè all’agro nocerino
sarnese pompeiano. Calvanico appartiene alla
realtà territoriale dei Picentini (regione
agraria n. 6) e Pellezzano, infine, a quelle
del litorale di Salerno (regione agraria n.
13).
8
La Usl n. 20 e il distretto scolastico n. 6
della Provincia di Salerno, coincidenti,
cioè aventi una identica delimitazione
territoriale, comprendono cinque comuni del
piano: Mercato S. Severino, Baronissi,
Fisciano, Calvanico e Pellezzano (gli altri
sono Castel S. Giorgio, Roccapiemonte e
Castiglione del Genovesi); Monitoro
Inferiore, invece, appartiene al distretto
scolastico n. 6 e alla Usl n. 18, entrambi
della Provincia di Avellino.
9
Istituita con Lr 14.1.1974, n. 3, aveva
competenza sul territorio di dieci comuni:
cinque della Provincia di Avellino (Monteforte
Irpino, Forino, Solofra, Monitoro Superiore
e Montoro Inferiore) e cinque della
Provincia di Salerno (Giffoni Sei Casali,
Castiglione del Genovesi, Baronissi,
Fisciano e Calvanico).
10
All’epoca era costituita da 5 comuni della
Provincia di Avellino (Monteforte Irpino,
Forino, Solofra, Montoro Superiore e Montoro
Inferiore) e 5 della Provincia di Salerno (Giffoni
Sei Casali, Castiglione dei Genovesi,
Baronissi, Fisciano, Calvanico).
11
Il documento affrontava tre
questioni, tutte in buona sostanza orientate
al turismo: il bosco, la viabilità montana,
lo sviluppo della montagna. Esso elencava i
finanziamenti necessari per il sostegno
della produzione fruttifera dei boschi, per
il miglioramento e il completamento della
viabilità interna, per l’incentivazione al
recupero e al riuso a fini turistici delle
case rurali abbandonate nonché alla
costruzione di seconde case nei
villaggi turistici previsti nei programmi di
fabbricazione. Solo successivamente, nel
1984, fu predisposto il progetto di massima
del piano territoriale urbanistico.
12
Due erano gli interventi di bonifica
nell’area del piano: il primo, di bonifica
integrale, operava nei Comuni di Baronissi
(sul 20% del territorio), Fisciano (95%) e
Mercato S. Severino (100%); il secondo, di
bonifica montana, operava nelle sezioni
montane del bacino dell’Irno e, quindi, nei
Comuni di Baronissi (26%) e Fisciano (15%).
13
Nell’ambito del piano interveniva solo il
Consorzio di Salerno, dato che quello di
Avellino non comprendeva il Comune di
Montoro Inferiore. Il piano regolatore del
Consorzio, vigente dal 25.8.1966, prevedeva
la formazione di quattro agglomerati tra cui
quello di Mercato S. Severino-Fisciano di
circa 298 ettari di estensione.
14
Legge 17.8.1942, n. 1150 – Legge urbanistica
nazionale
Art. 12 - Piani regolatori generali
intercomunali
Quando per le caratteristiche di sviluppo
degli aggregati edilizi di due o più comuni
contermini si riconosca opportuno il
coordinamento delle direttive riguardanti
l’assetto urbanistico dei comuni stessi, il
Ministro per i lavori pubblici può, a
richiesta di una delle amministrazioni
interessate o di propria iniziativa,
disporre la formazione di un piano
regolatore intercomunale.
In tal caso il Ministro, sentito il parere
del Consiglio superiore dei lavori pubblici,
determina:
- l’estensione del piano intercomunale da
formare;
- quale dei comuni interessati debba
provvedere alla redazione del piano stesso e
come debba essere ripartita la relativa
spesa.
Il piano intercomunale deve, a cura del
comune incaricato di redigerlo, essere
pubblicato nei modi e per gli effetti di cui
all’art. 9 in tutti i comuni compresi nel
territorio da esso considerato.
Deve inoltre essere comunicato ai sindaci
degli stessi comuni perché deliberino circa
la sua adozione.
Compiuta l’ulteriore istruttoria a norma del
regolamento di esecuzione della presente
legge, il piano intercomunale è approvato
negli stessi modi stabiliti dall’art. 10 per
l’approvazione del piano generale comunale.
15
Alcune delle più recenti leggi regionali di
governo del territorio, confermano la
necessità di prevedere esplicitamente un
ambito intercomunale per il corretto assetto
urbanistico del territorio: Lr
Friuli-Venezia Giulia 52/1991; Lp Trento
22/1991; Lr Provincia Bolzano 13/1997; Lr
Liguria 36/1997; Lr Puglia 20/2001; Lr
Veneto 11/2004. Altre leggi regionali,
viceversa, ignorano tale ambito: Lr Marche
34/1992; Lr Toscana 5/1995; Lr Umbria
31/1997; Lr Valle d’Aosta 11/1998; Lr
Basilicata 23/1999; Lr Lazio 38/1999; Lr
Emilia Romagna 20/2000; Lr Calabria 9/2002.
16
Il Comune di Milano avanzò la prima proposta
di Prgi nel febbraio 1951, ma il suo primo
schema, il famoso piano del modello a
turbina, fu presentato nel luglio 1963.
Il Comune di Torino presentò la prima
proposta nel gennaio 1952 e il piano fu
adottato nel 1964.
17
Progettisti del Pri furono designati:
Carmine Colucci, Giovanni Giannattasio,
Giacinta Jalongo, Gino Kalby, Enrico Petti e
Roberto Visconti.
18
Per lo più le norme erano derivate dal
Codice civile, ad eccezione di quelle di
Baronissi e di Pellezzano, i quali si
rifacevano, il primo, ad un Regolamento
edilizio mai adeguato alla legge
urbanistica, il secondo, ad un vecchio
Regolamento d’igiene varato nel 1903.
19
Fisciano perviene alla adozione del Re con
annesso Pdif nel 1968; Mercato S. Severino e
Baronissi nel 1971; Montoro Inferiore e
Pellezzano nel 1972; Galvanico nel 1973.
20
Si trattava, tra l’altro, di porre come
obiettivo di piano la riduzione a 1
abitante/stanza gli elevati indici di
affollamento calcolati al 1977.
21
La norma per le zone agricole nel Pdif di
Fisciano stimolava l’insediamento diffuso
nelle campagne non sempre a residenza
rurale. L’edificazione, era infatti
consentita nel solo rispetto dell’indice
fondiario pari a 0,20 mc/mq, senza alcuna
limitazione in ordine all’estensione minima
del fondo.
22
Il documento di Pri si poneva, in proposito,
l’obiettivo di conseguire, nelle nuove
localizzazioni, un avvicinamento dei
comparti di Pdiz agli esistenti centri
urbani, del capoluogo o delle frazioni, con
i quali ricercare la massima connessione
possibile; ove, invece, si sarebbe dovuto
promuovere l’ampliamento dei Pdiz, questi
dovevano investire aree già individuate nei
vigenti Pdif come zone di espansione e,
quindi, non in variante dello strumento
urbanistico vigente. |