Numero 6/7 - 2003

 

le leggi regionali  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il paesaggio e l'ambiente nelle leggi e nei piani della Liguria *


Roberto Bobbio

Giampiero Lombardini


 

Negli ultimi anni, la Regione Liguria si è caratterizzata per una forte interazione tra produzione legislativa e pratiche di pianificazione urbanistica, avendo accumulato un apparato normativo cospicuo. nel tentativo di ricostruire il quadro legislativo regionale, Roberto Bobbio e Giampiero Lombardini notano come esso sia influenzato in modo significativo dall’azione pianificatoria, la quale ha sempre più selezionato i suoi obiettivi tanto da poter parlare di pianificazione a tema

 

 

* Il testo è il risultato della collaborazione fra i due autori: R. Bobbio ha particolarmente curato i paragrafi “Quadro generale” e “La pianificazione”; G. Lombardini i paragrafi “Dalle pratiche alla legislazione: temi ricorrenti, temi trasversali” e “L’ambiente”.

 

Quadro generale

 

Nell’agosto 2002, la Regione Liguria ha ricondotto alla competenza di un unico assessorato il Dipartimento di pianificazione territoriale, paesistica e ambientale e il Dipartimento tutela dell’ambiente ed edilizia; si è così riconosciuta l’opportunità di coordinare più strettamente l’azione dei due settori, ponendo le basi per lo sviluppo di politiche di ampio respiro.

In passato la tutela del paesaggio e la riduzione del rischio idrogeologico sono stati i fondamentali campi di una convergenza fra urbanistica e gestione dell’ambiente non priva di frizioni e giocata per lo più all’interno dell’attività di pianificazione, mentre le grandi questioni territoriali sono restate sullo sfondo.

Il fatto è in parte spiegabile sulla base di alcune peculiarità regionali che hanno una matrice geografica e geomorfologica (la posizione strategica rispetto al bacino padano e al centro Europa; la contiguità di mare e montagna che accentua i valori paesistici e riduce la disponibilità di suolo). Intrinsecamente poco dinamica, la Liguria è tuttavia storicamente integrata in aree economiche forti ed è, quindi, particolarmente soggetta a fenomeni allogeni che selezionano le vocazioni e privilegiano alcune porzioni del territorio regionale: nell’ultimo secolo la maggior parte di esso (la montagna) è stata utilizzata solo per essere attraversata dai canali di accesso alla fascia costiera; su quest’ultima e sull’immediato retroterra vallivo, si sono focalizzati gli interessi, riconducibili a tre grandi categorie di attività: portuali (attualmente in crescita), industriali (da decenni in contrazione, con ampie dismissioni), turistiche (stazionarie, per saturazione dell’offerta). Il progressivo abbandono di una gran parte del territorio e l’eccessivo peso insediativo e infrastrutturale che grava su aree relativamente limitate producono effetti analoghi in termini di degrado diffuso e di sempre più frequenti disastri ambientali, che tutti sono concordi nel voler contrastare; ma la decisione si fa debole nel combattere la dissoluzione dei paesaggi storici e il depauperamento delle risorse naturali, imprese che comportano il rischio di limitare ulteriormente la vitalità di economie locali basate sul consumo e non più sulla produzione; mentre sono mancate finora l’assunzione di responsabilità e la capacità progettuale necessarie a promuovere una reale inversione di tendenza e a stimolare sviluppo autogeno.

Date queste condizioni, la regione ha accumulato un apparato normativo cospicuo, non privo di contraddizioni e di ambiguità per l’incertezza dei princìpi; sul territorio si sovrappongono vari livelli di piani che sono a volte debolmente propositivi, ma che più spesso si limitano a cercare di contenere il consumo di suolo e le trasformazioni ritenute regressive.

 

 

Dalle pratiche alla legislazione: temi ricorrenti, temi trasversali

 

Dalle pratiche alla legislazione, e ritorno

 

L’azione regionale nel campo della pianificazione urbanistica si è mossa, storicamente, attorno ad alcuni grandi temi e ad alcune specifiche aree-problema, su cui, in diverse occasioni, si è concentrata l’attenzione per il governo dei cambiamenti. Tali ambiti tematici (caratterizzati ciascuno da specifiche situazioni territoriali) hanno finito, col tempo, per influenzare la produzione legislativa regionale. Le esperienze sul campo hanno contribuito a creare una lenta ma progressiva stratificazione di comportamenti, valutazioni, metodi e, non ultimo, linguaggi, che sono poi confluiti in buona misura nel corpus legislativo regionale.

In una prima fase (anni ’70, prima metà anni ’80) la produzione legislativa regionale in materia di pianificazione urbanistica è stata indirizzata al recepimento degli indirizzi espressi nella legislazione quadro nazionale; quindi, in coincidenza con l’avvio dei primi grandi progetti e schemi di piani di area vasta (il piano territoriale di coordinamento paesistico ed i piani territoriali di coordinamento di iniziativa regionale), si è assistito ad un processo di costante osmosi tra pratiche da un lato e produzione legislativa dall’altro. In questo modo, la produzione legislativa regionale, specie con l’affermarsi della questione ambientale, ha reinterpretato in modo via via più originale (ossia con visioni sempre più mediate dall’esperienza locale) i suggerimenti e gli stimoli che giungevano dall’ampliarsi delle disposizioni di livello nazionale in materia di governo del territorio.

Si può, quindi, tentare di ricostruire il quadro legislativo regionale attraverso la focalizzazione di alcuni temi-chiave, notando innanzitutto come l’azione di pianificazione regionale (che ha operato per lo più attraverso lo strumento del Ptc) sia andata nel tempo selezionando i suoi obiettivi; tanto che si potrebbe parlare, a dispetto della funzione di coordinamento che ciascun piano avrebbe dovuto garantire, di pianificazione a tema.

 

Temi ricorrenti, temi trasversali

 

Fra i temi principali affrontati vanno sicuramente segnalati:

- il controllo delle trasformazioni paesistiche;

- la riconversione delle aree industriali o infrastrutturali dismesse od in via di dismissione;

- la riqualificazione delle aree interne e il mantenimento di presidio territoriale;

- la valorizzazione dei centri storici;

- la pianificazione ambientale, con particolare attenzione alle aree costiere e all’individuazione di aree di pregio da tutelare;

- l’intervento su alcune componenti dell’offerta turistica (in modo particolare il sistema dei porti turistici).

L’elenco non copre alcuni temi di grande rilievo dell’agenda politica regionale: sembra si escluda che la pianificazione regionale possa o voglia incidere direttamente, a partire dall’area vasta, su problemi cruciali quali l’adeguamento del sistema infrastrutturale (in una prospettiva che vede la Liguria come una cerniera tra Mediterraneo e area centro-europea), il controllo dei fenomeni urbanizzativi di maggior peso, l’avvio di una politica di sviluppo regionale che prescinda dalla grande industria statale (oramai quasi totalmente liquidata), le politiche per uno sviluppo turistico sostenibile.

Questo quadro di esperienze (siano esse compiute o abbiano aggirato o non affrontato direttamente le questioni poste) ha influenzato in modo significativo la produzione legislativa regionale (e non solo). Alcuni termini che ricorrono con frequenza nei testi legislativi e nei documenti della regione (ad esempio, distretto di trasformazione, area di presidio ambientale, quadro descrittivo, descrizione fondativa, disciplina paesistica, sostenibilità ambientale) rimandano a metodi e a concezioni che derivano da esperienze maturate sul campo, dove si sono affrontati quei temi privilegiati di cui si è accennato sopra.

 

 

La pianificazione

 

La riforma della legge urbanistica

 

Solo da pochi anni la Liguria si è data una legge urbanistica complessiva (Lr 36/1997)1 che disciplina i livelli della pianificazione territoriale, definendo obiettivi, contenuti ed itinera del piano territoriale regionale (Ptr), del piano di coordinamento provinciale (Ptc) e del piano urbanistico comunale (Puc), ma che non ha sostituito del tutto la normativa di tipo urbanistico e territoriale accumulatasi in vent’anni d’attività legislativa.

La Lr 36/1997 fu portata all’approvazione faticosamente, con modifiche del disegno originario che ne hanno frenato l’intenzione innovativa non sempre a vantaggio dell’operatività; sicché presto emersero difficoltà applicative che ne suggerivano emendamenti (Lorenzani, 2000). La riforma pare ora concretizzarsi: è stata approvata una prima modifica parziale (Lr 19/2002), che riguarda soprattutto la semplificazione dei procedimenti concertativi e l’ampliamento delle possibilità di farvi ricorso; si va definendo la revisione dei contenuti e degli itinera dei piani. Le proposte circolate sembrano inscriversi in una concezione riduzionistica della pianificazione territoriale (che sarebbe giustificata dalla pletoricità degli strumenti approvati con la legge vigente e dalla lunghezza dei tempi di approvazione); così per i piccoli comuni potrebbe cadere l’obbligo di darsi un piano, il piano comunale acquisterebbe validità indefinita e perderebbe quel valore di quadro delle conoscenze che la Lr 36/1997 aveva voluto conferirgli; infine, la regione potrebbe rivendicare il ritorno ad una sua maggiore centralità nei processi di pianificazione.

 

Il Ptcp: permanenza ed evoluzione

 

La Liguria è stata fra le prime regioni a dar seguito alla legge Galasso con l’approvazione, nel 1990, di un piano territoriale di coordinamento paesistico (Ptcp). Esteso a tutto il territorio regionale, il Ptcp è uno strumento complesso, articolato su tre livelli (territoriale, locale, puntuale) di differente valenza attuativa e prescrittiva e riferito a tre assetti (geomorfologico, vegetazionale, insediativo).

Molte parti del Ptcp hanno avuto scarse o nulle ricadute; mentre il livello locale - assetto insediativo - ha influito sia sulla produzione dei piani successivi di ogni livello, sia sull’effettiva gestione del territorio, tanto che in esso tende ad identificarsi il Ptcp tout court. Il livello locale - assetto insediativo consiste in una completa zonizzazione del territorio regionale alla scala 1:25.000 (alcune analisi furono condotte in scala 1:50.000) che definisce il regime (mantenimento, conservazione, consolidamento o trasformazione) cui sono sottoposte le tipologie di insediamento individuate e descritte dal piano; gli effetti prescrittivi che ne derivano sono minimi sui tessuti edilizi compatti delle aree urbane, notevoli sulle aree rurali e sui piccoli centri in esse compresi o sulle aree non abitate. Scopi evidenti sono limitare il consumo di suolo, mantenere la densità e, per quanto possibile, i caratteri degli insediamenti sparsi e diffusi, evitare l’accerchiamento dei nuclei storici compatti; mancano analisi che valutino se l’effettivo contenimento dell’urbanizzazione nel periodo di vigenza del Ptcp sia (e come) dovuto ad esso o unicamente alla congiuntura demografica ed economica.

L’approvazione dei nuovi piani comunali ha comportato numerose varianti al Ptcp. Nel passaggio a scale di maggior dettaglio si è evidenziata la necessità di rettificare i confini di zona come di riattribuire alle zone porzioni di territorio; le discussioni che ne sono nate hanno investito sia il valore prescrittivo del Ptcp sia i regimi normativi, che una linea oggi prevalente in regione sembra giudicare troppo rigidi. Un ammorbidimento del Ptcp è tanto più possibile in quanto, dopo una fase (susseguente all’approvazione della Lr 36/1997) durante la quale sembrava destinato ad essere assorbito nel Ptr, esso è ritornato al centro del sistema di pianificazione regionale.

 

Dal piano della costa al Ptr

 

Approvato nel 2001 il piano della costa è anzitutto una specificazione del Ptcp che riguarda un ambito altamente sensibile, fondamentale all’economia come all’identità ligure e soggetto a competizioni fra gli usi particolarmente forti. Mentre il Ptcp regima gli usi, il piano della costa è sostanzialmente un quadro d’assieme di interventi localizzati (alcuni sistematici, come i ripascimenti delle spiagge, altri occasionali, come il riuso di aree ferroviarie dismesse) che hanno come finalità generale il recupero e la messa in valore di risorse. A fronte delle pressioni per intensificare l’artificializzazione della linea di costa ed aumentare il carico insediativo nelle zone costiere, il piano persegue un difficile equilibrio fra lo sfruttamento economico (turistico ed immobiliare) del litorale, la riqualificazione dell’ambiente litoraneo e marino e la conservazione dei siti naturali residui. La scelta di settore è evidente: mentre disciplina dettagliatamente la crescita dei porti turistici, il piano non affronta l’altro il ben più grande problema dello sviluppo e della possibile integrazione in un unico sistema dei grandi porti commerciali; una scelta che rende meno comprensibili alcune omissioni (il piano è evasivo circa la sostenibilità dell’incremento dei flussi turistici che gli interventi previsti prospettano).

Testimoni qualificati accreditano questo taglio settoriale e per progetti come linea attualmente prevalente in regione, giustificata dalla sfiducia nell’attuabilità dei grandi disegni a scala territoriale (per altro mai prodotti in Liguria). Una conferma sembra darla il Ptr (presentato nel 2002 e adottato ad agosto 2003): abbandonata ogni ambizione di comprensività, il Ptr sembra riluttante ad assumere anche un più modesto ruolo di piano-quadro, mentre individua una serie di azioni, alcune in aree marginali, con finalità di sviluppo locale e di recupero ambientale.

Se questo è il Ptr, il quadro generale delle coerenze deve essere ricercato in un Ptcp di garanzia, rivisto (contestualmente all’adozione del Ptr) per alleggerirne taluni aspetti conservativi e consentire la realizzazione degli interventi previsti da altri piani e progetti; la pianificazione regionale trova, quindi, il suo momento unificante sotto l’insegna della qualità ambientale e paesistica.

 

I piani dei parchi

 

La gestazione dei parchi è stata lunga e travagliata. Il progetto di istituzione di aree protette, delineato negli anni ’80, era basato su studi scientifici che individuavano i sistemi territoriali di prevalente interesse naturalistico e le più rilevanti emergenze paesaggistiche; vent’anni di discussioni hanno portato al drastico ridimensionamento del progetto in termini quantitativi e qualitativi con risultati paradossali: le aree montane di maggior valore sono state escluse; l’unico grande parco costiero, quello delle Cinque Terre, è diventato un parco nazionale, per iniziativa locale; il Parco di Portofino, il più noto ed antico, è stato confermato nei confini degli anni ’30, definiti su valutazioni paesaggistiche non più attuali.

I piani dei parchi regionali sono stati approvati (tranne quello di Portovenere, ultimo istituito) ma, pur diversi nel metodo e nell’oggetto, soffrono in generale di due connotati negativi. Il primo è che i parchi sono stati ritagliati in base agli equilibri politici locali travolgendo ogni altra logica territoriale; quindi, l’ente parco non ha la competenza territoriale sufficiente a condurre i principali progetti di tutela e recupero ambientale che sarebbero necessari. Il secondo è che gli enti parco sono soggetti deboli, che non rivendicano i poteri loro assegnati dalla legge, dotati di consigli che autolimitano la propria autorità per rimandarla agli enti locali; sicché i piani hanno contenuti prescrittivi minimi, il cui rispetto, in assenza di sanzioni, è quasi volontaristico. Insomma, l’ente parco non ha né la capacità né gli strumenti per portare avanti politiche territoriali e per coordinare azioni di scala vasta; un fatto tanto più grave in quanto i territori dei parchi appartengono per lo più a piccoli o piccolissimi comuni, la cui possibilità di intervento sostitutivo è nulla.

Pur nella diversità degli approcci, i vari governi regionali che si sono succeduti sono stati complessivamente incapaci di esprimere una politica ambientale coerente attraverso lo strumento dei parchi e hanno ceduto alle pressioni delle lobby locali anti-parco, che hanno forte radicamento nel territorio. Sembra ora emergere l’intenzione di interpretare positivamente il ridimensionamento dei parchi, delineando un progetto di gestione integrata delle aree di valore ambientale, in cui i parchi siano un elemento propulsore di sviluppo sostenibile, al centro di un sistema del quale fanno parte da un lato le riserve naturalistiche ed i siti di intesse comunitario, dall’altro le zone di caccia controllate e le aziende venatorie. Il progetto ha il vantaggio di poggiare su una visione realistica delle forze in campo sul territorio, ma l’integrazione effettiva appare problematica.

 

Tabella 1

 

 

L’ambiente

 

Legislazione

 

Con la Lr 18/1999, la Regione Liguria si è data un quadro organico di organizzazione delle attività di conoscenza, pianificazione e controllo dei vari aspetti ambientali; questa legge (assieme alla legge di disciplina della valutazione di impatto ambientale, Lr 38/1998) costituisce l’analogo in campo ambientale della Lr 36/1997. La regione ha compiuto un lungo percorso prima di arrivare ad un’organica visione di insieme, dove specifici atti legislativi hanno permesso il recepimento delle norme quadro nazionali ed europee, ma anche, analogamente a quanto successo nell’ambito della pianificazione urbanistica, la formazione per stratificazione di un progetto originale, basato sul ruolo strategico che le politiche regionali hanno assegnato ai temi ambientali: la tutela e la valorizzazione dell’ambiente costituiscono, infatti, uno dei presupposti per l’affermarsi di uno specifico modello regionale di sviluppo che vede nell’offerta di amenities uno dei fattori determinanti di successo.

Ricostruendo il quadro dell’evoluzione legislativa nel settore (Tabella 1), è possibile rilevare alcuni elementi chiave:

- la grande attenzione nei riguardi del recepimento delle linee guida stabilite dalla legislazione nazionale o dalle direttive europee (specie in settori strategici: difesa del suolo, lotta all’inquinamento, energia);

- la capacità di fare propri alcuni suggerimenti emergenti dalla cultura ambientale (e, quindi, non esclusivamente contenuti in atti legislativi); il riferimento va in particolare a strumenti innovativi di gestione dell’ambiente come l’Agenda 21 (sia regionale che locale) o la certificazione ambientale;

- il tentativo di rendere i temi ambientali trasversali e, quindi, integrati con le altre pianificazioni di settore, in particolare con la pianificazione territoriale.

 

Gli strumenti: valutazione di impatto ambientale e sostenibilità

 

Mentre la Lr 38/1998 sulla valutazione di impatto ambientale (Via) si inquadra in una tradizione abbastanza consolidata sul piano teorico e operativo, più interessante ed innovativo appare il quadro degli strumenti messi in campo dalla legge urbanistica (Lr 36/1997). Essa stabilisce, infatti, che le scelte di pianificazione (ai tre livelli: regionale, provinciale e comunale) siano elaborate sia attraverso la comparazione dei valori e degli interessi coinvolti, sia sulla base del principio generale della sostenibilità dello sviluppo. Gli strumenti messi a disposizione dalla legge per conseguire tali obiettivi sono sostanzialmente due: la descrizione fondativa e lo studio di sostenibilità. La descrizione fondativa (per certi versi analoga allo statuto dei luoghi della legge urbanistica toscana) deve non solo consentire di valutare il grado di sostenibilità ambientale e di suscettività alle trasformazioni del territorio, ma anche comporre, entro un quadro unitario, le fasi dell’analisi e del progetto nel processo di piano. Deve cioè contenere gli elementi indispensabili ai fini di garantire una valutazione interdisciplinare e trasparente delle scelte operate. Lo studio di sostenibilità, poi, entra ancora di più nel merito del rapporto tra stato del territorio (che si può esprimere attraverso le sue condizioni di degrado, le risorse esistenti e le potenzialità) e scelte di trasformazione. A tale strumento sono attribuiti i compiti della valutazione comparata delle scelte alternative, della sostenibilità delle stesse in relazione alla sensibilità ambientale delle aree interessate, dei potenziali impatti residuali e delle possibili mitigazioni.

Un quadro di strumenti molto ambizioso che si scontra con le difficoltà inevitabili legate ad un appesantimento delle procedure di formazione dei piani (specie a livello comunale, dove spesso le risorse per produrre studi, analisi e valutazioni di questo livello sono difficili da reperire). E ciò in contraddizione con l’intenzione del legislatore regionale di semplificare il quadro delle autorizzazioni: uno degli scopi dello studio di sostenibilità interno ai piani sarebbe, infatti, quello di accelerare le procedure per le ordinarie procedure di Via di scala regionale (definite all’interno della Lr 38/1998).

Rimane poi sullo sfondo la questione relativa alla valutazione del piano (al di là della valutazione nel piano), cioè degli strumenti metodologici e concettuali necessari per compiere una valutazione complessiva di ciascun piano (anziché delle singole scelte interne ad esso). Valutazione che richiederebbe di indagare gli aspetti legati alla efficacia delle scelte operate, ai problemi di implementazione (attuazione del piano e, soprattutto, mancata attuazione delle previsioni), alle relazioni tra piani e strumenti diversi operanti però sullo stesso territorio. In questo senso l’esperienza regionale, pur avendo garantito la formazione e l’applicazione di strumenti in parte innovativi, mostra l’esigenza di spingere più in profondità le questioni legate alla valutazione di sostenibilità di piani e programmi.

 

Gli strumenti: l’Agenda 21 regionale

 

L’Agenda 21 regionale, istituita dall’art. 11 della Lr 18/1999, si configura come vero e proprio piano regionale per l’ambiente con le finalità di:

a) armonizzare le politiche regionali dei diversi settori indirizzandole verso lo sviluppo sostenibile attraverso i metodi dell’interdisciplinarietà e della partecipazione;

b) raccogliere gli obiettivi e le strategie di sviluppo della regione e orientarli al fine di dare attuazione ai principi dello sviluppo sostenibile attraverso la definizione di indirizzi;

c) fissare gli obiettivi, le strategie e le priorità della pianificazione ambientale ed energetica e costituire aggiornamento del progetto ambiente (Lr 26/1991, progetto ambiente e partecipazione alla Società regionale per l’ambiente);

d) coordinare gli interventi ambientali della regione e degli enti locali e promuovere la realizzazione di Agende 21 locali;

e) definire i criteri per la individuazione delle aree ad elevato rischio di crisi ambientale;

f) individuare, per i diversi comparti ambientali, gli obiettivi da raggiungere sulla base di specifici indicatori di stato, pressione e risposta (secondo gli ormai consolidati modelli di valutazione della sostenibilità elaborati a livello internazionale).

L’Agenda 21 regionale si pone, quindi, da un lato come strumento per coordinare i diversi strumenti di settore che riguardano l’ambiente, la cui gestione ed attuazione è demandata al livello regionale (energia, rifiuti, ciclo delle acque, inquinamento); dall’altro, invece, costituisce, almeno nelle intenzioni, uno strumento trasversale, cui dovrebbero far capo le diverse politiche regionali, al fine di orientarle verso la sostenibilità. Inoltre, altri importanti obiettivi dell’Agenda 21 sono il coordinamento tra enti diversi per livello e funzioni e la comunicazione dei risultati ottenuti dalle politiche regionali con riferimento all’ambiente.

Il faticoso cammino (non ancora ultimato) di formazione ed approvazione di tale strumento dimostra l’ambizione del progetto e le sue difficoltà attuative, dal momento che non è sufficiente un mero elenco di interventi ed azioni da compiere in campo ambientale, ma occorre una valutazione delle reali capacità di incidere sul piano finanziario e per quanto riguarda l’ottenimento del consenso sulle priorità. In questo senso, sembra necessiti un’ulteriore riflessione su fini e contenuti dello strumento, che dovrebbe costituirsi prevalentemente come sostegno alla decisione, fornendo aiuto per selezionare obiettivi ed azioni.

Numerose esperienze pilota, avviate negli ultimi anni (Agende 21 comunali, certificazioni ambientali, accordi volontari, ecc.), che costituiscono ormai un ventaglio piuttosto ampio di buone pratiche, hanno mostrato come, almeno allo stato attuale, un percorso più fruttuoso possa essere intrapreso da comunità locali di minore dimensione (tipicamente i comuni); laddove sembra più semplice instaurare un rapporto diretto tra pubblica amministrazione e comunità locali è possibile avviare con maggior successo azioni di tipo strategico, coinvolgendo in modo attivo e fruttuoso attori diversi.

 

Gli strumenti: i piani di bacino

 

In Liguria la pianificazione di bacino ha assunto nell’ultimo decennio il carattere di un laboratorio di ricerca e applicazione nel campo della gestione del territorio. Circostanze diverse hanno concorso a determinare questa situazione. Innanzitutto le condizioni orografiche e geomorfologiche del territorio ligure, che lo espongono al rischio e all’instabilità; come anche la fragilità insita in un contesto fortemente antropizzato dove è venuta a mancare l’opera di manutenzione svolta dalla popolazione rurale. Ma anche circostanze di ordine sociale e politico: la sensibilità delle amministrazioni locali verso i temi dell’ambiente, che si è concretizzata in una fitta serie di provvedimenti legislativi e di interventi, e la forte domanda di prevenzione dal rischio proveniente dai diversi settori esposti a periodiche minacce di compromissione delle proprie attività. Queste condizioni hanno contribuito ad una diffusa applicazione delle leggi, nazionali e regionale, in tema di difesa del suolo.

Solo una limitata parte del territorio regionale è ricompresa in bacini che la legge 183/1989 definisce di interesse nazionale (Po) o interregionale (Magra). Il resto del territorio, che comprende le aree a maggior rischio, è costituito da bacini idrografici di piccola o piccolissima dimensione, per i quali la difesa del suolo è delegata agli enti locali. Questa circostanza ha favorito la responsabilizzazione degli stessi, sollecitati anche, nell’attuazione delle disposizioni legislative, dai numerosi eventi alluvionali susseguitesi per tutti gli anni ‘90.

Motivi di ordine pratico e normativo hanno determinato una riduzione dei contenuti dei piani di bacino liguri rispetto alle originarie previsioni della legge 183/19892 (per la verità eccessivamente ampie e, quindi, di difficile attuazione) e hanno imposto il ricorso a piani stralcio, limitati ai soli aspetti di difesa idrogeologica. Tuttavia la complessità dei dispositivi necessari ad attuare un’efficace politica dei suoli e di difesa dal rischio idrogeologico e l’intreccio che inevitabilmente si genera con gli altri strumenti di pianificazione territoriale, hanno fatto sì che la pianificazione di bacino si trasformasse, almeno nelle intenzioni, da settoriale in integrata.

Per quanto riguarda l’apparato normativo dei piani si può osservare come esso abbia assunto un’impostazione prevalentemente vincolistica e prescrittiva, limitando le trasformazioni del territorio (ed in particolare quelle connesse all’edificabilità3) secondo criteri di riduzione al minimo delle situazioni di rischio. Il piano di bacino, in questo senso, si è andato configurando sempre di più quale piano delle compatibilità ambientali e della suscettività alle trasformazioni. Se questo può essere considerato un elemento di avanzamento nella gestione del territorio, nell’ambito di un simile approccio emergono alcuni limiti. Uno riguarda il rischio di intervenire solo a valle dei fenomeni, considerando gli effetti più che le cause del degrado e conseguentemente del rischio4. Ma il principale limite riguarda il problema di coordinamento che deve avvenire tra la disciplina degli usi del suolo elaborata all’interno dei piani di bacino, dove il criterio guida è costituito prevalentemente dalla prevenzione/riduzione del rischio, e quella che deriva dalle altre forme di pianificazione, nelle quali prevalgono, nella scelta delle localizzazioni, altri criteri, di ordine economico, sociale, paesistico: in generale, cioè, di ordine territoriale.

 

 

1 Sui contenuti e la struttura della legge vedi: Giaimo C., Regione Liguria: Lr 36/1997, in Barbieri C. A., Giaimo C. (2003) (a cura di); per una più diffusa trattazione delle modifiche alla legge vedi Bobbio R., Note sulla riforma della legge urbanistica in Liguria, ibidem.

2 In particolare, la legge 267/1998 se da un lato ha imposto un’accelerazione nelle procedure di avvio e di approvazione dei piani, dall’altro ha inevitabilmente contribuito, limitandone i contenuti a quelli indispensabili alla conoscenza ed alla riduzione del rischio, a snaturare in una certa misura gli originari principi ispiratori della legge 183/1989 (il piano di bacino come l’elemento centrale di una pianificazione ambientale orientata a promuovere lo sviluppo sociale ed economico).

3 I piani di bacino liguri fanno sempre riferimento ad un ventaglio ampio di trasformazioni potenziali del territorio; si pone allora il problema della loro efficacia prescrittivi in riferimento a categorie di intervento (sui suoli, sulla vegetazione, sui corpi idrici) che non sono quelle che si riferiscono all’attività edilizia e in merito alle quali le competenze sono assai più incerte, frutto di una normativa afferente diversi settori con una pluralità di attori coinvolti. D’altra parte anche in campo edilizio i recenti sviluppi normativi, che configurano un ruolo sempre più ampio della Dia, vanno nella direzione di rendere difficili le operazioni di controllo e gestione.

4 Difficilmente, nell’ambito della costruzione delle mappe del degrado e del rischio, si ricostruiscono le cause che hanno portato alle condizioni attuali: abbandono dei territori rurali, perdita della sapienza ambientale locale, fenomeni di urbanizzazione incongrui e non rispettosi dell’ambiente, scarsa conoscenza del rischio ambientale, accumularsi di effetti perversi per la sconnessione degli interventi di trasformazione, ecc.

 

 

* Il testo è il risultato della collaborazione fra i due autori: R. Bobbio ha particolarmente curato i paragrafi “Quadro generale” e “La pianificazione”; G. Lombardini i paragrafi “Dalle pratiche alla legislazione: temi ricorrenti, temi trasversali” e “L’ambiente”.

 

 

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