Con queste note si vorrebbe sostenere
l’ipotesi che la pianificazione di area
vasta può costituire un approccio utile
anche per affrontare in modo razionale molti
dei conflitti locali che sempre più
spesso si manifestano ogni qual volta è in
atto un intervento di trasformazione del
territorio attivate dall’operatore pubblico
e avente, in qualche modo, un contenuto di
interesse collettivo.
A questo proposito si osservi come in un
recente dossier predisposto dalla Lega
Ambiente, nel quale si presentavano i
dati dei conflitti locali in atto, (anche se
i dati risultassero non completi, essi
potrebbero essere assunti come
rappresentativi), risultavano 119 casi così
suddivisi: 10 riguardano discariche, 6
elettrodotti, 11 impianti di trattamento di
rifiuti, 17 infrastrutture viarie e
ferroviarie, 26 produzione di energia e,
infine, 40 termovalorizzatori1.
I conflitti locali, in generale,
assumono come oggetto di contestazioni
soprattutto una grande opera. La
crescita nella collettività della diffidenza
verso le grandi opere è giustificata
dall’esperienza: molto spesso, infatti,
un’opera che appariva di utilità collettiva
nascondeva interessi molto privati. Gli
indizi che tendono a dimostrare come alcune
grandi opere non rispondevano a
necessità collettive ma venivano realizzate
per interessi individuali (politici,
di prestigio locale, per ricambiare un
sostegno elettorale, per premiare imprese o
gruppi sociali, per consolidare il potere di
elite locali, fino alle … tangenti), sono
numerosi (e spesso verificati anche a
livello giudiziario).
L’analisi delle vere necessità e
l’individuazione delle priorità, le indagini
sul costo di opportunità, sui costi e i
benefici, la valutazione degli impatti
(ambientali, sociali, economici, ecc.) e
tutti i meccanismi che concorrono a
raggiungere una decisione motivata, molto
spesso sono stati sacrificati o mistificati;
l’appello all’urgenza o all’emergenza
giustificano procedure improprie. Insomma
esistono motivate ragioni perché si
manifesti diffidenza collettiva nei riguardi
di tutte le grandi opere.
Tuttavia tale diffidenza ha determinato il
tramonto della cultura delle trasformazioni
e dell’innovazione, in più, ancora peggio,
ha permesso la realizzazione di opere prive
del controllo della collettività e delle
amministrazioni e comunità locali. I
movimenti di contestazione, infatti, si sono
attardate sul semplice “no!” spesso
pregiudiziale e di fatto non sono riuscite,
se non raramente, a bloccare la
realizzazione delle opere pubbliche
contestate con il non apprezzabile risultato
che tali realizzazioni sono risultate
socialmente disconosciute e, di fatto, prive
del necessario controllo collettivo.
È forse tempo che la collettività attenta e
le comunità locali avviino una riflessione e
cerchino di considerare diversamente i
grandi investimenti; è necessario che
l’intelligenza sociale sia in grado di
operare una distinzione tenendo conto delle
effettive necessità di ammodernamento delle
infrastrutture, degli investimenti in grado
di aumentare l’efficienza economica del
paese, della necessità di salvaguardare
l’ambientale e il patrimonio storico, ecc.
Un’opposizione generalizzata alle grandi
opere, come molto spesso appare la
risolutezza sociale, da una parte, non
sembra fruttuosa e, in alcuni casi, appare
ingiustificata.
Detto in modo apodittico non si può essere
indifferenti rispetto alle necessità di
ammodernamento del paese, né si può assumere
il principio che grande sia sempre
negativo e piccolo sia sempre da
preferire o, ancora, che la manutenzione (la
cui necessità non può essere negata) è
sempre da far prevalere sul nuovo. In se
stesse si tratta di contrapposizioni di
comodo.
Pare utile passare a discernere i grandi
investimenti pubblici distinguendo tra
grande opera e opera grande. Si
può definire la prima come un’opera di
regime, il cui oggetto nasconde finalità
diverse da quelle dichiarate, che appare
inutile e, magari, dannosa. Se, per esempio,
si giustificasse la costruzione di un grande
ponte con la motivazione che esso
diventerebbe un’attrattiva turistica e che
porterebbe, per questa strada, nella zona
coinvolta indefiniti e indeterminati
benefici, sarebbe evidente che si sia di
fronte ad una grande opera (da
criticare e ostacolare).
L’opera grande, al contrario,
corrisponde ad una vera necessità, e
deve essere giustificata con ragioni
esplicite e legate direttamente alla stessa
opera. Un’opera, quindi, da sostenere, ma
anche da controllare nella sua
realizzazione.
La collettività e in particolare le comunità
locali, mentre devono godere di tutti gli
appoggi possibili quando contrastano una
grande opera devono essere aiutate, con
argomenti razionali, ad appropriarsi
delle opere grandi che investissero
il loro territorio. Solo in questo modo,
infatti, sarebbe possibile esercitare il
controllo necessario sulla realizzazione,
verificarne continuamente le finalità e gli
effetti, contribuire a definirne la
funzionalità e la coerenza e se necessario
suggerire possibili miglioramenti e
individuare eventuali compensazione a fronte
di eventuali danni. Si tratta di
un’operazione non facile ma alla quale, come
si vedrà più avanti, può dare un qualche
contributo la pianificazione di area vasta,
proprio per i suoi contenuti.
Allo scopo di dare ordine alla questione,
nei paragrafi che seguono si svilupperanno
prima alcune considerazioni sui conflitti
locali, per poi affrontare il tema della
relazione tra conflitti locali e
pianificazione di area vasta.
Conflitto e partecipazione
Il conflitto costituisce la forma più
rilevante e significativa di partecipazione;
i singoli soggetti che partecipano, infatti,
sono disponibili a pagare un prezzo
per portare avanti le loro rivendicazioni,
insomma, un impegno tanto sentito da essere
disponibile ad un impegno costoso (in
termini di tempo, di ricerca, di rischio).
Dicendo questo non si vuole disconoscere che
esistono altre forme di partecipazioni,
alcune anche di qualche utilità operativa
per il decisore pubblico, quanto piuttosto
richiamare l’attenzione sulla forma di
partecipazione che più di ogni altra
interessa questa nota, in particolare quello
che più preme mettere in luce sono i
meccanismi attraverso i quali si determina e
consolida l’obiettivo oggetto del
conflitto.
Il conflitto locale presuppone la
partecipazione di una quota consistente
della popolazione dell’area la quale matura
una consapevolezza e una volontà
comune attraverso un processo
razionale. Dire questo non significa che
si escluda la passione, ma soltanto
che la necessaria passione non può che
fondarsi sulla razionalità, cioè su un
percorso di conoscenza e di confronto.
Questi presupposti non paiono vengano sempre
rispettati, il richiamo ai saperi locali o
tradizionali o l’esistenza di un
pre-giudizio fanno agio sui contributi della
scienza, che vengono negati come
irrilevanti e disattesi o messi in
contrapposizione con altri esiti
scientifici. È evidente che ci possono
essere delle opinioni o dei punti di vista
diversi anche nella scienza (o per
meglio dire tra gli scienziati), ma esistono
metodi di confronto (scientifici) in grado
di dirimere o, per lo meno, di mettere in
chiaro la natura e l’origine delle
divergenze. In realtà dentro un conflitto
sociale si assume che la scienza stia
sempre dalla parte avversa. Pur negando ogni
pretesa di neutralità alla scienza,
vanno esaltati i metodi di confronto
scientifico e gli eventuali approcci che
aiutano a svelare o a strappare i veli degli
interessi nascosti. Il riferimento al sapere
tradizionale e locale non può essere
dirimente, perché proprio per sua natura si
tratta di un sapere conservativo,
frutto di un lento accumularsi di
esperienze, che non prende atto (non può
prendere atto) degli avanzamenti della
conoscenza e anche della maggiore velocità
con la quale oggi si accumulano nuovi
saperi, nuove scoperte, nuove cognizioni.
Che poi una parte del mondo scientifico
abbia scelto di servire un qualche
padrone, piuttosto che la collettività,
spiega un atteggiamento di cautela e anche
di diffidenza, ma non giustifica il
pre-giudizio.
È proprio questo atteggiamento
pregiudizievole che sta alla base, su
questioni controverse, di una posizione che
non vuole sentire le ragioni dell’altro
(questo anche quando l’altro non è
politicamente distante). È chiaro,
tuttavia, che il conflitto locale è
l’espressione di un disagio (in
alcuni casi di una paura) e di una
diffidenza verso le scelte politiche.
Proprio a partire da qui si cercherà di
affrontare alcune questioni che sembrano di
rilievo qualora si volesse ragionare con
l’obiettivo di farli fruttare
nell’interesse della collettività.
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Figura 1
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Mano invisibile
e mano visibile
Come già rilevato, tranne poche eccezioni, i
conflitti locali riguardano
specificatamente opere di interesse
comune. Questa osservazione non parte da
un diverso pregiudizio secondo il quale
tutte le opere presentate come opere di
interesse comune hanno ragion d’essere,
che tutte meritano di essere realizzate, che
tutte sono corrette nelle procedure di
progettazione e valutazione, ecc.; ma,
piuttosto, si intende mettere in evidenza e
cercare di capire perché non risultino
contestate, se non raramente, opere di
interesse privato, che costituiscono
trasformazioni del territorio non sempre
marginali. Mentre l’attenzione politica e la
mobilizzazione si indirizzava verso opere di
interesse comune, la devastazione del
territorio avveniva in silenzio: speculatori
e profittatori hanno saccheggiato il
territorio, gli operatori immobiliari
costituiscono, insieme ai televisivi, le
categorie che hanno concentrato, negli
ultimi anni, il massimo dei guadagni e della
ricchezza. Sulle attività di questi ultimi
l’attenzione è risultata ridotta, al massimo
qualche raccolta di firme sotto appelli o
petizioni, raramente si è avuta una
mobilitazione sociale.
Un motivo di questa situazione è forse
rintracciabile in una posizione
ideologica-culturale: è come se si fosse
interiorizzata la posizione (ideologica) che
assegna al mercato il massimo di
efficienza e di razionalità. È la mano
invisibile che fa aggio sulla mano
visibile, il mercato appare migliore
della decisione politica. Se si trattasse,
forse, della formazione di un’opinione (o
credenza), in larga misura inconsapevole,
renderebbe merito ai propagandisti di questa
posizione, ma farebbe dubitare
dell’esistenza di un’intelligenza sociale
critica diffusa.
Alla base di ogni trasformazione del
territorio si trovano sempre espressioni di
una volontà politico-amministrativa (piani,
programmi, accordi di programma,
concessioni, autorizzazioni, ecc.); alcune
di queste permettono la realizzazione di
obiettivi e di interessi privati e parziali,
mentre altre danno luogo alla realizzazione
di opere di interesse comune, ma sono queste
ultime che trovano, in generale, agguerrite
opposizioni collettive.
È probabile che quello che tende a prevalere
e, quindi, a giustificare un atteggiamento
ostile sia la sfiducia nell’azione
pubblica: si ritiene che non ci si possa
fidare delle decisioni pubbliche che
direttamente realizzano una qualche
trasformazione del territorio. Questa
diffidenza è insieme il frutto di esperienza
e il risultato di una propaganda politica
che, comunque, accusa di inefficienza
l’azione pubblica, un’azione da cui i
cittadini devono difendersi. Non si
deve nascondere, tuttavia, che i caratteri
di molte trasformazioni del territorio per
la realizzazione di opere di interesse
comuni non sono condivisibili. Di esse,
infatti, l’obiettivo dichiarato non sempre
corrisponde a quello reale, maggiore è
l’attenzione alla possibilità di spesa
che non all’opera da realizzare;
relativamente alle procedure, al progetto,
al costo (la revisione prezzi non
solo rappresentava una modalità iniqua
rispetto all’assegnazione, ma finiva per non
permettere, qualora lo si avesse voluto,
nessun controllo sulla spesa), agli elementi
di rischio (comunque sempre negati) tende a
prevalere l’opacità; non pochi i casi di
interesse privato, comprese le continue
manifestazioni di corruzione; nella
progettazione e nella previsione degli esiti
(anche se questi ultimi recentemente sono
più evidenti per effetto dell’obbligo di
effettuare diversi tipi di valutazione) si
può cogliere una forte inettitudine, mentre
sono rari i casi in cui ci sia un
consapevole coinvolgimento delle forze
sociali e degli abitanti delle zone sulle
quali si operano le trasformazioni,
prevalendo, infatti, un rilevante
autoreferenzialità.
Queste caratteristiche, che ovviamente non
si riscontrato in tutte le operazioni di
trasformazione del territorio promosse dal
decisore politico-amministrativo, paiono
sufficienti per alimentare la diffidenza e
per attivare processi volontari di
partecipazione e la promozione di conflitti
locali.
Infine, si deve rilevare come alla base di
ogni conflitto locale non di poco rilievo è
una motivazione di potere e visibilità
(dicendo questo non si vuole escludere le
motivazioni reali). Un movimento
conflittuale ha verso la politica (i
decisori pubblici) un potere maggiore che
non verso i privati: i primi, infatti,
dipendono direttamente dal voto dei
cittadini e, quindi, non possono essere
insensibili al manifestarsi di conflitti
collettivi e la loro attenzione sarà
direttamente proporzionale all’ampiezza e
all’estensione del conflitto.
Verso gli operatori privati il conflitto
locale (altra questione è il conflitto
sindacale) esercita una influenza indiretta,
crea degli ostacoli, sollecita l’intervento
politico, ecc., ma le buone ragioni
dei privati godono di una serie ampia di
garanzie e gli obiettivi del conflitto, in
questo caso, vengono passati attraverso
diversi crivelli (istituzionali, giudiziari,
legali e politici) che ne stemperano la
dirompenza (potrebbe essere questa la
spiegazione, ma non la giustificazione,
della poca attenzione dei movimenti locali
per le azioni private).
Le forze politiche hanno il problema della
visibilità, una questione che cresce di
importanza con la spettacolarizzazione della
politica; è allora evidente che un’opera di
grande dimensione e di grande rilievo possa
essere colta, anche inconsapevolmente, come
una buona occasione per moltiplicare la
visibilità (senza con questo voler sminuire
le ragioni del conflitto).
Conflitti tra interessi generali
Ogni trasformazione di grande scala del
territorio, quelle promosse dall’operatore
pubblico, finisce per ledere un qualche
interesse privato: una strada può
attraversare un fondo rustico; un
inceneritore può essere incompatibile con
un’attività agricola o di servizio; una
ferrovia può produrre un disturbo acustico;
ecc. Tuttavia gli interessi privati e il
loro rapporto con gli interessi collettivi
sono regolati da norme e procedure:
l’esproprio, il risarcimento, ecc. Non si
tratta in genere di conflitti non
componibili, la regolamentazione ne
determina anche le possibilità di
composizione. Va detto, tuttavia, che il
senso comune, secondo il quale un interesse
collettivo deve fare aggio su un interesse
privato, si è perso e non è un caso che ogni
opera pubblica è oggi sottoposta a ricorsi
al Tar e al Consiglio di Stato che quasi mai
hanno un buon fine per i privati ma che
comunque alimentano ritardi, sospensioni,
ecc.
Se questi conflitti in qualche modo sono
componibili, vale la pena di considerare una
famiglia di conflitti che presentano un
tasso di componibilità molto basso e che
sono quelli che possono essere influenzati
dalla pianificazione di area vasta.
La consistenza dei luoghi (ambiente,
paesaggio, l’espressione storica, non
necessariamente della città ma anche del
territorio, ecc.) rappresenta un patrimonio
distintivo e proprio della comunità che quel
luogo abita. Un patrimonio che
rappresenta il risultato di un accumulo di
lente modificazioni anche secolari (ma non
necessariamente di poco rilievo, in questo
caso il tempo trascorso mitiga la
rilevanza della modificazione avvenuta), che
è tutt’uno con la stessa comunità locale e
contribuisce a determinarne l’identità.
Molti di questi elementi meriterebbero
approfondimenti specifici, ma per quanto qui
interessa, questa situazione si può assumere
come un dato di fatto.
La conseguenza di questa impostazione è che
la comunità locale si sente depositaria, per
così dire, di una sorta di diritto di
veto su ogni tentativo di modificazione
di tale consistenza del luogo, o
almeno su quelle modificazioni che la
comunità locale non ritenesse coerente con
la propria visione. È questa la premessa che
fonda ogni azione locale e l’organizzare e
il manifestarsi di conflitti locali. Si
pone, certamente, il problema di chi
rappresenta la comunità, l’intero gruppo
dei cittadini: la sua rappresentanza
legittimamente eletta, una sua maggioranza
o, anche, quanti si assumono l’onere di
esprimersi e di attivare un conflitto? Non
si tratta certo di questioni di poco conto,
ma essi investono compiutamente il
manifestarsi della politica; in presenza di
un gruppo di cittadini che esprime una
contrarietà rispetto ad una trasformazione
della consistenza del proprio patrimonio;
non si può certo far riferimento ad una
ipotetica maggioranza silenziosa, che
in quanto tale non è possibile pesare, ma
contemporaneamente non si può assumere la
posizione di un gruppo (la dimensione del
gruppo non è indifferente) come
rappresentativo di tutta la comunità.
Insomma, si manifesta un problema di
interpretazione e di gestione politica
non affrontabile in questa sede.
Quello che tuttavia pare importante è il
riconoscimento di un diritto all’appropriazione
patrimoniale (da parte della comunità)
della propria consistenza
territoriale. Sarebbe interessante, ma è
fuori dagli obiettivi del presente articolo,
rintracciare le matrici di questo
convincimento abbastanza diffuso:
sicuramente se ne può rintracciare uno
ambientalista, ma anche uno localista,
comunitario e neo-municipalista, fino ad una
radice giusnaturalista; probabilmente molti
filoni di elaborazione hanno contribuito a
questa legittimazione, che riguarda,
trasformazioni della consistenza
territoriale. Infatti, con riferimento ai
conflitti locali attivati in questo o in
altri paesi europei, non si tratta di un
attentato all’identità culturale,
sociale, religiosa, etnica,
ecc. locale da parte di una cultura
estranea, ma soltanto di una decisione che
investe la trasformazione dello spazio, uno
spazio assunto come patrimonio esclusivo
della comunità locale2.
Prescindendo da ogni altra considerazione si
assume:
- che la comunità locale difenda
legittimamente un interesse generale
locale, una difesa motivata e fondata da
un intervento che deriva da una decisione
politica esterna alla comunità locale stessa
o, anche, da una decisione che è stata
condivisa dagli organi di governo locale, ma
non dalla popolazione (o dalla sua parte
attiva);
- che esista effettivamente il pericolo che
la trasformazione indesiderata incida, a
ragion veduta, sulla consistenza del luogo.
L’interesse generale locale potrebbe
essere economico (la messa in crisi di
attività locali), ambientale, estetico,
paesaggistico, ecc. È possibile individuare,
questa è l’ipotesi, la difesa di un
interesse generale locale, incarnato
nella consistenza dei luoghi, che
potrebbe essere manomesso dalla
realizzazione di un’opera pubblica3.
Si assume, cioè, il caso nel quale la
comunità locale ha molte ragioni
(l’opera incide negativamente, l’opera è
stata decisa all’esterno della comunità, la
comunità non è stata coinvolta, ecc.), il
problema (politico e metodologico) è se la
comunità locale abbia anche ragione.
Si assume, contemporaneamente, che la
decisione, relativamente alla realizzazione
dell’opera, presa all’esterno della comunità
locale o con una compartecipazione delle
istituzioni locali, ma senza il
coinvolgimento della popolazione, sia
motivata e che affermi e realizzi un
interesse generale di livello superiore
(per esempio nazionale). La
trasformazione promossa per realizzare un
interesse generale superiore (nazionale)
che si assume essere giustificata, potrà
riguardare la crescita economica, la
maggiore efficienza di specifiche funzioni,
la difesa ambientale, la soluzione di
problemi di organizzazione e di gestione di
servizi, ecc.
Se così fosse si fronteggerebbero un
interesse generale locale e un
interesse generale superiore (nazionale),
ambedue legittimi e fondati. Una situazione,
questa, per la quale non è facile trovare
una soluzione; si può sostenere la
legittimità di una imposizione di autorità
che privilegi l’interesse superiore a
scapito di quello locale; questa soluzione,
tuttavia, non sana il conflitto, anzi può
accentuarlo e radicalizzarlo. Il
suggerimento di far appello al metodo
comunicativo per raggiungere una
decisione condivisa che dia garanzia di
successo è di grande buon senso ma di scarsa
realizzazione (Indovina, 2005), anche se il
massimo impegno deve essere speso al fine di
rendere almeno trasparenti e intelligibili
le questioni.
Quello che, tuttavia, risulta evidente, al
di là di ogni considerazione e valutazione
sui conflitti e sui metodi per giungere ad
una condivisione della decisione, sono i
seguenti elementi:
- la questione non può essere affrontata,
con le comunità locali, a valle della
decisione e una volta che si è messo in atto
un’azione conflittuale. L’ascolto, il
coinvolgimento, la partecipazione dovrebbero
costituire modalità correnti per giungere ad
una decisione (la cui responsabilità comune
è tutta dell’operatore pubblico);
- le forme di coinvolgimento delle comunità
locali, devono far riferimento non all’opera
o, ancora peggio, al frammento di opera che
interessa quel territorio, ma piuttosto al
significato complessivo che quella opera
assume a livello generale. Far riferimento
ad un piano di settore, per esempio, può
essere molto utile, anche se, molte volte,
non risulta adeguato a sciogliere i problemi
locali messi in evidenza;
- un più fondato punto di vista può essere
promosso andando anche oltre il piano di
settore, per inserire la questione in
una prospettiva generale di organizzazione
del territorio, dalla quale possano emergere
compatibilità, vantaggi e costi ed eventuali
compensazioni. Appunto un piano di area
vasta.
|
Figura 2
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Il piano di area vasta
La sede del presente articolo, la rivista
areAVasta, rende pleonastica ogni
definizione di piano di area vasta;
in questo ambito, come è noto e come la
rivista testimonia, si sono fatte diverse
esperienze, tuttavia non si è ancora su un
terreno codificato (Fregolent, 2005).
Inoltre, le diverse legislazioni
urbanistiche regionali hanno introdotto
criteri non sempre tra di loro omogenei. Va
anche ricordato, come prima precisato, che
si guarda al piano di area vasta
secondo un’ottica particolare. Queste sono
tutte buone ragioni per giustificare qualche
breve precisazione sul tema (Indovina 2001).
La recente legislazione urbanistica
regionale, anche se con nomi diversi e con
modalità diverse (Indovina, 2005), tende a
distinguere il piano strutturale, con
durata molto lunga, che serve a definire i
livelli di trasformabilità di un territorio,
e il piano operativo, di durata molto
più breve, tendenzialmente pari al mandato
amministrativo, che permette di realizzare,
all’interno dei limiti fissati nel
precedente piano, le trasformazioni ammesse.
Pare possibile, a partire dalle novità
introdotte nelle legislazioni urbanistiche
regionali, assumere che sia possibile
identificare il piano strutturale con
i contenuti della pianificazione di area
vasta. Va da sé che mentre ogni
schematizzazione costituisce una
semplificazione dei problemi, è altrettanto
evidente come consenta una modalità di
presentazione in chiaro delle
questioni.
Si può riconoscere che la realtà
territoriale, pur presentando un fortissimo
intreccio tra dato ambientale e dato
antropico, proietta nel piano, a seconda del
livello di pianificazione, in misura più o
meno pressante, l’uno o l’altro di tali
elementi.
È possibile identificare l’ambiente (non la
natura) con l’esigenza di conservare,
salvaguardare e, del caso, valorizzare (non
necessariamente dal punto di vista
economico) tutte le risorse non
riproducibili, compresi i beni storici e
culturali. Per elemento antropico si deve
intendere l’espressione dell’esigenza di
spazio della popolazione insediata ai
fini dello sviluppo economico e per
l’esercizio della vita quotidiana. Che si
tratta di elementi in oggettivo contrasto è
evidente, che tale contrasto debba trovare
una equilibrata soluzione pare un
imperativo. Lo strumento di questa
composizione non potrà che essere la
scelta politica, organizzata in un processo
di pianificazione e di adeguate forme di
ascolto e partecipazione
(compresi i conflitti).
La precedente semplificazione porta a
individuare l’elemento ambientale
come quello prevalente nella
pianificazione di area vasta, una
prevalenza che, tuttavia, deve tenere conto
delle domande che derivano dall’elemento
antropico. Quest’ultimo, come è ovvio,
prevale nel piano operativo che a sua volta
tiene conto dell’elemento ambientale.
L’espressione “tenuto conto” è perfettamente
comprensibile nella sua forma letteraria, ma
di assai complessa identificazione e
applicazione in pratica; a questo livello
non si può che fare riferimento ad una
posizione mediata e, si potrebbe dire,
meditata che mentre nega ogni elemento di
assolutismo di ciascuno dei due elementi
richiama fortemente un criterio di equità.
Quindi, si può assumere che il piano di
area vasta è chiamato a individuare, a
maglie larghe (ma non labili), le
destinazioni d’uso del territorio, il
livello di trasformabilità di ogni parte del
territorio stesso, la pressione edificatoria
ammessa in ogni zona e le relative
destinazioni, il reticolo delle
infrastrutture. Con esso si traccia il
confine delle aree urbane che
costituiscono anche le zone di massima
trasformabilità. Il piano, inoltre,
localizza nel territorio gli impianti al
servizio della collettività (tipo, per
esempio, gli impianti relativi al
trattamento dei rifiuti o rilevanti
strutture sportive, ecc.). Inoltre,
individua il patrimonio storico e culturale
da salvaguardare, conservare e restaurare.
Relativamente alle infrastrutture, come si è
detto, vale la pena ribadire che è proprio
di questo livello di pianificazione, insieme
alla mobilità, individuando la maglia che
meglio soddisfa le esigenze della
popolazione e insieme si faccia carico del
rispetto dell’elemento ambientale che
risulta prevalente. Tale piano, le cui
scelte dovrebbero essere durature nel tempo,
costituisce vincolo per ogni
trasformazione del territorio (senza
possibilità alcuna di deroga).
Per giungere alla formulazione di questi
obiettivi, dovrebbero essere attivate,
ovviamente, tutte le forme canoniche (e non)
di partecipazione, confronto, concertazione
e collaborazione: confronto, in modo da
giungere a scelte meditate e mediate, avendo
presente e facendo valere, tuttavia, il
principio che a questo livello prevale,
cioè, l’elemento ambiente. Gli
interessi del presente non possono
fagocitare quelli di lungo periodo, né, da
questi ultimi, cancellati. L’attenta
analisi scientifica e delle tendenze e dei
bisogni, il confronto tra diverse
alternative e la partecipazione dei
cittadini possono costituire gli ingredienti
di un aiuto alla decisione per
l’operatore pubblico, che deve, tuttavia,
assumersi l’onere della scelta.
La rinnovata filosofia autonomista e
il movimento dei nuovi municipi, che
esaltano le autonomie locali, pongono non
pochi problemi; sembra, infatti, prevalere
una declinazione dell’autonomia che
prescinde da ogni esigenza di area vasta,
insomma l’interesse generale locale
pare assumere sempre più una valenza
assoluta. Tale posizione ci pare errata in
teoria e nella pratica, non potendo
prescindere, infatti, dall’equilibrio tra le
diverse zone; equilibrio, tuttavia, che non
può solo essere né proclamato, né affermato
in astratto, ma esplicitato e reso operativo
in modo adeguato. Ciò premesso, tre sono gli
aspetti principali ai quali il piano di
area vasta deve porre attenzione:
1. equilibrio tra le diverse zone: le
differenze, che storicamente si sono
materializzate all’interno del territorio,
le gerarchie territoriali, i processi di
concentrazione produttiva e dei servizi,
devono essere assunti come base, non per
attivare una impossibile e velleitaria
politica di riequilibrio assoluto tra
le diverse parti del territorio, né tanto
meno per giustificare una politica
immobilistica, ma piuttosto per verificare
quanto gerarchie e concentrazioni danno o
meno un contributo positivo alla dinamica
dell’intero territorio, quali correttivi
suggerire, quali modificazioni introdurre,
sempre nell’ottica dell’equilibrio
(dinamico). Non si tratta di limitare lo
sviluppo produttivo dell’intero territorio e
delle sue singole zone, ma piuttosto di
renderlo meno invasivo e distruttivo e,
soprattutto, più equilibrato anche sul piano
sociale;
2. servizi collettivi: il precedente
riferimento alla concezione autonomista
esalta la capacità di ogni singola comunità
di decidere, autonomamente e in base al suo
reddito, la qualità e quantità dei servizi.
Pare una posizione non condivisibile e
fondata su un principio patrimoniale che
mina la convivenza, tuttavia dovrebbe essere
possibile definire uno standard minimo di
servizi per ogni tipologia di comunità da
garantire a tutti i cittadini, come
espressione dei diritti di cittadinanza
nell’ambito del territorio di area vasta. Il
piano di area vasta dovrebbe
esplicitare la metodologia per giungere a
definire, nella specifica situazione, lo
standard minimo e indicare le eventuali
carenze delle singole comunità e le
politiche specifiche da attivare. Si tratta
di una questione che ha anche a che fare con
i conflitti locali, i quali, molto
spesso, oltre che far riferimento ad uno
specifico problema, esprimono anche
l’insoddisfazione per una situazione di
squilibrio tra le diverse zone anche in
relazione alla dotazione dei servizi;
3. qualità della vita: la valutazione
della qualità della vita costituisce un
giudizio soggettivo, ma non bisogna
mistificare, esistono le condizioni minime
(risorse economiche individuali,
accessibilità ai servizi, attrezzature,
infrastrutture, ecc.) che devono essere
garantite. Anche in questo caso si ha una
rilevanza indiretta nei conflitti locali.
Si fa riferimento, in sostanza, ad un punto
di vista forte per la pianificazione di
area vasta: un piano in grado di
indirizzare le pratiche sociali di un
territorio ampio, fissarne le regole
operative, individuando vincoli e
possibilità, con un contenuto cogente su
tutta la parte che si è definita come
elemento ambientale ed essere fortemente
condizionante per l’elemento antropico.
Come precisato oltre, il piano di area
vasta, proprio per i suoi contenuti che
esplicitano i livelli di sviluppo delle
diverse zone, la dotazione in ogni parte di
infrastrutture e servizi, i costi e i
benefici e le opportunità, può costituire un
contributo di rilievo nell’ambito dei
conflitti locali. Non si tratta,
tuttavia, di una prerogativa astratta
assegnata a questo livello di
pianificazione, ma solo un possibile esito
ove il piano si fondi e affermi un principio
di equità territoriale, un controllo delle
risorse, soprattutto, ma non solo, di quelle
rinnovabili, attui processi di sviluppo
locale, promuova il recupero dei patrimoni
storici, culturali e naturali, e
contribuisca ad una equilibrata e opportuna
infrastrutturazione di tutto il territorio e
sia, inoltre, elaborato attraverso forme di
partecipazione e di ascolto. È proprio
questa dimensione complessa che conferma
come la pianificazione sia costituita da un
insieme di politiche coordinate, da
attivare, monitorate e, se del caso,
correggere, al fine di raggiungere gli
obiettivi generali. Non va vista solo come
uno strumento, anche avendo questo
connotato, ma soprattutto come una strategia
articolata che utilizza mezzi opportuni per
realizzare obiettivi espliciti e che mostra
alle popolazioni interessate un loro
possibile futuro.
Un oggettivo contributo al piano di area
vasta lo fornisce proprio perché integra
in un’unica visione un territorio ampio
all’interno del quale siano possibili
compensazioni. Va detto, tuttavia, che non
sempre e non in tutti i luoghi sono presenti
istituzioni di governo diretto per un’area
vasta; in questi casi appare necessario
promuovere la collaborazione
interistituzionale. La dimensione dell’area
di riferimento per questa pianificazione non
può essere amministrativa, ma deve far
riferimento all’integrazione in atto e alle
problematiche emerse (anche attraverso i
conflitti).
La pianificazione non è lo strumento
attraverso il quale una volontà cieca,
incarnata nel potere politico, si impone
sulla collettività e sui singoli; essa è
costituita da una scelta politica, ad occhi
aperti sulla realtà, circa il futuro
di quella stessa comunità. Le modalità,
attraverso le quali si arriva a definire
tale futuro, non potrebbero essere che
quelle democratiche del confronto basato
sulla conoscenza, la più precisa possibile,
della realtà passata e presente e delle
tendenze in atto (Indovina, 2001).
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Figura 3
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Il ruolo della pianificazione di area vasta
nei conflitti locali
La diffidenza verso ogni decisione
politica costituisce un elemento
costitutivo che genera difficoltà nella
comprensione e nell’accettazione, da parte
delle forze sociali e dell’opinione
prevalente, di ogni trasformazione dettata
da un operatore pubblico. Né tale diffidenza
può essere superata con il solo fatto che
sia stato predisposto un piano di area
vasta, i cui contenuti e le modalità di
elaborazione, come già detto, costituiscono
elementi molto importanti per realizzare una
situazione di comprensione.
Contenuti e processi di elaborazione non
costituiscono parti separate, ma al
contrario elementi che si intrecciano
strettamente per realizzare una situazione
che sia al tempo stesso trasparente, attenta
all’ascolto, fondata su precisi indagini
della situazione di fatto, del passato e
delle tendenze future, con obiettivi
chiaramente esplicitati.
Ritornando ai conflitti, quello che pare
rilevante, come già osservato, non è tanto
il contrasto tra un interesse privato e un
interesse generale, per il quale esistono
opportuni strumenti di soluzione. La
questione di difficile composizione è quella
relativa al contrasto tra un interesse
generale locale e un interesse
generale di livello superiore. Questo
tipo di contrasto non necessariamente si
esprime attraverso un conflitto locale,
anche se esso è proprio quello che risulta
di più difficile composizione, ma può
trovare espressione nell’antagonismo tra
diverse amministrazioni. In tal caso,
il contrasto è solo apparentemente
amministrativo, in realtà mette in campo
diversi interessi generali e incorpora
elementi di scelta politica.
Tuttavia, da una parte, per semplificare, e,
dall’altra, perché si tratta dei tipi di
conflitto che maggiormente emergono,
acquisiscono grande visibilità e sono di più
difficile composizione, si farà riferimento
ai conflitti locali che esprimono un
interesse generale locale che si
contrappone ad un interesse generale di
livello superiore.
In linea generale, si è visto, che questi
conflitti riguardano strade e ferrovie,
impianti per il trattamento rifiuti,
impianti energetici, ecc.; cioè opere
che presentano, almeno, le seguenti
caratteristiche:
- sono di interesse comune, molte di queste
corrispondo ad una necessità impellente, il
che vuol dire che molto spesso incorporano
l’urgenza e l’emergenza;
- il loro rilievo non è quasi mai locale,
anche se, in misura variabile, il raggio del
loro interesse travalica la dimensione
locale;
- ciascuna, in misura più o meno rilevante,
esercita un impatto negativo sul territorio,
incide, cioè, su quella che è stata chiamata
la consistenza del territorio ed è la
difesa di tale consistenza che fa maturare
un conflitto locale;
- l’opera che insiste sul quel determinato
territorio, in linea generale, è parte di
un’opera maggiore (un tratto di linea
ferroviaria rispetto alla linea stessa) o
magari di un intervento di settore
(un piano per il trasporto merci o un piano
sul riciclo dei rifiuti urbani), intendendo
con questo che non si tratta di opera
isolata, ma che fa parte di un sistema.
Guardando alle modalità con le quali si
sviluppano i conflitti locali, si dovrebbe
mettere in evidenza che l’opera viene
percepita nella sua singolarità e non
come l’elemento di una catena o filiera che
dir si voglia, e ciò anche quando l’opera,
proprio per la sua natura, è esplicitamente
il segmento di una rete (per esempio
ferroviaria). La questione appare rilevante
e mostra l’effetto dirompente di un
conflitto locale. Infatti, la contestazione
dell’opera ha come effetto di maggior
rilievo la messa in discussione la stessa
rete, il più complessivo sistema di cui
l’opera è parte.
In questi casi, si suole mettere in evidenza
un problema di comunicazione, cioè,
l’incapacità a far comprendere l’importanza
della rete o del sistema rispetto alla
singola opera. Tuttavia, non pare che il
problema sia riducibile al tema della
comunicazione. In realtà c’è l’esaltazione
di ciò che è stato chiamato interesse
generale locale contro quello di livello
superiore.
Ciò che pare venga messo in evidenza da
questo tipo di conflitti è, in realtà,
l’indifferenza che caratterizza la
progettazione e la realizzazione, anche di
opere di sistema, per il territorio
investito. Non è tanto una questione di
comunicazione ma proprio l’assenza di una
concezione integrata del territorio. Nella
migliore delle ipotesi queste opere fanno
parte di un piano di settore, la cui
logica, come dice il termine stesso, è il
settore, mentre molto raramente si
prende in considerazione la consistenza del
territorio investito, quasi mai si fanno i
conti con le emergenze locali.
L’affermazione di un interesse generale di
livello superiore è come se giustificasse
l’assoluta indifferenza per gli interessi
generali locali, il che genera insofferenza
nelle popolazioni locali fino all’emergere
di conflitti.
Più recentemente, anche per iniziativa
dell’Unione europea, il problema specifico
del rapporto opera e territorio
viene risolto da una valutazione,
assolutamente importante ed essenziale, ma
non risolutiva; essa, infatti, può suggerire
elementi di mitigazione, ma quasi mai
alternative credibili. Si facciano tutte le
valutazione richieste, ma il ragionevole
tentativo di soluzione è nel rapporto che
deve istaurarsi tra trasformazioni del
territorio e consistenza del territorio
stesso.
È proprio qui che entra in gioco, almeno
così pare, l’importanza della
pianificazione di area vasta, a
condizione che abbia le caratteristiche
prima indicate. Relativamente al problema
che qui si è posto si avrebbero le seguenti
situazioni positive:
- il punto di vista prevalente sarebbe
quello del territorio nel suo insieme e
soprattutto della sua valenza ambientale e
della relazione tra ambiente e situazione
antropica. L’attenzione, quindi, alla
consistenza dei luoghi sarebbe notevolmente
alta;
- le opere saranno inserite come
elementi di un sistema, ma il loro
posizionamento e la loro localizzazione
risponderanno alle esigenze complessive del
territorio mediando tra esigenze di settore
ed esigenze dei luoghi;
- si terrà conto della situazione di ogni
singola parte del territorio distribuendo in
modo equo svantaggi, vantaggi e opportunità;
- si esalteranno gli elementi positivi di
ogni singola zona e dell’insieme del
territorio e le opere potranno svolgere un
ruolo strumentale a questo scopo.
Non è detto, tuttavia, che pur all’interno
di un quadro di riferimenti dettagliati, in
grado di evidenziare vantaggi e svantaggi,
necessità e costi, reti di relazioni, ecc.,
non possano insorgere lo stesso dei
conflitti locali. Si ritiene, tuttavia, che
la situazione, arricchita dagli elementi del
piano di area vasta, sia più favorevole ai
fini della ricerca di una soluzione. Gli
elementi di conoscenza, i fattori di rete,
le opportunità e le prospettive possono
avere un certo peso nell’indirizzare la
riflessione collettiva. Per esemplificare
non è la stessa cosa trovare soluzione al
rifiuto di una discarica, intesa come
opera singola, rispetto ad un piano per il
trattamento dei rifiuti prodotti nell’area
vasta, un piano che preveda discariche,
impianti di trattamento, termovalorizzatori,
ecc. Un piano, cioè, che affronta il tema
dei rifiuti nella sua complessità e che
localizza i singoli pezzi di questo
piano, nell’ottica complessiva del
territorio e della salvaguardia ambientale,
tenuto conto dell’equità territoriale. Se
questo piano, inoltre, ha avuto il conforto
di una procedura di partecipazione e di
ascolto sarà più facilmente considerato
positivo. Può non essere risolutivo, lo si
metta in conto, ma sicuramente può essere di
aiuto a impostare la questione in modo
corretto.
Va, tuttavia, sottolineato che a fronte di
un conflitto locale, che difende un
interesse generale locale, ove fosse fondato
l’interesse generale di livello superiore,
una decisione positiva va assunta,
nell’ambito delle responsabilità che sono
proprie della nostra struttura dei poteri
istituzionali. La strada di autorità
non sembra possa essere quella più facile e
risolutiva, vale la pena sempre di
perseguire la strada della trasparenza, del
dialogo, della collaborazione e, alla fine,
se fosse necessario, della compensazione.
Documentare con precisione quale sia l’interesse
generale di livello superiore è il primo
passo; rendere trasparenti le implicazioni
della singola scelta nell’ambito di un
settore, sembra il secondo passo;
evidenziare come si sia perseguito,
nell’ambito del piano, la salvaguardia
dell’ambiente e l’interesse di tutte le
singole parti del territorio, è il terzo
passo; cercare il dialogo considerando l’interesse
generale locale come legittimo e
rispettabile, è il quarto passo; trovare una
soluzione soddisfacente a partire dal
calcolo delle esternalità positive e
negative per la comunità locale in modo da
giungere a una forma di compensazione
(economica e non), può essere l’ultimo passo4.
Va, infine, rilevato che se il conflitto tra
questi due interessi generali assumesse una
dimensione consistente e duratura e non
fosse possibile individuare un punto di
composizione, non sarebbe eccessivo
pensare all’esercizio di una funzione di
autorità legittima, che non dovrebbe
essere considerata prevaricatrice e che
comunque dovrebbe attivare le eventuali
compensazioni che si fossero già
individuate. In sostanza, se da una parte
non sembra possibile mettere in discussione
le buone ragioni di una comunità di
cittadini a far valere i loro interessi
generali locali, dall’altra parte non si
può disconoscere l’appartenenza di ogni
comunità locale ad una comunità più ampia
(regionale, nazionale o internazionale), che
sia portatrice di un interesse generale di
livello superiore.
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Figura 4
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Note
1
Va detto che non si tratta di una
particolare condizione italiana; questa
situazione di contestazione di opere
pubbliche si ritrova in molte parti
dell’Europa, per esempio per la Spagna si
veda Nel-lo (2003).
2
Si deve segnalare che l’attenzione della
comunità locale, in generale, si focalizza
sulle trasformazione di grande rilievo e
dimensione (le grandi opere), mentre
appare distratta sulle piccole
trasformazioni (come la costruzione di
tante piccole seconde case in una
zona marina o di montagna). Tali piccole
trasformazioni, tuttavia, nel loro insieme
non risultano meno invasive di una grande
trasformazione, anzi, in certi casi e in
specifici contesti, possono risultare molto
più invasive. È molto probabile che le
piccole trasformazioni siano costitutive di
un interesse privato diffuso (vendita di
terreni o di manufatti agricoli; attivazione
di attività ricettive, ecc.) che investe la
comunità nel suo insieme. Se così fosse, il
concetto di distrazione non potrebbe
essere accettato. Esso traveste l’interesse
diffuso che offusca la percezione delle
trasformazioni che investono la consistenza
patrimoniale dei territori del luogo.
3
Si è già accennato al problema della
rappresentatività rispetto alla comunità
nel suo insieme; si deve rilevare che non
meno importante è l’effettiva capacità
dell’opera pubblica di incidere
negativamente sulla consistenza
patrimoniale.
4
La compensazione è pratica che tende a
diffondersi; essa contiene un principio di
equità (compensa chi subisce un danno
per un interesse generale i cui benefici
ricadono altrove), ma incentiva una pratica
di monetizzazione di tutti i valori che
appare, per certi versi, pericolosa (ma è
questione che necessita di ulteriori
approfondimenti).
Le immagini sono tratte da F. Indovina, L.
Fregolent, M. Savino (2005) (a cura),
L’esplosione della città, Editrice
Compositori.
Bibliografia
Fregolent L. (2005), Governare la
dispersione, FrancoAngeli.
Indovina F. (2001), Del processo di
trasformazione del territorio, in “areAVasta”,
n. 3.
Indovina F. (2005), Governare con
l’urbanistica, Maggioli.
Nel-lo O. (2003), Aqui no!, Empùrie
Editorial, Barcellona. |