Lucien Febvre ne La terre et l’evolution
humaine del 19221 assumeva
come condizione essenziale alla formazione
di insediamenti umani la presenza - resa
evidente da un atto di riconoscimento - di
“punti d’appoggio topogeografici
favorevoli”. Questa nozione di punto
d’appoggio, point d’appui, è
fondamentale per comprendere il ruolo degli
aspetti paesistici ed ambientali nella
pianificazione territoriale. L’idea è
ricorrente nella tradizione di ricerca
francese degli storici e dei geografi urbani
nella prima metà del 1900 (e la si ritrova,
del resto, anche in Marcel Poëte)2.
Come è stato rilevato, i punti d’appoggio
sono costituiti da elementi fisici: corsi
d’acqua, rilievi, linee di costa,
disposizioni di pianure, ecc. Non si tratta,
tuttavia, di preesistenze materiali pure e
semplici, ma di elementi “trovati” e
“fatti”, per usare le espressioni di
Giambattista Vico, ossia di prodotti insieme
di conoscenza e di azione (di ricerca e
progetto) dello spazio locale concreto3.
È proprio in questo passaggio concettuale -
come si vede nella scelta e
nell’appropriazione del sito di fondazione
di un insediamento urbano - che può leggersi
il carattere del luogo come ambiente
naturale e, insieme, come realtà storica ed
umana. Ed è qui, ancora, che l’ambiente in
quanto dimensione fisica del sito (environnement),
per riprendere un concetto di Augustin
Berque, che si assume qui a fondamento
metodologico, si fa paesaggio (paysage),
ossia dimensione simbolica del rapporto di
una determinata società con lo spazio.
Questa transizione dall’oggetto al senso,
per il tramite di una trajection
(combinazione mediale), costituisce proprio
il momento decisivo per la costituzione di
una médiance, quindi del senso di un
luogo.
Pertanto, il punto di vista della
médiance intende enunciare un principio
d’integrazione che renda conto, ad un tempo,
delle trasformazioni soggettive o
fenomeniche (le metafore) e di
trasformazioni oggettive o fisiche, a
partire dalle quali è possibile ricostruire
il senso unitario di un ambiente concreto4.
La costituzione di un orizzonte di senso in
rapporto ad un ambiente fisico non può che
essere, dunque, un atto umano: esso riguarda
appunto la relazione tra l’uomo e la natura,
la società e lo spazio. In questa accezione,
la médiance è un concetto
propriamente spaziale. Secondo Berque, “la
relazione di una società allo spazio e alla
natura non si dà se non nella misura in cui
essa è sentita, interpretata e pianificata
da una società; anche qui, inversamente, una
parte del sociale è costantemente tradotta
in effetti materiali, che si combinano con
fatti naturali”5.
D’altronde, la natura stessa, in quanto
paesaggio antropico, è creazione
fondamentalmente umana, attribuzione di
senso e formazione di un luogo
significativo: è dunque identificazione.
In questa prospettiva, il paesaggio, in
quanto manifestazione di una médiance,
esprime proprio il senso di un luogo secondo
una logica dell’identificazione. Alla
luce della dialettica metodologica del
passaggio da ambiente a paesaggio
cercheremo di leggere la vicenda della
fondazione di Sabaudia, una delle principali
città nuove dell’agro pontino fondate
all’interno del progetto della bonifica
integrale durante il fascismo.
La bonifica integrale rappresenta una
delle fondamentali strategie di controllo
del territorio del regime fascista. L’idea
di bonificare e colonizzare terre incolte
affonda le sue radici nel passato. Essa non
fu, infatti, un’invenzione del fascismo in
Italia, ma risale all’Ottocento e, come
tale, è elemento costitutivo del patrimonio
ideologico del socialismo utopistico e della
borghesia illuminata. Fin dalla conclusione
della prima guerra mondiale, i governi
liberali avevano posto mano ed accelerato la
produzione legislativa in materia di
bonifiche e di colonizzazioni, anche sotto
l’impulso del movimento contadino. Nel 1921,
lo Stato si assumeva il compito di
espropriare i terreni necessari alle opere
di bonifica. La legislazione varata dal
governo fascista, in particolare tra il 1928
ed il 1931, si focalizzava sulle
trasformazioni dell’ambiente agrario
mediante interventi tecnici coordinati da un
programma economico generale.
La bonifica dell’agro pontino venne condotta
sulla base dei risultati degli studi
scientifici del problema della malaria già
prodotti in età giolittiana, nonché dei
nuovi metodi di dissodamento meccanico dei
terreni e di ricerca di falde per
l’irrigazione e per l’uso potabile.
L’elaborazione teorica e i criteri
organizzativi della bonifica integrale
furono anche il frutto di ricerche nuove,
condotte soprattutto da Arrigo Serpieri, uno
dei più acuti economisti agrari italiani del
tempo. Le paludi pontine dovevano diventare,
nelle intenzioni del regime, l’esempio
maggiore della politica rurale; ma anche in
questo caso i limiti furono notevoli, a
cominciare dalla scelta delle aree da
bonificare e per l’insediamento dei coloni,
che venne dettata non tanto da ragioni di
localizzazione ottimale, quanto da tattiche
di compromesso volte a non esasperare i
conflitti con la proprietà agraria, che
costituiva uno dei pilastri del regime.
Furono proprio di tipo tecnico i maggiori
limiti con i quali si scontrò lo sforzo di
bonificare un cospicuo numero di zone
paludose in Italia. La debolezza delle
tecniche e dei sistemi tecnologici -
nell’agro pontino, nella piana del Sele,
ecc. - dovuta in eguale misura a cause
politiche ed organizzative, costituì dunque
uno dei maggiori “limiti strutturali”
dell’opera di bonifica6. In più,
a fronte di una propaganda che prefigurava
la sbracciantizzazione diffusa dei
contadini italiani, la quantità di terra
assegnata ai coloni fu oggettivamente
insufficiente anche per la sola sussistenza.
Agli occhi degli urbanisti, l’opera di
bonifica dell’agro pontino apparve
all’inizio come una questione essenzialmente
di ordine tecnico, una immensa opera di
ingegneria idraulica. Solo dopo
l’inaugurazione dei due centri principali,
Littoria (l’attuale Latina) e Sabaudia, essi
cominciano a percepire il valore emblematico
di questi nuovi insediamenti rurali - le
città nuove7 - in quanto
simboli e, insieme, concreti attrattori (e
realizzatori) della politica di
ruralizzazione e disurbanizzazione del
fascismo. Questi diventeranno gli elementi
di fondo di un piano regionale,
elaborato dalla più avanzata cultura
urbanistica del tempo, di cui si vantano le
possibilità di operare un salutare
riequilibrio territoriale, ossia - come
affermava Luigi Piccinato - di “risolvere i
problemi della ripopolazione delle campagne
e dello sfollamento delle città,
riequilibrando così la vita delle nazioni”8.
Un primo tentativo di bonifica delle paludi
pontine venne realizzato già nel 1884,
quando si promosse anche la prima
colonizzazione interna, con il trasferimento
di operai di Ravenna verso l’agro romano.
L’imponente progetto di bonifica pubblica in
epoca fascista è accompagnato dalla
fondazione di diversi centri rurali, le
città nuove di Littoria (1932), Sabaudia
(1933), Pontinia (1935), Aprilia (1937) e
Pomezia (1939). In questi nuovi insediamenti
si concentrarono i flussi migratori interni
di popolazioni contadine, soprattutto venete
e romagnole, assumendo la fondazione di
nuove città i connotati tipici della
colonizzazione rurale, con la presenza di
limitata popolazione (al massimo mille
abitanti tra impiegati, operai, coloni e
commercianti). Per tale motivo, è forse
improprio l’uso del termine città
relativamente a questi insediamenti: d’altra
parte, l’orientamento antiurbano stesso del
regime sarebbe stato contraddetto, di fatto,
dalla fondazione di vere e proprie città.
Anche perciò, tali centri conservano sempre
l’identità di borghi rurali. L’unica
eccezione è rappresentata da Littoria,
progettata sin dall’origine come capoluogo
di provincia, dotata quindi di immagine e
struttura di città in senso proprio.
L’opera di colonizzazione suscitò grande
interesse nella stampa internazionale (forse
meno in quella italiana): l’opinione
pubblica europea e statunitense vedeva,
infatti, nell’esperimento di bonifica
integrale compiuto nell’agro pontino - come
ha notato Riccardo Mariani - l’unica
alternativa agibile di fronte all’economia
pianificata sovietica ed ai modelli
insediativi in essa presenti. La grande
risonanza internazionale della bonifica è
dovuta anche alla sua interpretazione come
esperimento sociale per certi versi analogo
alle proposte dei disurbanisti
sovietici degli anni ’20 e ’30 (in
particolare Ginzburg, Miljutin e Leonidov).
La colonizzazione dell’agro pontino riveste,
dunque, interesse soprattutto come modello
teorico più che come operazione concreta di
riferimento, ponendosi come una sorta di
referenza ideale, se non addirittura
utopica, e come tale entra a far parte
dell’immaginario, prima che delle pratiche,
degli urbanisti e degli architetti.
Il paesaggio rappresenta un elemento di
importanza primordiale per le città pontine:
non semplice sfondo su cui si immergono le
diverse realtà costruite, ma territorio
ordinato che coagisce con la forma
urbana e con l’architettura e, come queste,
è plasmato dalla mano dell’uomo. Il
rapporto piano urbano-
paesaggio-architettura mi sembra, per
certi aspetti, la chiave di volta per
accedere alla comprensione della specificità
delle città dell’agro, in specie di Sabaudia.
Se la fondazione di Littoria avvenne in base
a precise considerazioni di ordine economico
e amministrativo, quella di Sabaudia - 5
agosto 1933 - trova motivazioni del tutto
diverse. Solo la bellezza del luogo sembrò,
infatti, dettare la scelta dei fondatori: il
paesaggio naturale di Sabaudia era un luogo
selvaggio e incontaminato.
La scelta del luogo di fondazione, pertanto,
non avvenne in base ad opportunità
economiche e di localizzazione o a
considerazioni relative a preesistenze
urbane; fu semmai un evento fortuito,
determinato dalla suggestiva bellezza del
paesaggio. Una sorta di scoperta,
dunque. I principali elementi di riferimento
alla scala territoriale che intervengono
nella fondazione della città sono il mare,
il monte Circeo e il lago di Paola (con i
suoi tre bracci, dell’Annunziata, della
Crapara e Arciglioni, che si insinuano lungo
il perimetro del nuovo centro). A questi può
aggiungersi il Parco nazionale del Circeo,
istituito nel gennaio 1934, tre mesi prima
della inaugurazione della città.
Il concorso per il piano di fondazione di
Sabaudia - bandito dall’opera nazionale
combattenti (Onc) e giudicato da una
commissione formata da Giovannoni, Fasolo,
Libera, dall’ufficio tecnico e dalla Onc
stessa - vide vincitore il gruppo Piccinato
(con Cancellotti, Montuori e Scalpelli). Il
progetto vincitore, a differenza del piano
di Frezzotti per Littoria, non si risolve in
uno schema meccanicamente sovrapposto
all’identità morfologica e simbolica del
luogo, ma si configura, invece, nei termini
di una intelligente lettura del luogo
stesso, proprio nelle sue valenze naturali e
paesistiche.
La fondazione di Sabaudia veniva inquadrata
programmaticamente nell’ambito del rapporto
tra la scala paesistica e quella
urbanistica, delle grandi questioni del
decentramento, della disurbanistica e della
formazione del centro comunale minore.
Il suo schema planimetrico, come nelle
antiche città romane, si fonda sulla
struttura del cardo e del decumano (in
questo caso le principali strade, l’una per
Littoria e Roma, l’altra per Terracina). Il
riferimento agli schemi romani di fondazione
urbana sembra però esaurirsi tutto in questa
prima scelta d’impianto. Più decisivi
appaiono, invece, i rimandi alla città
storica italiana, fin dal medioevo; in
questa urgenza di radicarsi nella storia e
nell’architettura urbana, Sabaudia si
distacca in modo netto dalle contemporanee
proposte del razionalismo ortodosso (specie
quello tedesco). Questo richiamo alle
ipotesi insediative stratificatesi nel
tempo, ai modelli urbani e alle relazioni
tra gli spazi aperti e quelli costruiti
nella città, costituisce forse l’apporto più
originale di Sabaudia alla costruzione
dell’urbanistica italiana degli anni ’30 del
secolo scorso.
Se nel progetto per la città pontina si
legge l’attenzione verso le esperienze più
avanzate dell’urbanistica europea, è pur
vero però che non si tralascia di indagare
sul rapporto fra modernità e tradizione,
centrale nella riflessione urbanistica
italiana tra gli anni ’20 e ’30. Proprio la
formazione del centro della città intorno al
complesso sistema piazza civica-piazza
religiosa rimanda ai criteri di definizione
della città medievale, accuratamente
studiati e disegnati da Sitte, ma anche
dallo stesso Piccinato, il quale descrive la
composizione urbana centrale di Sabaudia,
citando precisi riferimenti alla storia
della città italiana9.
La centralità degli aspetti paesistici nella
pianificazione urbana e territoriale, il
rapporto con la storia e la memoria, il
razionalismo delle architetture di Sabaudia,
e il loro presentarsi come realizzazioni
esemplari e dimostrative della città
fascista, sono fattori che contribuirono
ad accentuare il clima rovente e ad
alimentare il tono delle polemiche in cui si
svolse la costruzione della città. Nella
critica e nella storiografia, Sabaudia è
stata quasi unanimemente considerata come
modello ed affermazione, insieme,
dell’architettura moderna in Italia, come la
definiva fin dalla nascita Giuseppe Pagano.
Nella scelta del luogo di fondazione di
Sabaudia sembra potersi cogliere una valenza
simbolica non dissimile da quella implicita
in un rituale geomantico: qui pare aver
espressione (in senso occidentale,
beninteso) una sorta di “architecture du
paysage”10, originariamente
definita in rapporto alle modalità del
disporre le città e i manufatti nella
cultura cinese (fengshui). In
particolare, l’architettura del paesaggio,
all’origine della fondazione della città
pontina, mostra il suo stretto legame con la
civiltà dell’occidente greco-romano, con il
rituale di fondazione urbana posto in atto
dal gromatico.
La nascita della città discende qui da un
atto di fondazione. Come afferma Kerényi, la
città è essa stessa, nella sua costituzione
originaria, “fondazione”, ripetizione
dell’atto creatore, instaurazione11,
in una prospettiva tutta interna alla teoria
rituale del mito, che sembra essere qui
interessante proprio per le implicazioni
etnologiche e filosofiche relative alla
tematica del paesaggio.
Si può, inoltre, notare che la
riproposizione in Sabaudia del dispositivo
cardo-decumanico - in cui peraltro i due
principali assi viari si proiettano
(canonicamente) nel territorio circostante,
come l’originario sistema romano si proietta
nella centuriatio (prima forma di
dispersione territoriale alla scala
europea) - nel suo fondersi con l’assialità
monumentale propria della città fascista,
esibisce un preciso significato simbolico,
direttamente legato all’espressione del
potere nel visibile urbano e territoriale12.
Ma l’emergere dell’identità della città - in
quanto paesaggio costruito - dalla
dimensione puramente fisica (environnementale)
del sito si dà attraverso la definizione di
tratti peculiari, sorta di linee-forza (Berque
li denomina “motifs”) che strutturano il
mondo visibile, tuttavia ancora informe
all’occhio di colui che lo abita, rendendolo
appunto paesaggio.
“Eravamo verso il tramonto, ed il giallo
dell’erica, l’azzurro del lago e del mare,
la massa verde scura del Circeo formava un
quadro di incomparabile bellezza. E lì
pensai potesse sorgere la nuova città”13.
In questo racconto, in questa epifania
del paesaggio, appaiono in nuce i
caratteri salienti del luogo: il suo
necessario situarsi - proprio in quanto
paesaggio - in un quadro prospettico, tra un
primo piano (il giallo dell’erica) e
l’orizzonte (l’azzurro del lago, il verde
del Circeo). Il rituale di fondazione, già
virtualmente contenuto nella identificazione
del luogo, riproduce in senso appropriativo
il processo di percezione del paesaggio, nel
suo situarsi appunto tra il primo piano e
l’orizzonte. Ossia tra i due motivi
essenziali entro i quali si dà, appunto,
paesaggio; si danno cioè le condizioni di
riconoscibilità di un ambiente in quanto
paesaggio. Tra questi due elementi si
instaura, dunque, la presenza dello sguardo,
il suo inizio e la sua fine (al modo del
gromatico che stabilisce i confini
dell’insediamento in relazione ad un lontano
orizzonte cosmologico).
Sabaudia, tra le città del movimento
moderno rappresenta una felice eccezione
proprio dal punto di vista delle qualità del
suo paesaggio. Progettata sin dall’inizio in
rapporto alla grande emergenza naturale del
parco del Circeo - peraltro veicolo di
immagini epiche legate al mito di Ulisse -
Sabaudia pare esprimere, infatti, la
relation paysagère quale carattere
essenziale della propria costituzione. Qui
il progetto moderno non subisce l’ordinaria
scissione tra l’impianto Grosstadt
(alla Hilberseimer) della struttura urbana e
la dimensione naturale, quindi umana, del
paesaggio. Non giustapposizione, dunque, tra
artefatto e natura, ma piuttosto relazione
simbiotica, sempre consapevole; non
negazione delle qualità specifiche del luogo
(in nome di una visione universalistica e
metaforicamente razionale del luogo stesso,
propria del moderno), ma assunzione del
luogo, quindi delle componenti
paesaggistiche, quale principio locale
della costruzione della città.
La bellezza del paesaggio pontino, come si è
già accennato, viene descritta in termini
entusiastici (in etimo) dallo storico
tedesco dell’Ottocento e colto viaggiatore
Ferdinand Gregorovius: “Finalmente giungemmo
al termine della foresta sul versante sud
ovest del monte, ed io provai l’impressione
di un uomo condotto con gli occhi bendati
dinanzi ad uno spettacolo meraviglioso, cui
sia stata d’un tratto levata la benda”. Si
avverte qui la profonda emozione provata dal
viaggiatore tedesco nel contemplare la
pianura pontina dall’alto dei monti Lepini.
Da questa posizione privilegiata, l’agro
doveva apparirgli come un’enorme distesa il
cui orizzonte si confondeva con l’indefinito
azzurro del mare; la vista del paesaggio
dell’intera pianura, da Pomezia a Sabaudia,
poteva forse trasfigurarsi ai suoi occhi in
una immensa città di mare, protetta dalla
catena dei Lepini, come una sorta di
naturale murazione urbana. Ciò che in realtà
Gregorovius poteva vedere era un paesaggio
di paludi e boscaglie, per certi versi
simile a quello francese della Camargue. La
percezione del paesaggio pontino muta
profondamente, però, dopo le trasformazioni
territoriali poste in essere dalla bonifica
durante il fascismo: in luogo delle paludi
salmastre, l’ordinata trama delle colture
agricole, dove solo di rado riappaiono
stagni e piccoli corsi d’acqua, deboli
sopravvivenze della primitiva conformazione.
Riappare, ancora, allo sguardo sulla pianura
pontina - la latina tellus - la
ciclicità ricorrente della natura e del suo
volto: il prosciugamento delle paludi da
terre che, prima ancora di essere invase
dalle acque, erano probabilmente non molto
dissimili da come appaiono oggi. La mano
dell’uomo - il taglio della boscaglia, lo
scavo dei canali, la costruzione di
idrovore, il tracciamento delle strade, la
fondazione delle città - quale moderna
fatica di Sisifo, riporta la natura ad un
suo stato anteriore (originario?), al suo
non essere ancora palude. Una natura che
ritorna, qui, ad un primitivo se stesso,
eppure ancora diverso in quanto modificato
dal lavoro umano.
Al di là dell’agro, ai piedi dei Monti
Lepini, si può leggere la memoria
territoriale e urbana di questa latina
tellus: Cori, Norma, Sermoneta,
Bassiano, Sezze, Roccagorga, Supino.
Insediamenti di origine medievale che
condensano la memoria storica delle città
pontine di fondazione, quasi formando un
complessivo, metaforico centro storico.
Piccole città, dove la cultura del calcare
ha radici nella preistoria, espressa già
nelle potenti mura ciclopiche che, in
origine, le racchiudevano. In prossimità di
Roccagorga sorgeva Ninfa, nelle adiacenze
del Caput fluminis, vasto insieme di
sorgenti che genera il fiume Sisto - il
romano Nymphaeum - prima scaturigine
del sistema delle acque che attraversava la
pianura pontina. Così, all’origine del
genius loci pontino si situa Ninfa,
luogo contrassegnato dal tempio romano di
Driadi. E Ninfa è appunto l’acqua, il
motivo del paesaggio pontino.
Questo doveva allora vedere Gregorovius
dall’alto dei Lepini. L’instabile
luminescenza, mobile e venata delle acque:
un disegno le cui linee di forza conducono
lo sguardo fino al promontorio del Circeo,
laddove Sabaudia verrà fondata. Promontorio
che, nella leggenda, Omero descriveva come
un’isola (tra i luoghi delle peripezie di
Ulisse), e come un’isola ancora oggi appare
dalle alture dei Lepini, specie di segno
indecifrato ancora avvolto nella
indeterminatezza (e con-fusione) del
simbolo.
La nozione di paesaggio come entità
autorefenziale in rapporto all’uomo e la
tematica della relazione tra la soggettività
umana e il paesaggio - ciò che risiede al
fondo della logica dell’identificazione
a partire dalla quale si instaura la
presenza dello sguardo e la transizione
dall’ambiente al paesaggio -
sembrano già profilarsi nell’antica idea del
genius loci14. “Il
paesaggio non esiste al di fuori di noi, che
non esistiamo al di fuori del paesaggio.
Perciò parlare del paesaggio è sempre in una
certa misura autoreferenziale”15.
1
Parigi, 1922 (ed. italiana: Einaudi, Torino,
1980).
2
M. Poëte (2000), Introduction à
l’urbanisme, Sens&Tonka, Parigi, p. 81 e
seg. (I edizione: Boivin, Parigi, 1929).
3
Cfr. D’Alfonso E. (1988), Morphologie et
parcellaire: une réflexion introductive,
in Pierre Merlin (a cura di), “Morphologie
urbaine et parcellare”, p.174, Presses
Universitaires de Vincennes, Saint-Denis,.
4
Berque A., Médiance. De milieux en
paysages (1990), p. 37, Reclus,
Montpellier.
Il senso di un ambiente, secondo Berque, è
simultaneamente significazione, percezione,
orientamento e tendenza effettiva di tale
ambiente in quanto relazione (Berque A.
(1995), Les raisons du paysage, p.
36, Hazan, Parigi).
5
Berque A., Médiance. De milieux en
paysages, cit., p. 32.
6
Tali limiti coesisterono peraltro con
l’obiettivo di dar lavoro al massimo numero
di addetti e, d’altra parte, con
l’atteggiamento ostile degli agrari, restii
ad intraprendere interventi di
trasformazione e miglioramento delle
campagne. Essi rifiutavano, infatti, gli
incentivi statali e sottraevano così le loro
terre alla bonifica. Cfr. Tintori S. (1992),
Piano e pianificatori dall’età
napoleonica al fascismo. Per una storia del
piano regolatore nella città italiana
contemporanea, (IV ed.), FrancoAngeli,
Milano.
7
La fondazione delle città nuove
tendeva alla edificazione di centri rurali
di servizio in aree di recente
colonizzazione, come appunto quella
dell’agro pontino, ponendosi come
realizzazioni promozionali del
regime. I loro stessi nomi - Littoria,
Fertilia, addirittura Mussolinia - appaiono
efficaci richiami propagandistici, emblemi
terminologici della ricerca di una identità
urbana e territoriale che si vuole
autenticamente e totalmente fascista.
Di notevole interesse sono, peraltro, le
correlazioni proposte da Diane Ghirardo tra
le città nuove italiane e le new
towns realizzate negli Usa dopo la
grande crisi del 1929, nell’ambito del
New Deal roosveltiano, anche se le
dimensioni del fenomeno italiano furono
certamente molto minori.
(Cfr. Ghirardo D. (1989), Building New
Communities: New Deal America and Fascist
Italy, Princeton University Press,
Princeton).
8
Piccinato L. (1932), Urbanistica. Città
lineari, in Architettura, p. 33, a. XI.
9
Di Camillo Sitte si veda Der Städtebau
nach seinen Künstlerischen Grundsätzen,
Vienna,1889, (trad. it. di Della Torre R.
(1981), L’arte di costruire le città,
Jaca Book, Milano), in particolare il
capitolo “I gruppi di piazze” (pp. 84-90)
dove si occupa appunto dei sistemi italiani
di piazze di origine medievale, che sembrano
essere il modello dell’organizzazione del
centro di Sabaudia. Di Luigi Piccinato, cfr.
Urbanistica medievale, Edizioni
Dedalo, Bari, 1978, dove è riportato anche
il saggio “Comunità della campagna romana”,
centrato sullo studio delle strutture urbane
dei centri laziali medievali, che più
direttamente testimonia dell’interesse di
Piccinato verso le tematiche della “città
nella storia”.
10
Cfr. Clément Sophie, Clément Pierre, Shin
Yong-hak (1982), Architecture du paysage
en Asie orientale, Ensba, Parigi.
11
Cfr. Kerényi K. (1964), Origine e
fondazione nella mitologia, introduzione
a Jung C. G., Kerényi K., “Prolegomeni allo
studio scientifico della mitologia”, p. 24,
Boringhieri, Torino. Ma anche Mircea Elide
(1967), Il sacro e il profano,
Boringhieri, Torino, per una interpretazione
archetipo-rituale della città come
“fondazione al centro”, oltre che per
l’esplorazione del legame tra dimensione
mitica (simbolica) e dimensione urbana.
12
“È senza dubbio una motivazione
paesaggistica archetipa che si può leggere
nella tendenza di numerose civiltà per le
prospettive rettilinee. (…) La simbolica che
vi soggiace è chiarita, per ciò che concerne
le lingue indo-europee, dalla affinità del
termine derivato dal radicale *RX, il
quale designava all’origine il re-sacerdote,
fondatore di città. Si tratta del rex
italico, il rix celtico, il raj
indiano, ecc. Allo stesso modo, la parola
regione, che significa in origine lo
spazio coperto dallo sguardo portato davanti
a sé. L’associazione tra la vista e la
territorialità è qui evidente”. E più
avanti: “in effetti, l’appropriazione
simbolica che vi si può leggere è la lontana
parente di tutte le pratiche magiche nelle
quali l’immagine della cosa sta per la cosa
stessa (…). (Berque A., Les raysons du
paysage, cit., pp. 43-44 e 45).
13
È la testimonianza di Orsolino Cencelli,
commissario dell’Onc, citata in F. Fichera
(1959), 25° Anniversario di Sabaudia.
1934-1959, Edizioni Ferrazza, Latina.
14
Secondo Christian Norberg-Schulz, “il genius
loci è una concezione romana; secondo una
antica credenza ogni essere indipendente
ha il suo genius, il suo spirito
guardiano. Questo spirito dà vita a popoli e
luoghi, li accompagna dalla nascita alla
morte e determina il loro carattere o
essenza. (...) gli antichi esperirono il
loro ambiente come costituito di caratteri
definiti. In particolare riconobbero essere
di importanza vitale il venire a patti con
il genius della località in cui doveva aver
luogo la loro esistenza” (Genius Loci.
Paesaggio Ambiente Architettura, Electa,
Milano, 1979 (1992), p. 18).
15
Berque A. (1994), Paysage, milieu,
histoire, in “Cinq propositions pour une
theorie du paysage”, p. 27, Champ Vallon,
Sassel. |