Una grande rete di centri urbani è quella
che ci rassegna la rappresentazione
sinottica dell’attuale geografia della
Sicilia, palinsesto storico
dell’avvicendarsi di svariati popoli,
distillato di vissuti e politiche differenti
riscontrabili nei segni fisici che hanno
plasmato le geometrie del territorio.
Segni che di volta in volta, in siti
coincidenti o diversi, hanno avuto
molteplici significati: di luoghi di culto,
di rappresentazione, di difesa militare, di
affermazione del potere, di insediamenti a
prevalente funzione residenziale o
d’incontro e smistamento commerciali. Tracce
che ancora oggi è possibile rinvenire nella
geo-referenziazione topografica o nella
ricostruzione toponomastica, letteraria e
storiografica in genere, trasformati
comunque dagli usi successivi o cancellati
dal tempo e dall’incuria.
Segni che, al di là della più o meno agevole
identificazione e a prescindere dal loro
costituire o meno coscienti identità
locali delle attuali generazioni, non
portano più in sé i significati funzionali
originari e perciò sono soggetti a subire il
destino che le civiltà pragmatiche (e i loro
mercati) assegnano alle lingue morte: segni
a stento leggibili da pochi appassionati
cultori.
La Sicilia, dunque, appartiene ad una lunga
storia, causa ed effetto della sua ambita
posizione geografica di isola-incrocio1
e per questo crogiuolo di esperienze e
culture che, come il mare che la lambisce,
ad ogni ondata più o meno lunga hanno
lasciato una traccia sull’antico suolo.
Un’isola crocevia che nel suo divenire si fa
altro: epifania di storie dallo
scenario più vasto che attingono
dall’immenso archivio del Mediterraneo
fondendosi in articolati paesaggi urbani e
territoriali; o pietrificata
dall’immobilismo e assuefatta a minime
condizioni di vita generando tessuti
indifferenziati; o illusa da effimeri
episodi produttivi dispensatori di
ricchezze, il cui effetto invece è stato di
distruzione di pregiati contesti
paesaggistici e di abbandono delle
agricolture tradizionali dalle quali sono
derivate quelle ricchezze che hanno
consentito di fornire ai centri antichi
architetture persino ridondanti2.
Alla stessa stregua della pur diffusa
archeologia nell’area della Magna
Grecia, anche i più complessi segni dei
nostri centri storici, sulle piazze dei
mercati globali e fondiari locali, sembrano
avviati verso progressive riduzioni
dimensionali e ineluttabili trasformazioni,
a prescindere dalla collocazione geografica
costiera o interna.
Per fronteggiare un simile trend,
occorrerebbe d’altro canto un forte
interesse socio-economico per il recupero di
funzioni del tutto desuete e anacronistiche,
quale talora indotto solo da eventi
traumatici: si pensi, in epoca bellica, allo
sfollamento delle grandi città in favore dei
più minuscoli e sperduti centri montani … in
ogni caso lontani dai principali mercati
e obiettivi militari (vedi Moravia, La
ciociara).
Governare in pace la crescita di un simile
interesse, senza ricorrere dunque a quella
sorta di traumi, presuppone comunque
l’assunzione di rendite economico-politiche
che in atto appaiono ben distanti dagli
usuali processi di crescita.
Il rischio, infatti, è che lo stesso
disinteresse di mercato, causa di
abbandono delle aree agricole e di degrado
del paesaggio, investa i nuclei antichi
delle città e ne cancelli memoria e
identità.
D’altronde questo è ciò che la cultura
globale tende a portare: un progressivo
appiattimento dei caratteri originari del
paesaggio e dell’insediamento urbano con la
graduale estinzione di attività economiche
tradizionali. Un processo che ha investito
appieno l’isola i cui effetti, come ombra
che avanza, si riscontrano nell’incapacità
di rinnovamento delle splendide
sopravvivenze di culture materiali
destinate, purtroppo, a soccombere sotto le
spinte di una tecnologia imperante e nello
spegnersi di piccole economie simbiotiche
con l’ambiente, ma poco produttive per il
vorace mercato mondiale.
Tuttavia, è nel mondo interno della Sicilia
che è possibile riscontrare patrimoni di
risorse naturali e culturali tali da
arginare gli effetti negativi del trend
globalizzato d’insostenibilità ambientale.
È in questo interno che sopravvivono
suggestivi spartiti per la memoria e
l’identità, impressi nei tessuti antichi
medievali, nel barocco delle costruzioni,
nelle piazze e nella natura che li pervade.
È nelle piccole città interne, concentrate
lungo i crinali e le zone più impervie, che
è possibile trovare le condizioni favorevoli
per avanzare ipotesi rifondative sia in
ambito disciplinare (e qui vale il
riferimento ai “municipi di uomini” di
Magnaghi, Scandurra, Borri e altri), che a
livello di politica economica, ispirate più
alle valenze qualitative e di civiltà della
nostra Costituzione che non a quelle
quantitative dei mercati globali.
Il sistema dei centri minori interni della
Sicilia orientale
L’ordito territoriale che la Sicilia ci
presenta è costituito da un insieme di paesi
e città raggrumati sulle creste dei monti,
sulle pendici dei colli o su ondulati
altipiani che si contrappongono a continuità
urbane costiere3 inframmezzate
dalle chiusure naturali dei promontori.
Le prime, nel loro essere città interne
sono chiuse, intente, come scrive
mirabilmente Sciascia, a “sottrarsi al mare
ed escluderlo dietro un sipario di alture o
di mura”; le seconde, invece, le città
del mare sono proiettate verso l’esterno
pronte a cogliere ciò che di nuovo si
affaccia all’orizzonte, senza pensare a ciò
che questa apertura può comportare in
termini di perdita dei caratteri originari e
per questo fatalmente compromesse da
pratiche di cementificazione spesso
devastanti.
Lasciandoci alle spalle le problematiche
connesse al sistema delle conurbazioni
costiere, il nostro intento è di occuparci
dei piccoli centri interni che rappresentano
l’ossatura portante dell’isola. Sono,
infatti, 333 i piccoli comuni con un numero
di abitanti minore o uguale a 20.000, contro
i 53 centri con popolazione maggiore a tale
soglia (comprendenti anche i 9 comuni
capoluogo di provincia) solitamente disposti
lungo la fascia costiera4 (Figura
1).
Figura 1 - Il sistema dei centri
urbani minori (bianco) rispetto ai
comuni maggiori (grigio) |
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Le brevi distanze che li separano lungo
crinali e impervie trazzere ne infittiscono
il sistema di nodi e non è certo un caso che
le catene dei Peloritani e dei Nebrodi, che
sovrastano il fronte tirrenico della
Provincia di Messina, incontrando quelle di
Enna e Palermo siano frammentate da
centinaia di piccoli territori comunali, i
cui nuclei insediativi sono sorti lungo le
antiche direttrici est-ovest (Messina-Palermo)
piegando a Randazzo verso Catania e
Siracusa-Ragusa, anche per soddisfare
esigenze di tipo militare avviate già in età
bizantina e ulteriormente ampliate durante
il periodo normanno.
Sono un sistema di insediamenti che si
trovano scaglionati lungo precise direttrici
viarie di collegamento fra la parte
occidentale e quella orientale dell’isola,
all’interno di un’area di grande importanza
economica e militarmente strategica, in cui
le sequenze dei centri con le loro torri di
avvistamento e i castelli fortificati
rappresentavano un osservatorio privilegiato
di controllo del territorio5.
Anche se la storia nel suo divenire ha
plasmato le trame urbane originarie di
questi piccoli centri è comunque possibile
leggere la primitiva conformazione del
nucleo insediativo stretto intorno ai
simboli del potere: il castello e l’abbazia,
quasi a sottolineare il rapporto di
sudditanza e il bisogno di protezione
individuale o collettivo. Un intrico di vie
e di vicoli si snoda rivelando nel selciato
l’impervietà dei sentieri di alta quota e su
di esso si affacciano file ordinate di
abitazioni. È un pulviscolo di case, ma
dietro le facciate, simili nel linguaggio
architettonico e formale, si svela il
travaglio continuo di intere generazioni
dipeso dal variare dei bisogni di chi le
abita (Figura 2).
Figura 2 - Il centro abitato di
Agira (En) con il castello che
domina il paesaggio |
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I luoghi dell’abitare insieme ai simboli del
potere politico e religioso e al sistema
viario danno vita così ad un insieme
armonico, frutto di un incontro (non privo
di tensioni e contrasti), tra l’uomo e la
natura, tra la cultura di una comunità e le
fattezze fisiche di un territorio.
Un’opera corale, dunque, coevolutiva,
cresciuta nei tempi storici sovrapposti ai
tempi geologici che acquista i plusvalori
infiniti sottolineati da Alberto Magnaghi6
e che solo un risvolto malinteso impedisce
di apprezzare proprio a chi in borsa
quotidianamente è aduso a rapide stime in
tempo reale.
In tal modo, la lettura della connessione
fra l’urbano e il rurale ci mostra un vasto
repertorio di città, fatto di casi diversi,
d’identità distinte, legate ai differenti
modi d’interazione tra le componenti
storiche, politiche e ambientali.
È il caso dei comuni di origine medievale
dove Arabi e Normanni hanno plasmato forme
urbane, spesso già esistenti ai tempi dei
greci e dei romani, nel rispetto di
morfologie utili sia alla difesa che alla
produzione dei beni economici in un rapporto
ancora leggibile che si esprime
proporzionalmente tra le parti, anche se non
più calibrato sul segno fisico delle mura
– ormai scomparse quasi del tutto – ma che
si fonda sul senso di appartenenza ancora
vivo nella memoria collettiva (Figura 3).
Figura 3 - Il nucleo urbano di
Gagliano Castelferrato (En) visto
dalla rocca del castello |
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Ma è ancora il caso dei comuni fondati nel
periodo del Viceregno7 (tra il XV
e il XIX secolo) con il sistema
politico-amministrativo della licentia
populandi che presentano, in genere, un
impianto viario a maglia ortogonale con
isolati a spina, i cui tipi edilizi
(case terrane e case solarate)
si ripetono quasi ossessivamente all’interno
del tessuto urbano, diversificato dalla
presenza di chiese e palazzi baronali a
testimonianza della redditività agricola
fornita dal contesto territoriale. Qui il
senso identitario di appartenenza sfuma
anche per motivi intrinseci alla fondazione
stessa della città. Popolazioni
diversificate, provenienti da varie parti,
vengono a costituire infatti i nuovi
abitanti della nuova città.
O il caso dei comuni ricostruiti dopo la
furia distruttrice del terremoto del 16938
che ha colpito la Sicilia orientale, le cui
forme urbane presentano una struttura
analoga a quella delle città di fondazione,
escludendo i casi di Avola e Grammichele a
schema radiocentrico.
Ma ad una sistematicità d’impianto delle
nuove città si contrappone un linguaggio
scenografico e fastoso: il barocco
siciliano. Modica, Scicli, Palazzolo Acreide,
Noto (che di quel barocco è unanimemente
riconosciuta come capitale), sono i centri
più rappresentativi di questo stile; e anche
tanti altri piccoli borghi, quelli posti
nelle zone più impervie dell’entroterra
siciliano, dal tessuto urbano
morfologicamente più articolato e complesso
portano in sé testimonianze edilizie e
urbanistiche di questo periodo artistico.
Questa sommaria classificazione, che
evidenzia una situazione molto variegata, ci
fa capire come non pare producente parlare
in generale di centri storici (nella
fattispecie minori), ma occorre
scendere al dettaglio conoscitivo di ciascun
nucleo urbano e del suo territorio, per
calibrare al meglio gli interventi, diretti
verso una riappropriazione sociale dei
valori della cultura materiale della
collettività9.
In tal modo, assume ulteriore significato il
progetto locale di Magnaghi, quando
parla di elaborare trasformazioni del
paesaggio urbano e territoriale condivise e
rispettose della storia di formazione del
luogo stesso, finalizzate alla conservazione
dell’identità e del patrimonio esistente10.
Reti di antiche città, per qualità nuove
Il tema così articolato è ampio e complesso
e richiede una sinergia di azioni che,
partendo dalla conoscenza storica delle
trasformazioni della città e del suo
territorio, abbiano l’obiettivo di
rispettare e accrescere il patrimonio
culturale e ambientale presente.
La mancanza d’interventi sistemici sui
centri antichi non sembra dovuta tanto alla
complessità del tema (esaltata anzi dalla
ricchezza storica del dibattito), quanto
alle distrazioni prodotte nell’ultimo
mezzo secolo dall’incalzare della
modernizzazione e dalle apparenti
semplificazioni che la connotano in termini
di tecnologie.
Sotto questo profilo diventa emblematica
l’espressione usata da Gustavo Giovannoni
“Vecchie città, edilizia nuova” che inaugura
una prima stagione distintiva, ma anche
integrativa, dell’antico dal moderno.
Minore coscienza di tale complessità, fino a
scomparire quasi nell’arroganza di molte
cosiddette grandi opere, è quella che
imperversa ormai a partire dagli anni ’60
che, esaltando i caratteri legati alle più
settoriali difficoltà tecniche, economiche e
politiche, ha trascurato quelli culturali
inerenti il rapporto tra esistente e nuovo.
Da cosa nascerebbero le attuali esigenze di
valutazioni d’impatto o della stessa
ineffabile sostenibilità dello sviluppo,
se non dalla presa d’atto di aver operato in
nome di quantità preclusive di ogni qualità
culturale?
Quello di centro storico è un
concetto che nella disciplina urbanistica
trova definizione solo da mezzo secolo, come
effetto delle crescite urbane seguite alla
fase della ricostruzione post-bellica. Prima
di allora, infatti, centri storici e città
coincidevano. Il perimetro della città,
cioè, corrispondeva generalmente con quello
del suo centro antico, specie nelle sedi più
piccole, la gran parte della quali, dopo
l’Unità d’Italia, non avevano avuto
pressanti esigenze di ampliamenti a
fini di salubrità e decoro degli spazi
urbani (legge 2359/1865)11.
Il destino sull’eventuale crescita dei
centri minori, infatti, è stato sempre
legato a quello delle produttività primarie
(agricole, zootecniche, marinare o
minerarie), ma anche a quello dei trasporti
dei beni prodotti per effetto delle relative
attività economiche.
Il mutato modello produttivo, introdotto dal
macchinismo industriale, ha modificato
progressivamente ogni processo e i nuovi
sistemi di trasporto (ferrovie e navi) hanno
indotto una prima forma di
globalizzazione dei mercati. Gli
originari vantaggi posizionali che
storicamente avevano determinato le scelte
insediative dei siti agricoli posti a quote
funzionali alle esigenze di difesa, ma anche
alle millenarie necessità di trasporto del
cavallo, si sono così trasformati in motivi
di svantaggio quando è subentrato il
cavallo-vapore.
È divenuto peraltro sempre più improbabile
un incremento demografico dei comuni montani
e collinari, ancorché più velocemente
raggiungibili grazie ai nuovi mezzi di
trasporto12.
In ogni caso, a dispetto di funzioni
storiche ed esigenze pratiche o di difesa
ormai desuete, i centri interni sono
sopravvissuti nonostante le trasformazioni
globalizzanti ne abbiano ridotto
progressivamente la vitalità multifunzionale
e tendano a farne (come per le periferie
urbane) luoghi di mera residenzialità.
Il prezzo pagato per la difficoltosa
accessibilità ai siti di produzione e di
servizi è tuttavia compensato da una più
naturale cadenza temporale degli eventi e
spesso anche da una migliore qualità
ambientale. Una migliore offerta
infrastrutturale, anzi, ne metterebbe a
rischio i residui caratteri multifunzionali
accelerando la perdita dei servizi rimasti:
ambulatori, ospedali, preture e persino
scuole che finirebbero per essere trasferiti
e concentrati negli insediamenti maggiori
più prossimi. Paradossalmente una migliore
accessibilità ai centri minori costituirebbe
ulteriore motivo di fuga e di depauperamento
della vitalità multifunzionale.
La complessità della tematica territoriale,
tesa per definizione a mettere al centro il
necessario riequilibrio che la tutela
costituzionale del paesaggio impone negli
effetti, non è stata tuttavia all’ordine del
giorno per quasi un secolo.
Potrebbe, dunque, apparire donchisciottesco
prendere di petto la difficoltà di simili
tematiche, se anche la più recente
legislazione (Codice dei beni culturali e
del paesaggio) sollecita verso una
necessaria azione di recupero del tempo
perduto e delle occasioni mancate13.
E non è un caso che la salvaguardia del
paesaggio agrario e dei siti d’importanza
storica, inclusi nel patrimonio Unesco, sia
vista come obiettivo specifico dei piani
paesaggistici a rimarcare l’univocità
d’intervento che riguarda la
riqualificazione di centri urbani e aree
agricole.
Ma anche una valutazione degli odierni danni
ambientali (oltre che dei costi sociali
prodotti dal trapianto migratorio e
dall’abbandono dei centri minori), come dei
conseguenti dissesti idrogeologici,
sollecita a considerare prioritaria una
politica di complessivo recupero su tutti i
fronti, sia pure nella consapevolezza dello
scomparso carattere sociale che ha
caratterizzato in genere l’intervento
pubblico.
Le svuotate aree centrali, montane e
collinari, la crescita indiscriminata delle
città costiere, la mutazione genetica di
città e territori multifunzionali divenuti
sedi di mero consumo (di beni e servizi
prodotti altrove) e immersi nel
deserto del progressivo abbandono agricolo,
rappresentano oggi il contesto complessivo
nel quale appare prioritario tentare un
recupero riqualificante in chiave di
sostenibilità ambientale14.
Se del resto l’immagine più significativa
della città è generalmente quella modellata
nel suo centro antico (più che nell’anonima
periferia compatta o diffusa), così
l’immagine che resta a livello di area vasta
è quella dei variegati paesaggi (di costa,
di valle, di collina o di montagna) che
fanno del territorio un unico grande
parco15.
Gli interventi, quindi, non possono essere
superficiali o puntuali, cioè non possono
effettuarsi più o meno estesi maquillage
edilizi o urbanistici, piuttosto bisogna
operare all’interno di una sistemica
strategia d’area vasta capace di
conseguire opportunità concrete e vantaggi
economici, a partire da una più articolata
disciplina degli usi delle indefinite e
sempre trascurate zone agricole.
Queste del resto, costituiscono la parte più
consistente del territorio siciliano (almeno
il 96%), e caratterizzano il contesto
paesistico dei tanti centri urbani che,
comunque tutti assieme, occupano appena il
restante 4% dei suoli.
La città, l’industria, l’infrastruttura,
cioè, vanno ricollocate nella dimensione
spaziale che è loro propria: l’ambito-costruito-eccezione,
all’interno del non-urbanizzato che diventa
regola.
Risulterebbe, pertanto, più corretto
iniziare il cammino di riordino del
territorio dalle aree dove l’aspetto
edilizio resta diffuso, dove cioè
il costruito assume il ruolo
dimensionale di eccezione (che gli è
proprio nei fatti) ancorché nefastamente
metastatizzante (Figura 4).
Figura 4 - Il nucleo urbano di
Castiglione di Sicilia (Ct) visto
dall'Alcantara |
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|
L’odierna dequalificazione urbana, alla
quale s’intende contrapporre l’attribuzione
sistemica di nuove qualità, si spiega
come effetto di rinviati (se non trascurati)
approcci alle problematiche complesse della
città antica, da una parte, e del suo
contesto agricolo, dall’altra.
Non è dunque un caso che, in vista
dell’interesse dichiarato dal presente
saggio verso la riqualificazione dei centri
minori interni della Sicilia orientale, si
richiamino il non urbanizzato e le zone
agricole, perché ambedue legati da un
rapporto biunivoco.
Le qualità di un centro antico cioè, sono
insite già in assoluto nei suoi originari
rapporti con la campagna che lo circonda e
non possono essere accresciute nemmeno da
eventuali trasformazioni moderne del suo
contesto; e per converso le qualità
paesaggistiche di quest’ultimo non possono
comunque essere migliorate da trasformazioni
moderne del centro storico (Figura
5).
Figura 5 - La chiesa medievale
Madonna di Lourdes alle porte di
Castiglione di Sicilia (Ct) |
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Il tema della riqualificazione urbana porta,
dunque, a mettere in discussione le forme
usuali, frammentarie e improvvisate
d’investimento delle scarse risorse
pubbliche e ad affrontare i percorsi della
complessa strategia sistemica, impervi per
esigenze di mercato oltremodo mutevoli e
sempre meno attente ai lenti processi di
crescita democratica. Mette pure in
discussione la prassi sinora seguita che ha
privilegiato il recupero delle città
maggiori preferibilmente del nord, dove i
mercati fondiari delle dismissioni
industriali imponevano risposte repentine.
Il problema riguarda al contrario le realtà
dei piccoli e medi centri urbani che
rappresentano il nerbo del paese e
soprattutto quelli del meridione, dove più
rilevanza ha la pratica dell’edificabilità
diffusa e della sostituzione viste come
uniche direzioni di risparmio, in assenza di
alternative economicamente rassicuranti.
In un simile contesto, e lungi dal
riproporre le inadeguatezze procedurali e
applicative di una legislazione urbanistica
(in Sicilia ferma all’epoca delle grandi
espansioni degli anni ’60 e ’70), si
sostiene l’importanza strategica del piano,
almeno come scelta consapevole di priorità
improcrastinabili in un quadro complessivo
in cui gli investimenti trovino il loro
concerto nella tutela e valorizzazione delle
principali risorse territoriali collettive:
aria, acqua, suolo, patrimonio monumentale e
naturalistico (paesaggio).
Risorse territoriali che, superati gli
schemi dell’estetismo romantico connesso
all’originaria epistemologia contemplativa
di bellezze naturali, oggi rientrano
nel più compiuto concetto di paesaggio
tutelato dalla Costituzione, attualizzato
dal DLgs 490/1999 e ora anche dal Codice
Urbani16. Senza dire che nel
quadro della Convenzione europea dei beni
culturali (Firenze 2000) la salvaguardia
delle aree agricole diventa specifico
obiettivo di qualità alla stessa stregua dei
siti patrimonio dell’umanità.
Proprio queste considerazioni, che
riaccostano nuclei antichi e paesaggi di
contesto, sollecitano la ricerca di
soluzioni di riequilibrio. Emblematici a
tale proposito diventano i piccoli centri
interni siciliani che con la crisi del
modello insediativo metropolitano possono
costituire nuovi nodi territoriali di
riferimento in cui sperimentare azioni
d’intervento a specifici contenuti tematici
con l’obiettivo di far emergere le
specificità dei luoghi e innescare – anche
tramite un maggiore interesse turistico –
positive ricadute economiche sulle aree
coinvolte.
Ecco allora che Cerami, Sperlinga, Gagliano
Castelferrato, Agira, Centuripe (in
Provincia di Enna), Castiglione di Sicilia,
Maletto, Mirabella Imbaccari, Vizzini (in
Provincia di Catania), Capizzi, Cesarò,
Floresta (in Provincia di Messina),
Chiaramonte Gulfi, Giarratana, Monterosso
Almo (in Provincia di Ragusa), qui citati
come esempio degli almeno trecento comuni
siciliani minori, da città di appendice o
isolate periferie, sfruttando gli originari
percorsi che in tempi remoti li hanno resi
indispensabili centri di difesa o di
mercato, possono formare un nuovo sistema a
rete di riferimento in cui tentare
applicazioni significative di progetti
locali di sviluppo. Azioni pensate per
sottolineare gli aspetti peculiari degli
spazi e tali da coinvolgere ambiti assai
estesi e variegati, in modo da assumere i
connotati strategici di una vera e propria
pratica di governo del territorio (Figura
6).
Figura 6 - Panorama di Gagliano
Castelferrato (En) |
|
|
Non si tratta, dunque, di garantire una mera
connettività tra isole dal valore
minacciato, ma di puntare verso un nuovo
scenario ecosistemico che riacquisisce
funzioni perdute, in un percorso maieutico
utile anche alla riflessione sui principi di
solidarietà costituzionale e di democrazia
compiuta17.
Note
1
Febbre L. (1966), La terra e l’evoluzione
umana, in “Studi su Riforma e
Rinascimento”, Einaudi, Torino.
2
L’abbandono e il degrado dei centri interni
di piccole e medie dimensioni, come effetto
del richiamo di concentrazioni industriali
(quando e dove queste ci sono state o sono
durate), o di altre forme di polarizzazione
terziaria, hanno fatto da contraltare
all’abbandono delle attività agricole,
generalmente povere, nelle impervie aree di
collina o di montagna e comunque sempre più
povere se confrontate alle redditività
promesse dall’industria e dal terziario. Il
caso di Gela, ad esempio, è emblematico. La
localizzazione costiera degli impianti
industriali per la raffinazione del petrolio
ha drenato le risorse umane interne del
capoluogo di provincia (Caltanissetta) che
ha visto decrescere nel tempo i suoi
abitanti (Gela conta una popolazione di
oltre 80.000 abitanti contro i 60.000 circa
di Caltanissetta). Lo stesso dicasi per le
aree industriali sorte nella Provincia di
Siracusa; a tal proposito racconta Giovanni
Campo: “La scoperta del petrolio e del
metano in Sicilia, dovuta alla tenacia di
Enrico Mattei (la cui tragica fine è
peraltro legata al suo ultimo volo
dall’aeroporto di Catania), con la speranza
di fornire al paese un’autonomia energetica,
offrì ai figli del contadino anche il
privilegio di non dovere emigrare: nel 1950,
a ridosso del relativo sito archeologico di
Megara Iblea sulla penisola di Magnisi, si
insedierà la Rasiom per la raffinazione del
greggio; e nel 1957 nasce lo stabilimento
Sincat per la lavorazione di calce e
cemento. La catabasi dai paesini
dell’interno verso questi nuovi paradisi del
lavoro al coperto e del reddito sicuro tutto
l’anno, ha dunque inizio …”.
3
Ci si riferisce: alle linee costiere
catanesi a nord e a sud, alla costa
tirrenica messinese, alla costiera
palermitana verso Trapani, alle marine
ragusane, ecc. per citare gli esempi più
eclatanti.
4
Cfr. Campo G. (2004), Anabasi di Sicilia,
vol. I, Prova d’Autore, Catania, pag. 37.
5
Per un ulteriore approfondimento
dell’argomento si veda Arcifa L.,
Viabilità e politica stradale. La Sicilia
medievale, in Magnano di San Lio E.,
Pagello E. (a cura di) (2004), “Difese da
difendere. Atlante delle Città Murate di
Sicilia e Malta”, Officine Grafiche Riunite,
Palermo.
6
Magnaghi A. (2000), Il progetto locale,
Bollati Boringhieri, Torino.
7
Come hanno evidenziato diversi studiosi
delle vicende urbanistiche della Sicilia di
cui si citano: Giuffrè M. (a cura di)
(1979), Città nuove di Sicilia XV-XIX
secolo, Vittorietti, Palermo; Sanfilippo
E. D. (1983), Le ragioni del recupero dei
centri minori meridionali, Officina,
Roma; Dato G, Modelli di recupero e
specificità meridionali: i problemi della
città meridionale, in Falini P. (a cura
di) (1986), “Il recupero rinnovato”,
Edizioni Kappa, Roma.
8
Si ricorda che i comuni rasi al suolo
completamente dal devastante terremoto
dell’11 gennaio del 1693 sono 25, mentre
quelli danneggiati più o meno gravemente
sono una trentina.
9
Cabianca V. e altri (1980), Il recupero
democratico delle città – Riappropriazione e
riuso sociale del territorio del capitale
maturo, Officina Edizioni, Roma.
10
Magnaghi A, op. cit, pag. 123.
11
Capo VII - Dei piani di ampliamento -
Art. 93: “I Comuni, per i quali sia
dimostrata l’attuale necessità di estendere
l’abitato, potranno adottare un piano
regolatore di ampliamento in cui siano
tracciate le norme da osservarsi nella
edificazione di nuovi edifizi, a fine di
provvedere alla salubrità dell’abitato e
alla più sicura, comoda e decorosa sua
disposizione”.
12
L’avvento della ferrovia, con la
localizzazione delle stazioni a quote basse
compatibili con le pendenze praticabili ha
ulteriormente penalizzato i comuni montani e
collinari, a dispetto delle storie di cui
ciascuno di essi fosse portatore ed è stato
spesso causa di sdoppiamenti insediativi
sulla costa, come effetto embrionalmente
urbanizzante dei siti delle stazioni.
Sono state stimolate anche le prime grandi
migrazioni siciliane verso i continenti più
lontani, così come più recentemente il
sistema autostradale è servito a rendere più
agevoli quelle verso i paesi europei.
13
Al di là delle contraddizioni che connotano
l’articolato del Codice (rispetto alle forti
aggregazioni proposte nel 1999 dal Testo
unico Melandri), non può trascurarsi
l’ordine concettuale attribuito al contenuto
del piano paesaggistico, specie se si
considera la generale dismissione persino
del termine piano.
14
È dunque ben altra, rispetto a quella delle
amnistianti proposte normative, la politica
di riordino del territorio (e dei suoi
contesti paesistici, marini, collinari o
montani) e di riqualificazione urbana nella
linea della sostenibilità ambientale dello
sviluppo.
15
In tal senso le vicende dei piani dei parchi
siciliani (Etna, Nebrodi, Madonie e
Alcantara) non paiono incoraggianti, né i
procedimenti burocratico-legislativi delle
nuove suggestioni di sanatoria e
condono si rivelano strumenti appropriati ad
una lettura del territorio in chiave di
parco.
16
Ma se è vero che il paesaggio è bene
culturale imprescindibile, in quanto
connotante dell’identità sociale dei luoghi,
allora qualunque sua trasformazione va
assoggettata a preventiva verifica di
compatibilità con le linee di sostenibilità
ambientale e culturale, definite da un piano
strategico delle priorità d’investimento
delle risorse.
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Campo G, op. cit, pagg. 17-24. |