Quadro generale
Nell’agosto 2002, la Regione Liguria ha
ricondotto alla competenza di un unico
assessorato il Dipartimento di
pianificazione territoriale, paesistica e
ambientale e il Dipartimento tutela
dell’ambiente ed edilizia; si è così
riconosciuta l’opportunità di coordinare più
strettamente l’azione dei due settori,
ponendo le basi per lo sviluppo di politiche
di ampio respiro.
In passato la tutela del paesaggio e la
riduzione del rischio idrogeologico sono
stati i fondamentali campi di una
convergenza fra urbanistica e gestione
dell’ambiente non priva di frizioni e
giocata per lo più all’interno dell’attività
di pianificazione, mentre le grandi
questioni territoriali sono restate sullo
sfondo.
Il fatto è in parte spiegabile sulla base di
alcune peculiarità regionali che hanno una
matrice geografica e geomorfologica (la
posizione strategica rispetto al bacino
padano e al centro Europa; la contiguità di
mare e montagna che accentua i valori
paesistici e riduce la disponibilità di
suolo). Intrinsecamente poco dinamica, la
Liguria è tuttavia storicamente integrata in
aree economiche forti ed è, quindi,
particolarmente soggetta a fenomeni allogeni
che selezionano le vocazioni e privilegiano
alcune porzioni del territorio regionale:
nell’ultimo secolo la maggior parte di esso
(la montagna) è stata utilizzata solo per
essere attraversata dai canali di accesso
alla fascia costiera; su quest’ultima e
sull’immediato retroterra vallivo, si sono
focalizzati gli interessi, riconducibili a
tre grandi categorie di attività: portuali
(attualmente in crescita), industriali (da
decenni in contrazione, con ampie
dismissioni), turistiche (stazionarie, per
saturazione dell’offerta). Il progressivo
abbandono di una gran parte del territorio e
l’eccessivo peso insediativo e
infrastrutturale che grava su aree
relativamente limitate producono effetti
analoghi in termini di degrado diffuso e di
sempre più frequenti disastri ambientali,
che tutti sono concordi nel voler
contrastare; ma la decisione si fa debole
nel combattere la dissoluzione dei paesaggi
storici e il depauperamento delle risorse
naturali, imprese che comportano il rischio
di limitare ulteriormente la vitalità di
economie locali basate sul consumo e non più
sulla produzione; mentre sono mancate finora
l’assunzione di responsabilità e la capacità
progettuale necessarie a promuovere una
reale inversione di tendenza e a stimolare
sviluppo autogeno.
Date queste condizioni, la regione ha
accumulato un apparato normativo cospicuo,
non privo di contraddizioni e di ambiguità
per l’incertezza dei princìpi; sul
territorio si sovrappongono vari livelli di
piani che sono a volte debolmente
propositivi, ma che più spesso si limitano a
cercare di contenere il consumo di suolo e
le trasformazioni ritenute regressive.
Dalle pratiche alla legislazione: temi
ricorrenti, temi trasversali
Dalle pratiche alla legislazione, e ritorno
L’azione regionale nel campo della
pianificazione urbanistica si è mossa,
storicamente, attorno ad alcuni grandi temi
e ad alcune specifiche aree-problema,
su cui, in diverse occasioni, si è
concentrata l’attenzione per il governo dei
cambiamenti. Tali ambiti tematici
(caratterizzati ciascuno da specifiche
situazioni territoriali) hanno finito, col
tempo, per influenzare la produzione
legislativa regionale. Le esperienze sul
campo hanno contribuito a creare una lenta
ma progressiva stratificazione di
comportamenti, valutazioni, metodi e, non
ultimo, linguaggi, che sono poi confluiti in
buona misura nel corpus legislativo
regionale.
In una prima fase (anni ’70, prima metà anni
’80) la produzione legislativa regionale in
materia di pianificazione urbanistica è
stata indirizzata al recepimento degli
indirizzi espressi nella legislazione quadro
nazionale; quindi, in coincidenza con
l’avvio dei primi grandi progetti e schemi
di piani di area vasta (il piano
territoriale di coordinamento paesistico
ed i piani territoriali di coordinamento
di iniziativa regionale), si è assistito
ad un processo di costante osmosi tra
pratiche da un lato e produzione legislativa
dall’altro. In questo modo, la produzione
legislativa regionale, specie con
l’affermarsi della questione ambientale, ha
reinterpretato in modo via via più originale
(ossia con visioni sempre più mediate
dall’esperienza locale) i suggerimenti e gli
stimoli che giungevano dall’ampliarsi delle
disposizioni di livello nazionale in materia
di governo del territorio.
Si può, quindi, tentare di ricostruire il
quadro legislativo regionale attraverso la
focalizzazione di alcuni temi-chiave,
notando innanzitutto come l’azione di
pianificazione regionale (che ha operato per
lo più attraverso lo strumento del Ptc) sia
andata nel tempo selezionando i suoi
obiettivi; tanto che si potrebbe parlare, a
dispetto della funzione di coordinamento che
ciascun piano avrebbe dovuto garantire, di
pianificazione a tema.
Temi ricorrenti, temi trasversali
Fra i temi principali affrontati vanno
sicuramente segnalati:
- il controllo delle trasformazioni
paesistiche;
- la riconversione delle aree industriali o
infrastrutturali dismesse od in via di
dismissione;
- la riqualificazione delle aree interne e
il mantenimento di presidio territoriale;
- la valorizzazione dei centri storici;
- la pianificazione ambientale, con
particolare attenzione alle aree costiere e
all’individuazione di aree di pregio da
tutelare;
- l’intervento su alcune componenti
dell’offerta turistica (in modo particolare
il sistema dei porti turistici).
L’elenco non copre alcuni temi di grande
rilievo dell’agenda politica regionale:
sembra si escluda che la pianificazione
regionale possa o voglia incidere
direttamente, a partire dall’area vasta, su
problemi cruciali quali l’adeguamento del
sistema infrastrutturale (in una prospettiva
che vede la Liguria come una cerniera tra
Mediterraneo e area centro-europea), il
controllo dei fenomeni urbanizzativi di
maggior peso, l’avvio di una politica di
sviluppo regionale che prescinda dalla
grande industria statale (oramai quasi
totalmente liquidata), le politiche per uno
sviluppo turistico sostenibile.
Questo quadro di esperienze (siano esse
compiute o abbiano aggirato o non affrontato
direttamente le questioni poste) ha
influenzato in modo significativo la
produzione legislativa regionale (e non
solo). Alcuni termini che ricorrono con
frequenza nei testi legislativi e nei
documenti della regione (ad esempio,
distretto di trasformazione, area di
presidio ambientale, quadro descrittivo,
descrizione fondativa, disciplina
paesistica, sostenibilità ambientale)
rimandano a metodi e a concezioni che
derivano da esperienze maturate sul campo,
dove si sono affrontati quei temi
privilegiati di cui si è accennato
sopra.
La pianificazione
La riforma della legge urbanistica
Solo da pochi anni la Liguria si è data una
legge urbanistica complessiva (Lr 36/1997)1
che disciplina i livelli della
pianificazione territoriale, definendo
obiettivi, contenuti ed itinera del piano
territoriale regionale (Ptr), del
piano di coordinamento provinciale (Ptc)
e del piano urbanistico comunale (Puc),
ma che non ha sostituito del tutto la
normativa di tipo urbanistico e territoriale
accumulatasi in vent’anni d’attività
legislativa.
La Lr 36/1997 fu portata all’approvazione
faticosamente, con modifiche del disegno
originario che ne hanno frenato l’intenzione
innovativa non sempre a vantaggio
dell’operatività; sicché presto emersero
difficoltà applicative che ne suggerivano
emendamenti (Lorenzani, 2000). La riforma
pare ora concretizzarsi: è stata approvata
una prima modifica parziale (Lr 19/2002),
che riguarda soprattutto la semplificazione
dei procedimenti concertativi e
l’ampliamento delle possibilità di farvi
ricorso; si va definendo la revisione dei
contenuti e degli itinera dei piani. Le
proposte circolate sembrano inscriversi in
una concezione riduzionistica della
pianificazione territoriale (che sarebbe
giustificata dalla pletoricità degli
strumenti approvati con la legge vigente e
dalla lunghezza dei tempi di approvazione);
così per i piccoli comuni potrebbe cadere
l’obbligo di darsi un piano, il piano
comunale acquisterebbe validità indefinita e
perderebbe quel valore di quadro delle
conoscenze che la Lr 36/1997 aveva
voluto conferirgli; infine, la regione
potrebbe rivendicare il ritorno ad una sua
maggiore centralità nei processi di
pianificazione.
Il Ptcp: permanenza ed evoluzione
La Liguria è stata fra le prime regioni a
dar seguito alla legge Galasso con
l’approvazione, nel 1990, di un piano
territoriale di coordinamento paesistico
(Ptcp). Esteso a tutto il territorio
regionale, il Ptcp è uno strumento
complesso, articolato su tre livelli
(territoriale, locale, puntuale) di
differente valenza attuativa e prescrittiva
e riferito a tre assetti (geomorfologico,
vegetazionale, insediativo).
Molte parti del Ptcp hanno avuto scarse o
nulle ricadute; mentre il livello locale -
assetto insediativo - ha influito sia sulla
produzione dei piani successivi di ogni
livello, sia sull’effettiva gestione del
territorio, tanto che in esso tende ad
identificarsi il Ptcp tout court. Il
livello locale - assetto insediativo
consiste in una completa zonizzazione del
territorio regionale alla scala 1:25.000
(alcune analisi furono condotte in scala
1:50.000) che definisce il regime
(mantenimento, conservazione, consolidamento
o trasformazione) cui sono sottoposte le
tipologie di insediamento individuate e
descritte dal piano; gli effetti
prescrittivi che ne derivano sono minimi sui
tessuti edilizi compatti delle aree urbane,
notevoli sulle aree rurali e sui piccoli
centri in esse compresi o sulle aree non
abitate. Scopi evidenti sono limitare il
consumo di suolo, mantenere la densità e,
per quanto possibile, i caratteri degli
insediamenti sparsi e diffusi, evitare
l’accerchiamento dei nuclei storici
compatti; mancano analisi che valutino se
l’effettivo contenimento dell’urbanizzazione
nel periodo di vigenza del Ptcp sia (e come)
dovuto ad esso o unicamente alla congiuntura
demografica ed economica.
L’approvazione dei nuovi piani comunali ha
comportato numerose varianti al Ptcp. Nel
passaggio a scale di maggior dettaglio si è
evidenziata la necessità di rettificare i
confini di zona come di riattribuire alle
zone porzioni di territorio; le discussioni
che ne sono nate hanno investito sia il
valore prescrittivo del Ptcp sia i regimi
normativi, che una linea oggi prevalente in
regione sembra giudicare troppo rigidi. Un
ammorbidimento del Ptcp è tanto più
possibile in quanto, dopo una fase
(susseguente all’approvazione della Lr
36/1997) durante la quale sembrava destinato
ad essere assorbito nel Ptr, esso è
ritornato al centro del sistema di
pianificazione regionale.
Dal piano della costa al Ptr
Approvato nel 2001 il piano della costa
è anzitutto una specificazione del Ptcp che
riguarda un ambito altamente sensibile,
fondamentale all’economia come all’identità
ligure e soggetto a competizioni fra gli usi
particolarmente forti. Mentre il Ptcp regima
gli usi, il piano della costa è
sostanzialmente un quadro d’assieme di
interventi localizzati (alcuni sistematici,
come i ripascimenti delle spiagge, altri
occasionali, come il riuso di aree
ferroviarie dismesse) che hanno come
finalità generale il recupero e la messa in
valore di risorse. A fronte delle pressioni
per intensificare l’artificializzazione
della linea di costa ed aumentare il carico
insediativo nelle zone costiere, il piano
persegue un difficile equilibrio fra lo
sfruttamento economico (turistico ed
immobiliare) del litorale, la
riqualificazione dell’ambiente litoraneo e
marino e la conservazione dei siti naturali
residui. La scelta di settore è evidente:
mentre disciplina dettagliatamente la
crescita dei porti turistici, il piano non
affronta l’altro il ben più grande problema
dello sviluppo e della possibile
integrazione in un unico sistema dei grandi
porti commerciali; una scelta che rende meno
comprensibili alcune omissioni (il piano è
evasivo circa la sostenibilità
dell’incremento dei flussi turistici che gli
interventi previsti prospettano).
Testimoni qualificati accreditano questo
taglio settoriale e per progetti come linea
attualmente prevalente in regione,
giustificata dalla sfiducia nell’attuabilità
dei grandi disegni a scala territoriale (per
altro mai prodotti in Liguria). Una conferma
sembra darla il Ptr (presentato nel 2002 e
adottato ad agosto 2003): abbandonata ogni
ambizione di comprensività, il Ptr sembra
riluttante ad assumere anche un più modesto
ruolo di piano-quadro, mentre individua una
serie di azioni, alcune in aree marginali,
con finalità di sviluppo locale e di
recupero ambientale.
Se questo è il Ptr, il quadro generale delle
coerenze deve essere ricercato in un Ptcp
di garanzia, rivisto (contestualmente
all’adozione del Ptr) per alleggerirne
taluni aspetti conservativi e consentire la
realizzazione degli interventi previsti da
altri piani e progetti; la pianificazione
regionale trova, quindi, il suo momento
unificante sotto l’insegna della qualità
ambientale e paesistica.
I piani dei parchi
La gestazione dei parchi è stata lunga e
travagliata. Il progetto di istituzione di
aree protette, delineato negli anni ’80, era
basato su studi scientifici che
individuavano i sistemi territoriali di
prevalente interesse naturalistico e le più
rilevanti emergenze paesaggistiche; vent’anni
di discussioni hanno portato al drastico
ridimensionamento del progetto in termini
quantitativi e qualitativi con risultati
paradossali: le aree montane di maggior
valore sono state escluse; l’unico grande
parco costiero, quello delle Cinque Terre, è
diventato un parco nazionale, per iniziativa
locale; il Parco di Portofino, il più noto
ed antico, è stato confermato nei confini
degli anni ’30, definiti su valutazioni
paesaggistiche non più attuali.
I piani dei parchi regionali sono stati
approvati (tranne quello di Portovenere,
ultimo istituito) ma, pur diversi nel metodo
e nell’oggetto, soffrono in generale di due
connotati negativi. Il primo è che i parchi
sono stati ritagliati in base agli equilibri
politici locali travolgendo ogni altra
logica territoriale; quindi, l’ente parco
non ha la competenza territoriale
sufficiente a condurre i principali progetti
di tutela e recupero ambientale che
sarebbero necessari. Il secondo è che gli
enti parco sono soggetti deboli, che non
rivendicano i poteri loro assegnati dalla
legge, dotati di consigli che autolimitano
la propria autorità per rimandarla agli enti
locali; sicché i piani hanno contenuti
prescrittivi minimi, il cui rispetto, in
assenza di sanzioni, è quasi volontaristico.
Insomma, l’ente parco non ha né la capacità
né gli strumenti per portare avanti
politiche territoriali e per coordinare
azioni di scala vasta; un fatto tanto più
grave in quanto i territori dei parchi
appartengono per lo più a piccoli o
piccolissimi comuni, la cui possibilità di
intervento sostitutivo è nulla.
Pur nella diversità degli approcci, i vari
governi regionali che si sono succeduti sono
stati complessivamente incapaci di esprimere
una politica ambientale coerente attraverso
lo strumento dei parchi e hanno ceduto alle
pressioni delle lobby locali
anti-parco, che hanno forte radicamento nel
territorio. Sembra ora emergere l’intenzione
di interpretare positivamente il
ridimensionamento dei parchi, delineando un
progetto di gestione integrata delle aree di
valore ambientale, in cui i parchi siano un
elemento propulsore di sviluppo sostenibile,
al centro di un sistema del quale fanno
parte da un lato le riserve naturalistiche
ed i siti di intesse comunitario, dall’altro
le zone di caccia controllate e le aziende
venatorie. Il progetto ha il vantaggio di
poggiare su una visione realistica delle
forze in campo sul territorio, ma
l’integrazione effettiva appare
problematica.
L’ambiente
Legislazione
Con la Lr 18/1999, la Regione Liguria si è
data un quadro organico di organizzazione
delle attività di conoscenza, pianificazione
e controllo dei vari aspetti ambientali;
questa legge (assieme alla legge di
disciplina della valutazione di impatto
ambientale, Lr 38/1998) costituisce
l’analogo in campo ambientale della Lr
36/1997. La regione ha compiuto un lungo
percorso prima di arrivare ad un’organica
visione di insieme, dove specifici atti
legislativi hanno permesso il recepimento
delle norme quadro nazionali ed europee, ma
anche, analogamente a quanto successo
nell’ambito della pianificazione
urbanistica, la formazione per
stratificazione di un progetto
originale, basato sul ruolo strategico che
le politiche regionali hanno assegnato ai
temi ambientali: la tutela e la
valorizzazione dell’ambiente costituiscono,
infatti, uno dei presupposti per
l’affermarsi di uno specifico modello
regionale di sviluppo che vede nell’offerta
di amenities uno dei fattori
determinanti di successo.
Ricostruendo il quadro dell’evoluzione
legislativa nel settore (Tabella 1),
è possibile rilevare alcuni elementi chiave:
- la grande attenzione nei riguardi del
recepimento delle linee guida stabilite
dalla legislazione nazionale o dalle
direttive europee (specie in settori
strategici: difesa del suolo, lotta
all’inquinamento, energia);
- la capacità di fare propri alcuni
suggerimenti emergenti dalla cultura
ambientale (e, quindi, non esclusivamente
contenuti in atti legislativi); il
riferimento va in particolare a strumenti
innovativi di gestione dell’ambiente come
l’Agenda 21 (sia regionale che locale) o la
certificazione ambientale;
- il tentativo di rendere i temi ambientali
trasversali e, quindi, integrati con le
altre pianificazioni di settore, in
particolare con la pianificazione
territoriale.
Gli strumenti: valutazione di impatto
ambientale e sostenibilità
Mentre la Lr 38/1998 sulla valutazione di
impatto ambientale (Via) si inquadra in
una tradizione abbastanza consolidata sul
piano teorico e operativo, più interessante
ed innovativo appare il quadro degli
strumenti messi in campo dalla legge
urbanistica (Lr 36/1997). Essa stabilisce,
infatti, che le scelte di pianificazione (ai
tre livelli: regionale, provinciale e
comunale) siano elaborate sia attraverso la
comparazione dei valori e degli interessi
coinvolti, sia sulla base del principio
generale della sostenibilità dello sviluppo.
Gli strumenti messi a disposizione dalla
legge per conseguire tali obiettivi sono
sostanzialmente due: la descrizione
fondativa e lo studio di sostenibilità. La
descrizione fondativa (per certi versi
analoga allo statuto dei luoghi della
legge urbanistica toscana) deve non solo
consentire di valutare il grado di
sostenibilità ambientale e di suscettività
alle trasformazioni del territorio, ma anche
comporre, entro un quadro unitario, le fasi
dell’analisi e del progetto nel processo di
piano. Deve cioè contenere gli elementi
indispensabili ai fini di garantire una
valutazione interdisciplinare e trasparente
delle scelte operate. Lo studio di
sostenibilità, poi, entra ancora di più nel
merito del rapporto tra stato del territorio
(che si può esprimere attraverso le sue
condizioni di degrado, le risorse esistenti
e le potenzialità) e scelte di
trasformazione. A tale strumento sono
attribuiti i compiti della valutazione
comparata delle scelte alternative, della
sostenibilità delle stesse in relazione alla
sensibilità ambientale delle aree
interessate, dei potenziali impatti
residuali e delle possibili mitigazioni.
Un quadro di strumenti molto ambizioso che
si scontra con le difficoltà inevitabili
legate ad un appesantimento delle procedure
di formazione dei piani (specie a livello
comunale, dove spesso le risorse per
produrre studi, analisi e valutazioni di
questo livello sono difficili da reperire).
E ciò in contraddizione con l’intenzione del
legislatore regionale di semplificare il
quadro delle autorizzazioni: uno degli scopi
dello studio di sostenibilità interno ai
piani sarebbe, infatti, quello di accelerare
le procedure per le ordinarie procedure di
Via di scala regionale (definite all’interno
della Lr 38/1998).
Rimane poi sullo sfondo la questione
relativa alla valutazione del piano
(al di là della valutazione nel
piano), cioè degli strumenti metodologici e
concettuali necessari per compiere una
valutazione complessiva di ciascun piano
(anziché delle singole scelte interne ad
esso). Valutazione che richiederebbe di
indagare gli aspetti legati alla efficacia
delle scelte operate, ai problemi di
implementazione (attuazione del piano e,
soprattutto, mancata attuazione delle
previsioni), alle relazioni tra piani e
strumenti diversi operanti però sullo stesso
territorio. In questo senso l’esperienza
regionale, pur avendo garantito la
formazione e l’applicazione di strumenti in
parte innovativi, mostra l’esigenza di
spingere più in profondità le questioni
legate alla valutazione di sostenibilità di
piani e programmi.
Gli strumenti: l’Agenda 21 regionale
L’Agenda 21 regionale, istituita dall’art.
11 della Lr 18/1999, si configura come vero
e proprio piano regionale per l’ambiente con
le finalità di:
a) armonizzare le politiche regionali dei
diversi settori indirizzandole verso lo
sviluppo sostenibile attraverso i metodi
dell’interdisciplinarietà e della
partecipazione;
b) raccogliere gli obiettivi e le strategie
di sviluppo della regione e orientarli al
fine di dare attuazione ai principi dello
sviluppo sostenibile attraverso la
definizione di indirizzi;
c) fissare gli obiettivi, le strategie e le
priorità della pianificazione ambientale ed
energetica e costituire aggiornamento del
progetto ambiente (Lr 26/1991, progetto
ambiente e partecipazione alla Società
regionale per l’ambiente);
d) coordinare gli interventi ambientali
della regione e degli enti locali e
promuovere la realizzazione di Agende 21
locali;
e) definire i criteri per la individuazione
delle aree ad elevato rischio di crisi
ambientale;
f) individuare, per i diversi comparti
ambientali, gli obiettivi da raggiungere
sulla base di specifici indicatori di stato,
pressione e risposta (secondo gli ormai
consolidati modelli di valutazione della
sostenibilità elaborati a livello
internazionale).
L’Agenda 21 regionale si pone, quindi, da un
lato come strumento per coordinare i diversi
strumenti di settore che riguardano
l’ambiente, la cui gestione ed attuazione è
demandata al livello regionale (energia,
rifiuti, ciclo delle acque, inquinamento);
dall’altro, invece, costituisce, almeno
nelle intenzioni, uno strumento trasversale,
cui dovrebbero far capo le diverse politiche
regionali, al fine di orientarle verso la
sostenibilità. Inoltre, altri importanti
obiettivi dell’Agenda 21 sono il
coordinamento tra enti diversi per livello e
funzioni e la comunicazione dei risultati
ottenuti dalle politiche regionali con
riferimento all’ambiente.
Il faticoso cammino (non ancora ultimato) di
formazione ed approvazione di tale strumento
dimostra l’ambizione del progetto e le sue
difficoltà attuative, dal momento che non è
sufficiente un mero elenco di interventi ed
azioni da compiere in campo ambientale, ma
occorre una valutazione delle reali capacità
di incidere sul piano finanziario e per
quanto riguarda l’ottenimento del consenso
sulle priorità. In questo senso, sembra
necessiti un’ulteriore riflessione su fini e
contenuti dello strumento, che dovrebbe
costituirsi prevalentemente come sostegno
alla decisione, fornendo aiuto per
selezionare obiettivi ed azioni.
Numerose esperienze pilota, avviate negli
ultimi anni (Agende 21 comunali,
certificazioni ambientali, accordi
volontari, ecc.), che costituiscono ormai un
ventaglio piuttosto ampio di buone
pratiche, hanno mostrato come, almeno
allo stato attuale, un percorso più
fruttuoso possa essere intrapreso da
comunità locali di minore dimensione
(tipicamente i comuni); laddove sembra più
semplice instaurare un rapporto diretto tra
pubblica amministrazione e comunità locali è
possibile avviare con maggior successo
azioni di tipo strategico, coinvolgendo in
modo attivo e fruttuoso attori diversi.
Gli strumenti: i piani di bacino
In Liguria la pianificazione di bacino ha
assunto nell’ultimo decennio il carattere di
un laboratorio di ricerca e applicazione nel
campo della gestione del territorio.
Circostanze diverse hanno concorso a
determinare questa situazione. Innanzitutto
le condizioni orografiche e geomorfologiche
del territorio ligure, che lo espongono al
rischio e all’instabilità; come anche la
fragilità insita in un contesto fortemente
antropizzato dove è venuta a mancare l’opera
di manutenzione svolta dalla popolazione
rurale. Ma anche circostanze di ordine
sociale e politico: la sensibilità delle
amministrazioni locali verso i temi
dell’ambiente, che si è concretizzata in una
fitta serie di provvedimenti legislativi e
di interventi, e la forte domanda di
prevenzione dal rischio proveniente dai
diversi settori esposti a periodiche minacce
di compromissione delle proprie attività.
Queste condizioni hanno contribuito ad una
diffusa applicazione delle leggi, nazionali
e regionale, in tema di difesa del suolo.
Solo una limitata parte del territorio
regionale è ricompresa in bacini che la
legge 183/1989 definisce di interesse
nazionale (Po) o interregionale (Magra). Il
resto del territorio, che comprende le aree
a maggior rischio, è costituito da bacini
idrografici di piccola o piccolissima
dimensione, per i quali la difesa del suolo
è delegata agli enti locali. Questa
circostanza ha favorito la
responsabilizzazione degli stessi,
sollecitati anche, nell’attuazione delle
disposizioni legislative, dai numerosi
eventi alluvionali susseguitesi per tutti
gli anni ‘90.
Motivi di ordine pratico e normativo hanno
determinato una riduzione dei contenuti dei
piani di bacino liguri rispetto alle
originarie previsioni della legge 183/19892
(per la verità eccessivamente ampie e,
quindi, di difficile attuazione) e hanno
imposto il ricorso a piani stralcio,
limitati ai soli aspetti di difesa
idrogeologica. Tuttavia la complessità dei
dispositivi necessari ad attuare un’efficace
politica dei suoli e di difesa dal rischio
idrogeologico e l’intreccio che
inevitabilmente si genera con gli altri
strumenti di pianificazione territoriale,
hanno fatto sì che la pianificazione di
bacino si trasformasse, almeno nelle
intenzioni, da settoriale in
integrata.
Per quanto riguarda l’apparato normativo dei
piani si può osservare come esso abbia
assunto un’impostazione prevalentemente
vincolistica e prescrittiva, limitando le
trasformazioni del territorio (ed in
particolare quelle connesse
all’edificabilità3) secondo
criteri di riduzione al minimo delle
situazioni di rischio. Il piano di bacino,
in questo senso, si è andato configurando
sempre di più quale piano delle
compatibilità ambientali e della
suscettività alle trasformazioni. Se questo
può essere considerato un elemento di
avanzamento nella gestione del territorio,
nell’ambito di un simile approccio emergono
alcuni limiti. Uno riguarda il rischio di
intervenire solo a valle dei fenomeni,
considerando gli effetti più che le cause
del degrado e conseguentemente del rischio4.
Ma il principale limite riguarda il problema
di coordinamento che deve avvenire tra la
disciplina degli usi del suolo elaborata
all’interno dei piani di bacino, dove il
criterio guida è costituito prevalentemente
dalla prevenzione/riduzione del rischio, e
quella che deriva dalle altre forme di
pianificazione, nelle quali prevalgono,
nella scelta delle localizzazioni, altri
criteri, di ordine economico, sociale,
paesistico: in generale, cioè, di ordine
territoriale.
1
Sui contenuti e la struttura della legge
vedi: Giaimo C., Regione Liguria: Lr
36/1997, in Barbieri C. A., Giaimo C.
(2003) (a cura di); per una più diffusa
trattazione delle modifiche alla legge vedi
Bobbio R., Note sulla riforma della legge
urbanistica in Liguria, ibidem.
2
In particolare, la legge 267/1998 se da un
lato ha imposto un’accelerazione nelle
procedure di avvio e di approvazione dei
piani, dall’altro ha inevitabilmente
contribuito, limitandone i contenuti a
quelli indispensabili alla conoscenza ed
alla riduzione del rischio, a snaturare in
una certa misura gli originari principi
ispiratori della legge 183/1989 (il piano di
bacino come l’elemento centrale di una
pianificazione ambientale orientata a
promuovere lo sviluppo sociale ed
economico).
3
I piani di bacino liguri fanno sempre
riferimento ad un ventaglio ampio di
trasformazioni potenziali del territorio; si
pone allora il problema della loro efficacia
prescrittivi in riferimento a categorie di
intervento (sui suoli, sulla vegetazione,
sui corpi idrici) che non sono quelle che si
riferiscono all’attività edilizia e in
merito alle quali le competenze sono assai
più incerte, frutto di una normativa
afferente diversi settori con una pluralità
di attori coinvolti. D’altra parte anche in
campo edilizio i recenti sviluppi normativi,
che configurano un ruolo sempre più ampio
della Dia, vanno nella direzione di rendere
difficili le operazioni di controllo e
gestione.
4
Difficilmente, nell’ambito della costruzione
delle mappe del degrado e del rischio, si
ricostruiscono le cause che hanno portato
alle condizioni attuali: abbandono dei
territori rurali, perdita della sapienza
ambientale locale, fenomeni di
urbanizzazione incongrui e non rispettosi
dell’ambiente, scarsa conoscenza del rischio
ambientale, accumularsi di effetti perversi
per la sconnessione degli interventi di
trasformazione, ecc.
* Il testo è il risultato della
collaborazione fra i due autori: R. Bobbio
ha particolarmente curato i paragrafi
“Quadro generale” e “La pianificazione”; G.
Lombardini i paragrafi “Dalle pratiche alla
legislazione: temi ricorrenti, temi
trasversali” e “L’ambiente”.
Bibliografia
AA.VV. (2000), Le politiche di tutela e
di valorizzazione del paesaggio. Regioni,
Enti locali e Convenzione europea del
paesaggio, Atti del convegno nazionale,
Genova 26-27 novembre 1999, Coedit, Genova.
Barbieri C. A., Giaimo C. (2003), (a cura
di), Nuove leggi urbanistiche delle
regioni tra specificità e omologazione,
Alinea, Firenze.
Bobbio R. (2001), Quel che resta dei
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