Come è noto sul tema della mobilità esistono
due livelli di studi, di ricerche, di
politiche e di azioni, così come due
Ministeri (due assessorati nelle grandi
città) e anche due famiglie di dibattiti.
Da una parte studi, ricerche, politiche e
azioni sulle infrastrutture fisiche di
trasporto, ciò che poggia sul territorio
(governate dal Ministero delle
infrastrutture), cui corrisponde un livello
di dibattito, e spesso di scontro, altissimo
(condotto anche a livello nazionale) tra
promotori a diverso titolo dei progetti ed
enti e/o soggetti locali insediati nei
territori interessati da tali progetti.
Dall’altra parte studi, ricerche, politiche
e azioni su ciò che si muove sulle
infrastrutture, vale a dire mezzi (pubblici
e privati), merci, persone (governati, se
così si può dire, perché trattasi
soprattutto di comportamenti, dal
Ministero dei trasporti) cui corrisponde un
livello di dibattito con minore risonanza
nazionale ma piuttosto minuto, quotidiano,
diffuso nelle pagine locali della stampa, e
complessivamente gravido di scontento
(perché ciò che si muove, soprattutto sulle
strade, genera per lo più rischi per la
sicurezza, la salute e la qualità dello
spazio urbano e ambientale).
C’è evidentemente una relazione tra questi
due livelli, e il secondo si fa
tradizionalmente discendere dal primo; qui
proviamo a dire alcune cose sulle condizioni
in cui si svolge una componente di tale
secondo livello, la mobilità sistematica (o
obbligata) dei lavoratori nel nord
Italia e in particolare in Lombardia: tale
mobilità, anche se rappresenta solo meno di
un terzo dell’intera mobilità del
territorio, è infatti l’unica che può essere
trattata statisticamente, grazie ai
risultati dei censimenti annuali dell’Istat
sugli spostamenti casa-lavoro della
popolazione attiva, e se pure tali
risultati, ogni volta, arrivano con grave
ritardo (circa cinque anni, cioè la meta
dell’intervallo censuario, dunque
disponibili da pochi mesi) rispetto al
momento in cui sono stati rilevati.
È possibile osservare come tale mobilità
cambi vistosamente nei decenni pur in un
quadro infrastrutturale da molto tempo quasi
immutato, come dunque si vada evolvendo in
relazione più ai mutamenti
socio-territoriali dei contesti fisici (il
quadro insediativo e la distribuzione delle
diverse attività) nonché delle più generali
politiche di uso dei trasporti
(accessibilità all’auto, organizzazione dei
servizi di trasporto pubblico), che non
a trasformazioni del sistema
infrastrutturale che anzi spesso si trova
oggi a dovere/volere pericolosamente
rincorrere tale nuova domanda di mobilità.
Descriviamo qui le principali questioni che
sono emerse da una analisi diacronica dei
dati del pendolarismo, trattando ogni
questione a partire da:
a) il quadro generale di riferimento
lombardo, così come emerso da una analisi da
noi svolta (e pubblicata su Territorio n.
35/2005) per 4 regioni del nord Italia, due
sostanzialmente monocentriche, come il
Piemonte e la Lombardia, e due
tendenzialmente policentriche, come il
Veneto e l’Emilia Romagna;
b) i dati relativi alle diverse province
della Lombardia;
c) alcune rappresentazioni, a base comunale,
dei fenomeni rilevati.
Le principali questioni che tratteremo
riguardano:
- l’autocontenimento, e la
diminuzione, ovunque, della capacità dei
comuni di trattenere la propria popolazione
attiva;
- l’attrattività dei capoluoghi di
provincia, e le diverse dinamiche
centrali e periferiche;
- i tempi e modi di trasporto e la
riduzione del trasporto pubblico con
l’aumento dei tempi di viaggio.
L’autocontenimento
Il quadro di riferimento
Malgrado il relativo rallentamento della
crescita degli spostamenti pendolari
extraurbani, che in Lombardia era stata nel
decennio precedente del 26% e che ora tocca
solo il 12% (dove tale valore è superato
solo da quello delle regioni policentriche),
rallentamento dovuto al fatto che nelle
regioni monocentriche la popolazione attiva
è cresciuta pochissimo, si osserva tuttavia
che una ulteriore quota di essa continua a
uscire dal proprio luogo di residenza per
cercare lavoro, riducendo ulteriormente l’autocontenimento
dei comuni.
I dati provinciali
L’autocontenimento, qui espresso come
differenza tra la popolazione attiva di un
ambito di riferimento e la popolazione in
uscita da tale ambito, pesata sulla
popolazione attiva, passa nella Regione
Lombardia, per i tre decenni, dal 65%, al
58% e al 55%, pure in presenza di una
popolazione attiva che, come si è detto, è
rimasta pressoché immutata tra il 1991 e il
2001; decresce molto poco nella provincia
forte di Milano, molto di più nelle province
periferiche di Mantova, Cremona, Pavia,
Brescia; i valori sono molto diversi,
evidentemente, per l’insieme delle province
della regione depurate dai capoluoghi (48,4%
al 2001) e per la somma dei capoluoghi
stessi (80,5%); nelle province senza i
capoluoghi sono sopra alla media le province
più periferiche, soprattutto Sondrio, ma
ancora Mantova, Pavia, Cremona, Brescia,
tradizionalmente caratterizzate da
componenti territoriali montane e agricole,
province che sono anche quelle che abbiamo
detto vedere decrescere più rapidamente il
loro autocontenimento a fronte del mutare
delle loro attività prevalenti; i valori più
bassi sono riscontrabili naturalmente nella
fascia a nord di Milano, tra Como Varese e
Bergamo, in province caratterizzate da una
maggiore intensità di presenza territoriale
di attività produttive. Tra i capoluoghi è
invece sopra al dato medio solo Milano,
mentre tutti gli altri capoluoghi di
provincia risultano inferiori (è
relativamente vicina alla media solo la
città di Sondrio): ma per quanto riguarda
Milano, la sua provincia, depurata dal
capoluogo, risulta essere proprio l’ambito
in cui è più basso, rispetto a tutta la
regione, il valore dell’autocontenimento,
pagando così tutta l’area metropolitana
milanese il prezzo della immediata vicinanza
e dunque della storica dipendenza dal
capoluogo regionale.
La rappresentazione a base comunale
La rappresentazione dell’autocontenimento a
base comunale (Figure 1 e 2)
rende visibile il fenomeno prima descritto
in modo aggregato, e soprattutto se lo si
osserva alle due soglie 1991 e 2001. Le zone
meno autocontenute sono evidentemente quelle
intorno ai capoluoghi di provincia, che però
non sempre emergono nettamente, ad
esclusione di Milano (naturalmente), ma
anche di Pavia, Cremona, Mantova, Brescia e
Como, mentre appartengono ad una fascia di
autocontenimento medio, nel 2001, capoluoghi
come Bergamo, Varese e Lodi. Si presenta
come poco autocontenuta tutta l’area
metropolitana milanese, i cui confini di
basso autocontenimento si ampliano molto
passando dal 1991 al 2001 e con valori
particolarmente deboli lungo le direttrici
per Lodi e per Pavia; si riduce nell’arco
dell’ultimo decennio anche il forte
autocontenimento delle zone più marginali
della regione, come l’Oltrepò mantovano e
quello pavese, e in qualche misura anche la
pianura bresciana e quella bergamasca; ma si
riducono soprattutto alcuni ambiti che nel
1991 erano ancora visibili nell’area
metropolitana milanese come zone di medio
autocontenimento, quali l’asse Monza-Saronno
verso Como, e la direttrice del Sempione
verso Varese.
Figura 1 - Autocontenimento
(popolazione attiva - flussi in
uscita/popolazione attiva) dei
comuni della Lombardia nel 1991 |
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Figura 2 - Autocontenimento
(popolazione attiva - flussi in
uscita/popolazione attiva) dei
comuni della Lombardia nel 2001 |
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L’attrattività dei capoluoghi
Il quadro di riferimento
In tutto il nord Italia è possibile leggere
l’accentuarsi di una dispersione
territoriale degli spostamenti pendolari,
secondo una tendenza ormai ben nota nelle
sue cause e nei suoi effetti a livello
territoriale (la diffusione insediativa),
con una riduzione dell’incidenza degli
spostamenti verso i capoluoghi di ogni
regione, più rilevante per le regioni
monocentriche; in Lombardia, ad esempio,
l’incidenza delle entrate nel capoluogo
milanese (rispetto al totale dei flussi in
uscita) passa dal 22% del 1981, al 19% del
1991 fino a scendere al 13% del 2001, e
questa riduzione vale per tutte le altre
regioni, ma con un positivo corollario, per
quanto riguarda almeno le regioni
monocentriche: in particolare, in Lombardia
(ma anche in Piemonte) sembra aumentare
lievemente, e naturalmente sempre in
percentuale, l’incidenza degli spostamenti
verso tutti gli altri capoluoghi di
provincia, quasi ad adombrare la formazione
di una sorta di policentrismo regionale in
cui assumono rilievo anche polarità
tradizionalmente più deboli rispetto al
capoluogo; va però sempre sottolineato che
il dato della riduzione dell’incidenza
percentuale su Milano è purtroppo riferito
solo ai pendolari, infatti, ricordiamo,
quasi nulla sappiamo di tutti i movimenti
operativi che rendono le direttrici
convergenti sul capoluogo sempre più
congestionate di traffico quotidiano.
I dati provinciali
È possibile organizzare i dati che con i
quali dare conto del grado di centralità dei
capoluoghi provinciali della regione,
secondo due modalità: o leggendo in che modo
ogni provincia converge sul proprio
capoluogo, oppure verificando quale è il
contributo che ogni capoluogo provinciale
riceve dai flussi provenienti da parte di
tutta la regione. Secondo la prima modalità,
nel 2001, tutti i capoluoghi lombardi,
escluso Milano, ricevono dalla propria
provincia contributi che vanno dal 18,5% di
Bergamo (il più basso) al 30,8% di Mantova
(il più alto), con Milano che riceve il 31%
di contributi dalla propria provincia (come
entrate in Milano provenienti dalla
provincia, pesate su tutte le uscite dalla
provincia stessa), sottolineando però che
era il 39% nel 1991 e il 43,7% nel 1981, per
cui il capoluogo riduce di molto la sua
attrattività relativa; secondo la seconda
modalità Milano raccoglie, come già detto,
il 13,5% dei contributi da tutta la regione,
ma tale valore, pure ridotto rispetto ai
decenni precedenti, è pari alla somma dei
contributi ricevuti, dall’ambito regionale,
da tutte le altre province (dallo 0,3% di
Sondrio, il più basso, al 2,5% di Brescia,
il più alto), a sottolineare la centralità
regionale del capoluogo milanese; ritorniamo
però qui al fenomeno che avevamo segnalato
più sopra: mentre l’attrattività relativa di
Milano continua a diminuire, quella degli
altri capoluoghi sembra invece crescere al
2001 (almeno secondo i dati che per primi
sono comparsi sul sito dell’Istat relativo
ai censimenti pendolari), dopo che tale
attrattività si era ridotta tra il 1981 e il
1991, sia per quanto riguarda i contributi
dalla propria provincia, sia per quelli
provenienti da tutta la regione; i
capoluoghi che vedono aumentare la loro
attrattività locale sono soprattutto Pavia e
Cremona, ben integrate nel loro territorio;
i capoluoghi che vedono salire la
percentuale di flussi di provenienza
regionale sono invece Como (comprensiva di
Lecco) e Varese, che pur partendo da valori
relativamente bassi, confermano una tenuta
della storica rilevanza del cosiddetto
triangolo industriale milanese.
La rappresentazione a base comunale
La rappresentazione dell’andamento di quei
flussi pendolari che escludono quelli che
entrano ed escono da tutti i capoluoghi
mostra in Lombardia (Figure 3 e 4)
un significativo addensamento di relazioni
dotate di proprio autosufficienza
soprattutto nel nord milanese (è noto
infatti che il sud milanese è molto più
dipendente dal capoluogo, e con scarse
relazioni intercomunali); questo fenomeno è
visibile soprattutto intorno a Monza, lungo
le principali radiali da Milano, che dunque
si presentano anche come supporto di
sostenuti scambi locali, e soprattutto lungo
l’asse del Sempione che intercetta Legnano,
Busto Arsizio, Gallarate, centri di media
dimensione e di buona attrattività; ma molte
relazioni trasversali sono leggibili anche
nello spicchio del nord-est milanese, al di
qua dell’Adda, fino a interessare tutto
l’ambito lungo la tangenziale est di Milano.
La comparazione tra la rappresentazione dei
flussi, non orientati ai capoluoghi, alle
due soglie del 1991 e del 2001, mostra in
particolare il complessificarsi di tali
relazioni, e la loro crescita soprattutto
nell’est-milanese, lungo l’Adda Martesana, e
nel nord-est, all’interno del Vimercatese e
della Brianza orientale; rimangono invece
pressoché immutati i flussi visibili
(abbiamo scelto di rappresentare solo quelli
superiori alle 100 unità) nel resto della
regione, con presenza di reticoli
significativi tra la bergamasca e il
bresciano, perpendicolarmente all’asse
dell’autostrada Milano-Venezia, e tra il
bresciano e il mantovano, ambito
particolarmente interconnesso.
Figura 3 - Spostamenti pendolari
(superiori o uguali a 100), esclusi
quelli da e per capoluoghi, nel 1991 |
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Figura 4 - Spostamenti pendolari
(superiori o uguali a 100), esclusi
quelli da e per capoluoghi, nel 2001 |
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Gli spostamenti nelle province per tempi e
per modi di trasporto
Il quadro di riferimento
Anche in questo caso è possibile leggere in
tutto il nord Italia lo stesso fenomeno:
l’inarrestabile e progressiva emorragia
nell’uso del mezzo pubblico, molto più
forte, tra il 1991 e il 2001, di quanto non
sia stata tra il 1981 e il 1991, e molto più
rilevante nelle regioni monocentriche, come
la Lombardia, che pure avevano sempre avuto
il primato nell’uso di tale mezzo; la
riduzione è sensibile in Lombardia
soprattutto nella fascia sotto i 30 minuti
di percorrenza (fascia che raccoglie ben il
70% di tutti gli spostamenti), e nella quale
in Lombardia solo il 3,2% dei pendolari (e
ancora meno nelle regioni policentriche) usa
il mezzo pubblico (era il 15% nel 1981),
mentre una qualche migliore tenuta vale per
gli spostamenti, per altro meno numerosi,
oltre i 30/60 minuti di tempo.
Va sottolineato inoltre un altro fenomeno,
comune a tutte le regioni del nord Italia,
vale a dire l’allungamento dei tempi di
viaggio, ancora più visibile nelle regioni
policentriche dove le occasioni si
presentano più disperse: si tratta di un
fenomeno nuovo, in controtendenza rispetto
ai dati del decennio precedente, segnalato
dalla riduzione, in termini percentuali, dei
viaggi compiuti all’interno della fascia
temporale più breve, quella tra 0 e 30
minuti: sostanzialmente i pendolari stanno
dunque in viaggio più a lungo, anche se non
sappiamo se questo dipende dal fatto che
vanno più lontano, verso occasioni
distribuite in un arco territoriale più
ampio, oppure ci mettono semplicemente più
tempo a coprire le stesse distanze, a causa
della congestione stradale e/o della
lentezza dei mezzi pubblici.
I dati provinciali
Abbiamo indagato anche per singole province
quanti sono gli spostamenti sistematici
svolti dai lavoratori con il mezzo pubblico
(treni, tram, autobus), quanti con il mezzo
privato (l’auto, come conducente o come
passeggero, ma anche la moto), quanti con
altre modalità (cioè effettuando spostamenti
a piedi o con la bicicletta), ordinando poi
queste informazioni per fasce orarie, sotto
i 30 minuti, tra 30 e 60 minuti, oltre i 60
minuti, e ritrovando in tutte le province le
linee di tendenza generali sopra richiamate,
seppure con significative intensità diverse.
Circa l’uso del trasporto pubblico (circa il
10% del totale degli spostamenti,
percentuale praticamente dimezzata ovunque
rispetto al decennio precedente) è possibile
identificare, nella realtà Lombarda, quattro
gruppi di province con diverso
comportamento: il primo gruppo, quello che
presenta i maggiori valori di uso del
trasporto pubblico (rispetto alla media
percentuale di uso di tale mezzo) è
costituito dalla Provincia di Milano, come
era logico attendersi, e dalle province
poste immediatamente a sud, cioè quelle di
Lodi, di Pavia, dunque lungo direttrici, tra
cui la via Emilia, ben servite da tale
trasporto (direttrici lungo le quali abbiamo
già visto disporsi i comuni in cui l’autocontenimento
è più basso, e con meno relazioni
trasversali, quindi fortemente dipendenti da
Milano); il secondo gruppo è costituito
dalle province pedemontane di Varese e di
Como, e in qualche misura, per i tragitti
più lunghi, anche di Lecco e di Cremona che
evidentemente usano di più questa modalità
per le percorrenza verso l’area centrale; il
terzo gruppo è costituito dalle province di
Bergamo e di Brescia, collocate in un’area
caratterizzata da ampie relazioni
trasversali di pendolarismo, mal servite dal
trasporto pubblico, ma anche Sondrio,
limitatamente però ai tragitti più brevi;
l’ultimo gruppo, quello in cui l’incidenza
dell’uso del trasporto pubblico è più bassa,
è quello periferico della regione,
rappresentato dalle Province di Mantova a
sud e da quella di Sondrio a nord per quanto
riguarda i tragitti più lunghi: sembrerebbe
dunque che proprio le province più
autocontenute siano quelle che usano di meno
i mezzi pubblici.
Per quanto attiene al tempo impiegato per
spostarsi, l’incidenza dei tempi più bassi,
tra 0 e 30 minuti (che, abbiamo detto, è del
70% sul totale degli spostamenti, ma è
percentualmente in calo ovunque), presenta
valori simmetrici rispetto alle analisi
precedenti: anche qui si possono osservare
quattro gruppi di province, dove ancora c’è
un primo gruppo formato da Milano, Lodi e
Pavia, che in questo caso hanno però una
incidenza di tempi brevi di percorrenza
inferiore alla media, soprattutto per quanto
attiene l’uso del trasporto pubblico, e sono
dunque le province costrette a muoversi più
lentamente o verso destinazioni più lontane
(non a caso erano quelle che usavano di più,
percentualmente, il trasporto pubblico); chi
invece fa, percentualmente, tragitti più
brevi, usando il mezzo pubblico, sono le
Province di Brescia, Bergamo e Mantova, le
stesse che anche usano meno tale modalità, e
che evidentemente se ne servono solo per
spostamenti intercomunali di breve gittata:
ma queste province sono anche quelle in cui
incidono di più i tragitti brevi svolti con
l’auto, evidentemente per una configurazione
e una distribuzione di attività più
reticolare dei loro territori; impiega oltre
i 60 minuti solo il 4,3% dei lombardi che
vanno in auto, contro il 32% di quelli che
usano i mezzi pubblici, che dunque
presentano una discreta tenuta sulle lunghe
distanze: ma si tratta complessivamente, per
chi impiega oltre i 60 minuti di
percorrenza, di una fascia che comprende
solo il 7% dei pendolari, prevalentemente
provenienti da Lodi, Pavia e Cremona, e
sicuramente diretti a Milano.
Emergono ancora due notazioni significative
delle attuali tendenze comportamentali
nella scelta dei mezzi di trasporto,
leggibili se si disaggregano ulteriormente
le categorie pubblico e privato
per le loro specifiche componenti modali:
in Lombardia l’uso dell’autobus extraurbano
è stato gravemente penalizzato, passando dal
12% del 1981 al quasi 5% del 1991, per
scendere a meno del 2% nel 2001, almeno
nella fascia da 0 a 30 minuti; cresce invece
non solo l’uso, atteso, dell’auto come
guidatore (mentre cala, purtroppo, quello
come passeggero, a indicare una
controtendenza rispetto alle speranze
riposte in modalità di spostamento
condiviso, quali il car pooling), ma
cresce anche l’uso delle due ruote a motore,
e soprattutto in Provincia di Milano, e
soprattutto per tragitti brevi: era l’11%
nel 1991 e diventa il 18% nel 2001, con
quasi 100.000 persone su moto o motorini
complessivamente in circolazione nella
Provincia di Milano, contro le 35.000 che
viaggiano sugli autobus intercomunali.
Le ragioni e le politiche
Tutti i fenomeni qui segnalati sono
sicuramente correlati, e la loro dinamica
dipende solo parzialmente dall’assetto
infrastrutturale, mentre decisive sono state
le trasformazioni economiche e insediative,
con l’allontanamento dei luoghi di lavoro da
quelli di residenza (ciò che riduce l’autocontenimento
dei comuni), dovuto soprattutto al passaggio
da una organizzazione del lavoro di tipo
tayloristico, cui corrispondeva una
storica organizzazione centripeta delle
relazioni territoriali, e flussi convergenti
lungo linee di forza radiali, a una
configurazione di tipo post-tayloristico,
con insediamenti diffusi e flussi di
relazione orientati in direzioni molteplici,
dovuti in parte al miglioramento delle
infrastrutture di viabilità che favoriscono
la dispersione dell’habitat, ma soprattutto
a ragioni economiche e sociali da tempo
indagate nella ricerca territoriale, la
diffusione delle attività produttive, i
costi di congestione delle aree centrali, il
decentramento residenziale, per citarne solo
alcuni (ciò che induce una riduzione
percentuale dei flussi sui capoluoghi).
A questo punto si pongono alcune questioni
di fondo:
- per la riduzione dell’autocontenimento:
il fenomeno è quasi certamente tra le
principali cause della congestione e del
traffico stradale, ma è realistico pensare,
e come, ad un arresto o comunque ad un
raffreddamento di tale tendenza?
- per la dispersione territoriale dei
flussi: mentre a Milano si arriva
facilmente con le grandi radiali del
trasporto pubblico di massa, quelle
storicamente determinate da una struttura
che vedeva la gran parte delle occasioni di
lavoro localizzate nel centro, quali
possibilità si offrono oggi ai nuovi
spostamenti reticolari, che si muovono su
percorsi generati da una estrema dispersione
tra le sedi di residenza e quelle di lavoro,
e quali alternative possono darsi all’uso
dell’auto?
- per la diminuzione dell’uso del mezzo
pubblico: se anche i pendolari,
tradizionalmente i più propensi verso l’uso
del mezzo pubblico, per cui godono di
facilitazioni e di tariffe agevolate,
tendono ad abbandonarlo, con quali misure
sarà possibile incentivare l’utilizzo di
tale modalità, per costruire una alternativa
all’uso invece pervasivo e ormai
insostenibile dell’auto? E si troveranno le
risorse per tentare di catturare, se pure
con modalità di trasporto innovative, le
nuove direzioni che la mobilità sistematica
sta assumendo, allontanandosi dalle linee di
forza del territorio?
- per l’allungamento dei tempi di viaggio:
se la mobilità si può misurare come il
prodotto della popolazione attiva (pressoché
stabile) per il numero di spostamenti
giornalieri di ogni individuo (grandezza non
comprimibile) per la lunghezza degli
spostamenti, non è proprio l’allungamento di
tali spostamenti a far aumentare la domanda
di mobilità e a rappresentarne il principale
fattore di crescita, e quindi la variabile
da contenere? (sottolineando che è proprio
l’aumento della domanda ciò che viene sempre
utilizzato, a grande scala, come
giustificazione per la proposizione di nuove
infrastrutture di viabilità, spesso
localmente contrastate).
Le strategie di risposta non possono
evidentemente essere solo di tipo
trasportistico/infrastrutturale (più
infrastrutture, soprattutto stradali), ma
devono intervenire all’origine della domanda
di mobilità, agendo sui fenomeni che la
generano, i luoghi di lavoro, di servizio e
di residenza, e coordinando politiche
territoriali e politiche infrastrutturali,
così da tentare di ridurre se non l’entità
sicuramente la lunghezza degli spostamenti.
Schematizzando molto, questo potrebbe
avvenire attraverso due modalità di
intervento di scenario, una di scala
sovralocale, l’altra più di livello locale.
La modalità sovralocale potrebbe essere
quella, per altro sempre dichiarata, di
localizzare le funzioni territoriali più
attrattive nei nodi metropolitani del
trasporto pubblico, così da godere dell’alta
accessibilità che tale trasporto determina;
quella più locale dovrebbe essere quella di
favorire, a scala comunale, l’integrazione
tra luoghi di lavoro e luoghi di residenza,
evitando, soprattutto nei comuni di prima
cintura, sviluppi immobiliari non correlati
a iniziative orientate ad accrescere il
mercato del lavoro all’interno di bacini
locali, così da non aggravare ulteriormente
la dipendenza dalle grandi città.
Solo contemporaneamente ad un mutato quadro
degli ordini di grandezza dei modi e dei
tempi di spostamento sarà poi possibile
mettere positivamente in campo anche tutte
quelle politiche, non di scenario, non a
base territoriale, ma comportamentali
e legate a modifiche di pratiche d’uso,
quali il rafforzamento dell’uso del
trasporto pubblico, la promozione della
ciclabilità e di modalità condivise di
trasporto con l’auto, i piani degli
spostamenti casa-lavoro, la riorganizzazione
dei tempi urbani, in grado di
incidere ulteriormente sulla quantità e
sulla qualità di tale mobilità.
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